mercoledì 29 luglio 2009

Elisir d'amore per ............il "fool" Mercuzio.



"ROMEO -Basta, via, Mercuzio, basta! Stai parlando del nulla!

MERCUZIO - Sì, di sogni, che sono i figli d'un cervello pigro, fatti solo di vana fantasia, che sono inconsistenti come l'aria, più incostanti del vento, che ora scherza col grembo gelido del settentrione, ed ora, all'improvviso, in tutta furia, se ne va via sbuffando e volge il volto alle stillanti rugiade del sud......."

........Oggi non ci mancano le parole ,ma ci manca chi veramente possa e voglia ascoltare.......

LA CORTE DEI MIRACOLI, 1. IL PAGLIACCIO

Il pagliaccio continuava a muovere le labbra convinto di parlare, ma il suono sempre più gutturale diventava un gracidare inascoltabile, una parodia della voce, tanto che nemmeno l’aria ci faceva più caso. Aveva impressionato inizialmente il suo tuonare di chissà quali oscuri artifici e indovinelli, cavillando sempre, incespicando sul canovaccio di quattro sillabe noiose e scopiazzate, recitando quella farsa alla quale lui solo prendeva parte.Rigurgitava gli acidi indigeriti della sua pochezza, gli effluvi della sua invidia malcelata, il suo veleno ormai scaduto, di pozione magica fasulla.Ma era solo acqua marcia il beverone, liquame, un’impostura pagata cara al mercato delle pulci. Non se ne accorse mai, non sapendo separare quel sapore dal suo fetore stesso.E invece strascicava da lebbroso indefiniti strali, riproponendo in salse nuove parole vecchie e pretenziose, e le cantava amaro. Inascoltato. I suoi urli e le sue minacce si spegnevano come povera cosa di stracci e fango, nell’indifferenza di chi, a suo dire, era colpevole di non saper sentire.A volte, nelle notti solitarie, cercava una parola che gli desse requie, ma essendo un attore cane, anziché memorabili dialoghi compose solo testi di un carosello stanco e lunghe giaculatorie con troppi vocativi e poche evocazioni. E se le leggeva e rileggeva, sino a convincersi che mai suono fu più incalzante, assoluto, estremo.E sorrideva beffardo, convinto com’era, d’aver sferrato un colpo da maestro.E sorrideva maligno credendo che l’invettiva non potesse non cogliere nel segno, cullato dalla presunzione sorda, da fallimenti camuffati in nobili rinunce, dalla soddisfazione di trasformare in parole rabberciate il verminaio che era il suo muoversi nel mondo, e il suo lacero pensare.Ma era solo un macilento pagliaccio, cattivo e becero, che disprezzava le emozioni perché non le provava.E rimaneva lì, tra bucce di patate e vino aceto, ad attorcigliarsi su se stesso, a specchiarsi nell’acqua gialla della latrina sperando che il lerciume gli distorcesse i tratti, deformi e grotteschi, e gli rinnovasse l’illusione d’essere un divo immortale.Come poteva il mondo preferire altro, qualcosa che il suo gusto non sentiva, che anzi repelleva infastidito?E quali erano le vette irraggiungibili che altri sfioravano con leggerezza insospettata?Non c’erano, mai esistite. Tutte palle da smidollati, tutte fantasie di chi declina troppo spesso al sogno.Si accorse, infine, di non saper dire, dire nulla che potesse scalfire istanti, o stagioni, o giorni, e non lo ammise mai, nemmeno a se stesso.E continuò a perpetrare l’inganno usato, fingendosi una platea intimidita e devota che non c’era mai stata, rivomitando quelle quattro frasi che aveva saccheggiato. Ogni tanto la sera, lo si sente passare, mentre grida il contrario di ciò che sente, e se miagola un cane, lui abbaia orgoglioso tanto per risuonare dell’opposto suono.Incespicando declama che il mondo è una fogna e ci sguazza da suino felice, ed insulta quelli che gli passano accanto “perché sono maiali”, sostiene.Attinge al suo formulario disadorno, anatemi sul giusto e il corretto; si gloria avvolgendosi nella luce sporca del lampione e si siede beato su un bidone della spazzatura, gonfia i polmoni di quel salubre odore e tra i ratti saluta i suoi superstiti seguaci.“Domani andremo a spezzare le reni a quel tale, quello che credere di sapere volare, e glielo devo proprio dire, che i miei trucchi gli faranno male! Domani mi sentirà tuonare! ”.Poi un rutto ruppe il silenzio di quella notte ripugnante, l’unico suono vero di quell’insulso parlare.

Montecristo

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