mercoledì 28 dicembre 2011

Elisir d'amore per.......la fragilità e il dono





Fragilità, indifferenza e provvisorietà comune.

Nella nostra esperienza comunitaria ho messo in gioco , istruendo un processo d’amore (philìa), la stessa filosofia rea di pensare solo per conoscere invece di ricercare un modo e un senso del vivere per essere belli,buoni,giusti e felici. Una prassi quotidiana ed esistenziale non un lavoro di cervello. Partendo dalla categoria della fragilità più che della forza…della incompiutezza che della pienezza,della molteplicità più che dell’unità. Nella pratica,insomma, della felicità non cercata nelle teorie astratte ed eteronome ,logiche,etiche,metafisiche o religiose ma nelle autonome vie ,discipline,stili di vita che consentono di uscire indenni ed attivi dalle trappole e tagliole intriganti dell’esistenza. Ma una felicità che non è le tavole della legge mosaica o la legge morale kantiana dentro di noi ma….è “eudaimonia”…cura di sé come .ordine ed equilibrio dei vari demoni della nostra anima individuale e equilibri e giustizia della nostra vita in comune. Per cercare in sé stessi e nelle nostre piccole e grandi comunità un equilibirio ed una armonia capaci di difenderci e ricattarci dalla fragilità della paura ,del dolore e degli squilibri delle diversità e pluralità.La “paesologia” non come una sorta di nuova o vecchia pedagogia del senso,dell’intelletto e della ragione ma una sorta di “esercizio spirituale” attraverso cui ognuno di noi trovava la sua identità (equilibrio) personale e la sua (koinonìa) comunanza sociale con gli altri.Camminare, leggere, meditare, armonizzare la giungla dei propri sentimenti e passioni,ascoltare, fare silenzio, coltivare amicizie,dialogare nella vita concreta di tutti i giorni e nella realtà effettuale .”Scolpire la propria statua” come scriveva Plotino, non per ergerla su un nuovo e d originale piedistallo di potere ma per fare e praticare , come prescriveva la scultura greca e umanistica, opera di sottrazione,di alleggerimenti di scorie per successivi svelamenti.Scappellando dal nostro marmo grezzo ed informe tutto ciò che è falso,superficiale ed inutile che ci si è attacato col tempo culturale al nostro corpo e anima e liberare l’essenziale armonico di quel che noi veramente e autenticamente siamo. Recuperare con questa esperienza anche il senso vero della filosofia non come attività puramente teorica e speculativa ma di recupero-svelamento (alethèia) dell’idea aurorale di filosofia come conversione umanistica,guarigione ,prassi di sanità-armonia mentale. ”Fare il proprio volo ogni giorno” senza abbandonare la nostra specificità di esseri umani terrestri,”..Almeno in momento che può essere breve, purchè sia inteso.Ogni giorno una esperienza umana e territoriale come un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimente migliorare.Uscire dalla durata. Sfozarsi di spogliarsi della proprie passioni,delle vanità, ,del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza.Deporre la pietà el’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta” (Pierre Hadot) .Le idee e i concetti di questo studioso del mondo greco mi hanno fatto pensare al senso che noi vogliamo dare alla parola “rivoluzione” nella nostra esperienza comunitaria e provvisoria: “ rendercene degni” oltre che “immergerci interamente nella politica militante,nella preparazione della rivoluzione sociale”.Fragilità e provvisorietà ci aiutano non solo a resistere ma soprattutto ad essere modernamente consapevoli ed attivi. E’ l’indifferenza il peggiore dei sentimenti freddi che ci costringe in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, creatrice che riscopre la semplicità ela bellezza, ama il silenzio non come rinuncia ma come ricchezza e non ci costringe all’isolamento..Nella indifferenza si inaridisce e si esaurisce una qualsiasi comunità provvisoria interpersonale o di destino che riuscirebbe per incanto anche a rendere vivibile e degno di pensiero…. una vita vissuta anche nella dolore, al margine, nella provvisorietà ,nell’angoscia ,nella sofferenza o nella disperazione per contrastare un nihilismo disperato verso un confortevole passato o un inquietante futuro.Una vita degna di essere vissuta per la sua naturale vitalità e che vede anche solo nel dono gratuito della amicizia (philìa) un possibile superamento dei labirinti consapevoli e inconsapevoli del nostro ego che ci possa far vivere anche il dolore e la sofforenza ,la fragilità, il morire e il nascere nostro ed altrui come qualcosa che ci interessa molto da vicino come un destino comune anche in cui siamo coinvolti anche noi.Una comunità del cuore che va oltre la comunità di cura o di lotta in cui siamo capaci di capire e convivere come nostra anche la fragilità, la difficoltà, la sofferenza degli altri. Un destino comune come esperienza complessa,difficile, affascinante ma anche inquietante. In questo senso mi inquietano e mi affascinano le parole profonde e sofferte della Elda e nel mio caso mi incitano a continuare con testardaggine e ripetitività a vederle necessariamente inserite nel percorso della nostra esperienza comunitaria in Irpinia anche a costo di testate di incomprensioni , dolorose e insopportabili. Per non cadere in un solipsismo nobile e degno che non ci costringe ad inventare,sognare e cercare vie di uscite dignitose in un mondo culturale e politico che ha perso il bandolo umanistico della suo essere vivibile.Ed ho pensato ad un riferimento umano e storico che mi confortasse non solo con bellissime e profonde parole ma con azioni e fatti storici che veramente hanno determinato situazioni e cambiamenti “rivoluzionari” interiori ed esteriori…..
mauro orlando

lunedì 26 dicembre 2011

Elisir d'amore per .......chi non ama il cinismo


Uscendo dal bar ho sbagliato strada. Il vento era fortissimo e nevicava. Il cuore si è gelato sotto il cappotto......f. arminio








CINISMO: (LETTERA AI VIVI)

Scriveva la Rochefoucauld “chi vive senza follie, non è così savio quanto crede”. Sacrosanta verità per demarcare un confine tra vita normale subita e vita impegnata per scelta a saper affrontare “venti fortissimi e nevicate”.
Un lento e inconsapevole morire per un “un cuore gelato sotto il cappotto” parla di noi quando accettiamo supinamente di smarrire il gusto e il senso di una esperienza comunitaria rassegnati alla insensibilità del senso comune, alla rassegnazione del “così va il mondo”, alla connivenza con l’insensatezza della banalità, alla ingenua o consapevole disponibilità a farsi complice di qualunque cosa a qualunque prezzo.
Uno spettro inquietante si aggira come un “venticello” per le nostre terre sopraffacendo la nobilitata e propulsiva “ipocondria” arminiana: il cinismo.
Il cinico contemporaneo non ha come punto di arrivo la classica botte di Diogene ma una ordinata e riconosciuta carriera spesso segnata da frustrazione, rassegnazione e avvilimento morale. Il ‘cinicus’ antico era una forma estrema di affermazione della dignità, una riproposizione coerente di distanza dalle pochezze umane e dai pressappochismi e interessi pratici, della cura di una estrema padronanza e sovranità su se stesso e i propri difetti pubblici e attivazione del governo dei propri demoni interiori negativi come la “razionale auriga” platonica.
Il neocinico cura e ostenta una “falsa coscienza illuminata” con un discreto vocabolario polimorfo e una forma malcelata di “disincanto” che li rende molto efficienti e accettati sul piano pratico.

Qualcuno autorevolmente in modo cattivo ha scritto che il neocinico è “ un caso limite di melanconico che riesce a controllare i suoi sintomi depressivi conservando una certa capacità di lavorare” che mal sopporta “avvisi ai naviganti” disinteressati o venati di ironia e peggio di benevole commiserazione perché “intellettuali e …quindi inutili”.
Bisognerebbe imparare dal “cinismo classico “ dei morti di Franco Arminio ("Cartoline dai Morti" Ed. Nottetempo) che ci regalano una morale fatta di libertà ed autonomia e non “coperte di linus” come alibi pseudopsicologici ma soprattutto con il compito “etico” di riscaldare quotidianamente, profondamente e continuamente il nostro “cuore” infreddolito e debole.
Nella “pòlis” greca il primo atto cinico contro la costruzione di “una comunità” libera e consapevole, avvenne con un atto violento formalmente e simbolicamente reale e tragico.
La restaurata democrazia ateniese aveva bisogno della condanna a morte di Socrate nel 399 a.c. e la promozione sul campo degli “Antistene, Diogene di Sinope, Cratete e Ipparchia” come fatto consequenziale, illuminante e normalizzante.

Con quell’atto si condannava la ragione, il sogno, il sentimento, la fantasia, la democrazia che presume farsi “comunità” di un sapere non commerciale e commerciabile che ha solo il compito di difendersi per smascherare, responsabilità, inadempienze , ostilità, rancori latenti e combattere quelle palesi e praticate. Le ragioni del cuore non possono mai entrare in un orizzonte limitato che gli è estraneo per statuto.
Non vive di pensieri corti, di i rapporti di forza, della pratica o l’ aspirazione dei poteri a tutti i livelli.
Ritornando in metafora : “sbagliare strada” affrontare un ”vento fortissimo e una nevicata” è ancora parte possibile e integrante del vivere umano. Ma evitare sempre e comunque “Il cuore gelato sotto il cappotto” che è il vero e tragico morire sia personale che comunitario anche della limitata vita umana troppo umana …..e per questo…….
“Merita il nome di sapere soltanto ciò che conferisce il giusto ordine all’anima”.

di Mauro Orlando

giovedì 22 dicembre 2011

Elisir d'amore per ......l'Irpinia dei "piccoli paesi"

Un nuovo inizio dall’Irpinia delle colline
Per quanto avverto , come irpino delle diaspore, costretto o capitato a vivere sulle sponde di un lago, il richiamo del sole e del mare Mediterraneo sulle cui rive amo trascorrere gli inverni, mi sono abituato da terra a capire la sfida del mare aperto e compreso il ruolo dell’Oceano come una possibile o necessaria “grande crisi “ epocale o secolare. Sono un uomo dell’appennino abituato agli orizzonti corti verso l’alto o in orizzontale sul lago. Noi irpini non possiamo essere “santi, eroi” ma neppure “navigatori, al massimo “banditi” , piccoli agricoltori,pastori o cacciatori di frodo. I nostri modelli mistici sono umani troppo umani. I nostri viaggi erano legati al nomadismo conoscitivo ,introverso e fantastico della transumanza…. E i nostri tratturi mentali ci portano per il mondo con la promessa a noi stessi di ritornare. Siamo “pastori erranti” dei “piccoli territori o paesi”…dal “vagar breve”. E n inseguiamo “il corso immortale “ della luna non oltre le Colonne d’Ercole o di Thule, se non nei sogni del dovuto riposo come viatico al massimo a fantasticare …..Forse s'avess'io l'ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei”…….Ma al risveglio con sogni burrascosi di avventure , belli o brutti , riprendiamo comunque il viaggio che è anche lavoro. Pur amando i filosofi del tempo presente e dell’avvenire non avvertiamo più neppure la cogenza del Termine imposto al nostro viaggio. Da molto tempo per noi sono ormai abbattute nel loro valore simbolico le Colonne d’Ercole, guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. Sulle nostre terre o sulle nostre coste si sono sentite le parole dei poeti,dei sapienti o dei filosofia «Via sulle navi, filosofi!, era alle soglie della modernità il perentorio invito a prendere il largo lanciato ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire», sollecitandoli a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori», assumendo sguardo vigile pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che accade. Uomini appunto oceanici, atlantici, questi nuovi eroi della conoscenza sono quegli «aerei naviganti dello spirito» che dalla Vecchia Europa sciamavano con la loro fantasia e i loro desideri come uccelli migratori, spiccando il volo alla volta di nuovi più ospitali lidi, pur sapendo che nessun terreno potrà essere da ora in poi sicura dimora, ma soltanto provvisorio punto d’appoggio, base per volare ancora più lontano. Nella Gaia scienza, col titolo Nell’orizzonte dell’infinito Nietzsche scrive :«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!».Siamo agli antipodi del ‘nóstos’ mediterraneo; il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero ‘éxodos’, un salpare senza ritorno nel cuore della crisi di tutto l’occidente europeo e freddo. D’altra parte, parliamo del filosofo che aveva dedicato una poesia a Cristoforo Colombo. Non più ‘póntos’, questo mare spinge piuttosto a tagliare tutti i ponti, a dimenticare perfino la terra ormai definitivamente alle spalle. La sua esperienza terminale a Napoli e sulle nostre spiagge doveva diventare fatale alla sua “eccitata e affaticata ragione”. Ora la nave diviene unica e precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua. Ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che batte rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimite e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli. Un horror vacui, uno sgomento di fronte al Niente potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di ‘nómos’. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, la nostalgia struggente per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con le sue leggi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Questa è la crisi epocale economica,finanziaria ,storica e culturale in cui siamo bandalzosamente imbarcati sospinti dai demoni del capitalismo dopo aver distrutto in noi stessi i demoni della utopia e nella storia gli orrori del totalitarismo egualitario e elitario. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una “dislocazione”, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica? Anche il nostro viaggio immaginario,onirico e reale a Cairano, a Nusco, a Bisaccia, a L’Aquilonia, a Rocca corrispondeva e corrisponde al nostro “costume” irpino di “ umanità precaria delle montagne” provvisoria e terrestre anche quando sogna.. Niente “Colonne d’ercole” , paradisi ed utopie ma un inizio di viaggio periferico, quotidiano,fragile e provvisorio alla ricerca non dei paradisi perduti profani o del Santo Graal divino ma “la grande vita nascosta nei piccoli paesi” delle nostre belle colline che muta di senso,di colori, di misteri, di storie e di espressione ogni giorno sempre ….nella forza della fragilità e nella sicurezza della provvisorietà. Il paese è il luogo del suo farsi male e più prova a scappare più lo agguanta. Qui la sua vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta”.F.Arminio, Circo dell’ipocondria.

Mauro Orlando



mercoledì 14 dicembre 2011

“L’essere consapevoli che la fragilità come esperienza necessaria, significa accogliere e rispettare la fragilità degli altri; senza disconoscerla e senza ferirla”

E. Borgna.



di mauro orlando

Nella nostra esperienza comunitaria ho messo in gioco , istruendo un processo d’amore (philìa), la stessa filosofia rea di pensare solo per conoscere invece di ricercare un modo e un senso del vivere per essere belli,buoni,giusti e felici. Una prassi quotidiana ed esistenziale non un lavoro di cervello. Partendo dalla categoria della fragilità più che della forza…della incompiutezza che della pienezza,della molteplicità più che dell’unità. Nella pratica,insomma, della felicità non cercata nelle teorie astratte ed eteronome ,logiche,etiche,metafisiche o religiose ma nelle autonome vie ,discipline,stili di vita che consentono di uscire indenni ed attivi dalle trappole e tagliole intriganti dell’esistenza. Ma una felicità che non è le tavole della legge mosaica o la legge morale kantiana dentro di noi ma….è “eudaimonia”…cura di sé come .ordine ed equilibrio dei vari demoni della nostra anima individuale e equilibri e giustizia della nostra vita in comune. Per cercare in sé stessi e nelle nostre piccole e grandi comunità un equilibirio ed una armonia capaci di difenderci e ricattarci dalla fragilità della paura ,del dolore e degli squilibri delle diversità e pluralità.La “paesologia” non come una sorta di nuova o vecchia pedagogia del senso,dell’intelletto e della ragione ma una sorta di “esercizio spirituale” attraverso cui ognuno di noi trovava la sua identità (equilibrio) personale e la sua (koinonìa) comunanza sociale con gli altri.Camminare, leggere, meditare, armonizzare la giungla dei propri sentimenti e passioni,ascoltare, fare silenzio, coltivare amicizie,dialogare nella vita concreta di tutti i giorni e nella realtà effettuale .”Scolpire la propria statua” come scriveva Plotino, non per ergerla su un nuovo e d originale piedistallo di potere ma per fare e praticare , come prescriveva la scultura greca e umanistica, opera di sottrazione,di alleggerimenti di scorie per successivi svelamenti.
Scappellando dal nostro marmo grezzo ed informe tutto ciò che è falso,superficiale ed inutile che ci si è attacato col tempo culturale al nostro corpo e anima e liberare l’essenziale armonico di quel che noi veramente e autenticamente siamo. Recuperare con questa esperienza anche il senso vero della filosofia non come attività puramente teorica e speculativa ma di recupero-svelamento (alethèia) dell’idea aurorale di filosofia come conversione umanistica,guarigione ,prassi di sanità-armonia mentale. ”Fare il proprio volo ogni giorno” senza abbandonare la nostra specificità di esseri umani terrestri,”..Almeno in momento che può essere breve, purchè sia inteso.Ogni giorno una esperienza umana e territoriale come un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimente migliorare.Uscire dalla durata. Sfozarsi di spogliarsi della proprie passioni,delle vanità, ,del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza.Deporre la pietà el’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta” (Pierre Hadot) .Le idee e i concetti di questo studioso del mondo greco mi hanno fatto pensare al senso che noi vogliamo dare alla parola “rivoluzione” nella nostra esperienza comunitaria e provvisoria: “ rendercene degni” oltre che “immergerci interamente nella politica militante,nella preparazione della rivoluzione sociale”.Fragilità e provvisorietà ci aiutano non solo a resistere ma soprattutto ad essere modernamente consapevoli ed attivi. E’ l’indifferenza il peggiore dei sentimenti freddi che ci costringe in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, creatrice che riscopre la semplicità ela bellezza, ama il silenzio non come rinuncia ma come ricchezza e non ci costringe all’isolamento..Nella indifferenza si inaridisce e si esaurisce una qualsiasi comunità provvisoria interpersonale o di destino che riuscirebbe per incanto anche a rendere vivibile e degno di pensiero…. una vita vissuta anche nella dolore, al margine, nella provvisorietà ,nell’angoscia ,nella sofferenza o nella disperazione per contrastare un nihilismo disperato verso un confortevole passato o un inquietante futuro.Una vita degna di essere vissuta per la sua naturale vitalità e che vede anche solo nel dono gratuito della amicizia (philìa) un possibile superamento dei labirinti consapevoli e inconsapevoli del nostro ego che ci possa far vivere anche il dolore e la sofforenza ,la fragilità, il morire e il nascere nostro ed altrui come qualcosa che ci interessa molto da vicino come un destino comune anche in cui siamo coinvolti anche noi.Una comunità del cuore che va oltre la comunità di cura o di lotta in cui siamo capaci di capire e convivere come nostra anche la fragilità, la difficoltà, la sofferenza degli altri. Un destino comune come esperienza complessa,difficile, affascinante ma anche inquietante. In questo senso mi inquietano e mi affascinano le parole profonde e sofferte della Elda e nel mio caso mi incitano a continuare con testardaggine e ripetitività a vederle necessariamente inserite nel percorso della nostra esperienza comunitaria in Irpinia anche a costo di testate di incomprensioni , dolorose e insopportabili. Per non cadere in un solipsismo nobile e degno che non ci costringe ad inventare,sognare e cercare vie di uscite dignitose in un mondo culturale e politico che ha perso il bandolo umanistico della suo essere vivibile.Ed ho pensato ad un riferimento umano e storico che mi confortasse non solo con bellissime e profonde parole ma con azioni e fatti storici che veramente hanno determinato situazioni e cambiamenti “rivoluzionari” interiori ed esteriori…..

mauro orlando

lunedì 5 dicembre 2011

Elisir d'amore per .....le parole


E noi le voci e le parole
e noi lontani dal rumore
e un libro ancora da sfogliare
e una coperta e il suo calore...
Così lontani dal rumore
che neanche il vento si sentiva
e il tempo, quello, ci sfiorava
ma poi una notte un viaggiatore...

r. vecchioni







Uomo, la mosca ha un volo più veloce del tuo occhio e una vita più breve del tuo dolore” Anonimo, VII secolo a.C.

“ Interrogammo i templi di Selinunte, il loro silenzio aveva più peso di tante parole”

J.P. Sartre e S. De Beauvoir

di mauro orlando

In questo spazio di sentimenti, idee e pensieri mi piace riscontrare un rispetto e una cura delle “parole”. La storia delle parole viene da lontano e dal profondo e scavare dentro di loro e come “cercare una rotta dentro di sé, della propria storia e della propria terra ”Quanti veli, sedimentazioni, polveri sottili la modernità tecnologica ha accumulato sopra di loro e noi …abbiamo perso tutte le sfumature. E con le sfumature i sentimenti che le accompagnano e le provocano.
Noi stiamo sentendo e praticando la “paesologia” scienza arresa ma esigente.” La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma. Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui” (Franco Arminio) .Noi in questo spazio ci sforziamo di voler bene alle parole e prendercene cura. E ci sforziamo di coltivare l’occhio del poeta per scoprire “la grande vita custodita gelosamente nei piccoli paesi”.
Solo i poeti, infatti, hanno avuto il coraggio sacerdotale di conservarne la forza (dunamis) visionaria e profetica frequentando “l’unica arte in cui la mediocrità è imperdonabile” ricordando sempre che “in Principio c’era la Parola, ma la Parola è stata tradita” (E. Pound).
Ma al di là di questo senso di perdita teologico-metafisica a noi interessa la perdita dei loro colori sentimentali e passionali che nei nostri racconti non riusciamo a vedere e trasmettere normalmente agli altri. Oggi si parla di “colori del buio” che il nihilismo filosofico postmoderno e un teologismo eteronomo e precettivo ha scaricato in dosi massicce sulle parole colorate dei sentimenti e delle passioni.
Andare al di là e dentro il tempo mobile e imprendibile della cultura e della storia e recuperare il sapore ei colori del tempo immobile dei bambini quando “..si giocava e immaginava , si immaginava e giocava. ”Un bambino non sa di poter essere altro, vive in un tempo fermo al presente e al futuro prossimo. E nelle parole ci sono normalità, regole, armonie che nemmeno noti tanto è scontato che ci siano. Oggi ’ l’eccezione, lo sconvolgimento del consueto che ti mette ansia, ti rizza i nervi, ti sbulina l’animo . La più grande bellezza e l’infinita bruttezza partecipano del mistero.
C’è negli antipodi, nel contrasto assurdo, nel diverso in natura come un filo che se lo tiri ti fa sentire vicino a una verità che le cose che le cose di tutti i giorni nemmeno sfiorano. C’è nel lampo e nel tuono una forza che manca alla giornata serena; c’è nella febbre ,nell’incubo notturno, perfino in una sbornia, un indefinibile atto di chiarezza, di certezza improvvisa.
Solo quando qualcosa sconvolge, provoca ci dice molto più di quel che siamo abituati a sentire. L’inspiegabile, l’unico, arriva come a scuoterti, svegliarti come da un sonno di ordinarie, concilianti abitudini.
L’uomo con le parole fredde della burocrazia e della tecnica televisiva ha livellato tutto, pur di far scorrere il suo sangue a quella precisa velocità, far battere il cuore a quel ritmo sempre uguale a se stesso e così vivere il più a lungo possibile, non importa come, non importa a costo di cosa, pur di vivere disegnando un linea dritta, tra immagini a specchi consueti.