lunedì 31 gennaio 2011

Elisir d'amore per ......la paesologia





.Zibaldone di paesologia


di Franco Arminio

Quasi ogni mattina vado a trovare qualche paese come si va a trovare un vecchio zio, vado a vedere che faccia ha, a che punto è la sua malattia o la sua salute. Vado per vedere un paese, ma alla fine è il paese che mi vede, mi dice qualcosa di me che non sa dirmi nessuno.
Ci sono paesi accresciuti, deformati dalla spinta a diventare come le città e ci sono i paesi sperduti, affranti, quelli che non bastano mille curve per toccarli e quando arrivi senti che resterai per poco.
Nei paesi vedi il corso delle cose, l’inizio, lo svolgimento e la fine.
Io appartengo solo al mio paese. Sono un dente dentro la bocca del cavallo, un mattone dentro un muro. Sono il vento che mi agita la testa, che rompe i minuti in cui cammino.
Una volta nei piccoli luoghi si guardava il mondo come a una faccenda che avveniva altrove. Il paese era un altro mondo.
La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma.
Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui.Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura.
Qui nulla avviene immediatamente e ciò che non avviene immediatamente è male, secondo il filosofo Kierkegaard.
Un paese è bello quando ti dà un altro respiro, ti fa capire come ciò che conta è sempre fuori di noi, che la nostra anima è sempre un luogo un po’ fosco e in fondo anche un po’ banale. La meraviglia del mondo è negli alberi, nelle nuvole, nella terra su cui poggiamo i piedi.
Prima dovevi imparare qualcosa per forza. Mungere una vacca , aggiustare un ombrello, portare le pecore all’erba giusta, fare i vestiti, le case, le scarpe, le sedie. Non era tempo di uffici e di chiacchiere.
Certi, a furia di stare sempre nel proprio paese, si scordano di stare nel mondo, nell’universo.
Una delle scene scomparse nella vita dei paesi è quella delle persone che spingevano le macchine: le famose partenze a strappo. Oggi al posto delle 127 ci sono le Audi 4 e non c’è più bisogno di spingere.
Il paese rimpicciolisce anche il narcisismo. Se uno si crede un genio non ci crede mai fino in fondo.
Il paesologo guarda e cammina. Non studia un paese, lo annusa, lo ascolta, ma non si fida di quello che si dice.
Uno arriva in una piazza, guarda delle facce e si fa un’idea del luogo in cui si trova. Pensa ai motivi per cui quel luogo gli piace o non gli piace.
La paesologia potrebbe anche chiamarsi etnologia soggettiva.
Il carattere di un paese dipende molto dalla terra in cui è piantato. Stare sull’argilla non è la stessa cosa che stare sulla roccia. La prima cosa che bisogna insegnare alle persone è un poco di geologia.
Nel posto in cui vivo c’è una libera università degli accidiosi. Io sono docente di una disciplina che si chiama «teoria e tecnica della passeggiata». Ho appreso l’arte in tempi passati.
La sera che ci fu il terremoto io stavo bene. Mi piaceva tutta quella gente per strada, tutti che si guardavano come se ognuno fosse una cosa preziosa. Quando molti si sono messi a dormire nelle macchine mi sono fatto un giro, li ho benedetti uno per uno.
Tutti se la prendono comoda. Tutto si ripete, l’indugio e il rinvio. Forse per questo ai funerali c’è un’aria viva. Forse perché finalmente è successo qualcosa.
Un paese non è un luogo adatto a far transitare il tempo in maniera divertente. Qui si crea quasi naturalmente un gorgo, un peso intenso di smania o inerzia. E allora il tuo peso s’incontra con quello degli altri e ti preme addosso.
La paesologia nasce dall’esigenza di raccontare un fenomeno nuovo, l’alienazione paesana.
In principio erano tribù di guerrieri. Un pedante rancore al posto delle anime feroci. Ora non ci sono lance, non ci sono più pastori e lupi. È tutto un pentolame casalingo: uomini seduti, ombrelli, imbuti.
Se uno abita qui e se ci sta con gli occhi aperti, è costretto a sentirsi invaso da un dolore, oppure invade il luogo col suo dolore.
Ormai sono quattro giorni di fila che vado in giro. Mi sveglio presto ora che i giorni si allungano. Ho fretta di andare verso la luce, verso le cose. Una macchina parcheggiata, un lampione, un cane, una porta chiusa, tutta la giostra del mondo esterno mi pare infinitamente più allettante di questo baraccone di fantasmi che porto in testa.
C’è chi sta fermo e chi va lontano. Io seguo un’altra strada, viaggio nei dintorni.
Quelli che visito più volentieri, quelli che mi emozionano di più sono relitti ad alta quota, monasteri dello sconforto, nascosti nella nebbia e nell’argilla, nella neve degli inverni che durano migliaia di giornate. Adesso questi paesi sembrano reliquie, ossari, barche sfondate. Ed è proprio questa sventura che non finisce mai di produrre qualcosa di sacro, anche se in deboli striature, in dosi omeopatiche.
La paesologia ha due fili: uno di pietas e l’altro di necrofilia.
Vado nei paesi quando le porte sono chiuse, parlo dell’inverno, parlo della stagione vera, non di quella in cui prendono forma di villaggi turistici a uso di emigranti di ritorno e di qualche loro conoscente. Vado nei giorni in cui non va nessuno. Parlo di quei mattini di dicembre in cui la tela è ammuffita e non c’è la chiara pittura della bella giornata e della buona salute.
Il paese, prima che di case e di strade, era fatto dei racconti di cui era fasciato. Immaginate un vasto telaio a cui ognuno forniva il suo filo per tessere un vestito di voci che servivano a farsi compagnia, a rendere più lieve la fatica di stare al mondo.
Quando si parla della grande migrazione degli italiani all’estero di solito si omette di ricordare che non si partiva dalle città, ma dai paesi. Sicuramente chi è partito ha migliorato le sue condizioni, ma il prezzo è stato altissimo. E in questo prezzo bisogna includere anche il dolore di chi è rimasto. Quando uno della famiglia partiva per un po’ di giorni non si cucinava, proprio come accadeva dopo un lutto.
Il mio paese è una nave in un mare di vento.
La paesologia è la scienza che studia i paesi, ma è una scienza strana a cui si dedica un solo scienziato. Una scienza che è il frutto di un banale ripiego: non potendo più vivere nel suo paese ed essendo incapace di lasciarlo, si è deciso a studiarlo.
Noi usiamo una sola parola, paese, per definire cose assai diverse tra loro. È come dare lo stesso nome a una pietra, a un imbuto, a un martello.
Una volta quelli che volevano cambiare il mondo arrivavano per parlare ai braccianti. Adesso dovrebbero parlare ai malati, alle vedove, agli anziani.
Il paesologo non ama il narrare disteso, ma la smania aforistica, la frase singola, spaiata.
I ragazzi non vanno ai funerali dei nonni. Può perfino capitare che il nipote sia al bar a consumare i soldi che il nonno gli ha dato due ore prima di morire.
La paesologia è poco adatta ai luoghi pianeggianti. Per capire come la comunità sia rotta basta andare in un cimitero. Non troverete due lapidi uguali. Eppure in molti casi c’è un solo marmista.
Che lingua si parla nei paesi? Prima c’era il dialetto per la vita comune e un italiano imbarazzato per le occasioni particolari. Adesso c’è una lingua senza carattere, una lingua che non canta, che non resta per aria.
Quello che sembra avere forza è solo ciò che ci sfugge, gli appuntamenti che manchiamo, i baci che non riceviamo, il paese in cui non viviamo.
La paesologia non si occupa di chi parte ma di chi resta. È la disciplina che segue chi non avanza a vele spiegate, ma chi inciampa, chi sente la vita che si guasta giorno per giorno, paese per paese.

(da Vento forte tra Lacedonia e Candela, Laterza 2008)


sabato 29 gennaio 2011

Elisir d'amore per .....gli Egitto" nel mondo e dentro di noi

ribelliamoci


è un freddo inutile
quello che adesso è nelle vie.
il paese è il nido più alto
della desolazione
e più sotto
il colore del mondo
è grigio.

affiggete fuori dalla porta
questo avviso:
ribelliamoci
e che non sia la nostra nuca
di tanto gelo il nido.


franco arminio, 27-01-2011

La rivoluzione di F. Arminio
Voglio la rivoluzione, nient’altro che la rivoluzione. La voglio da me stesso, prima ancora che dal mondo. La voglio perché la furberia dolciastra e la scalmanata indifferenza hanno preso in mano i territori della parola e anche quelli del silenzio. Chi scrive viene tollerato a patto che rimanga nel recinto. Le sue ambizioni possono essere anche altissime, ma solo se vengono esercitate in luoghi millimetrici, invisibili. I fanatici della moderazione avanzano ovunque. In politica come in letteratura.
Io sono fuori da questo mondo e fuori da questa vita. Non è un merito e spero non diventi una colpa. È andata così e sono fatti miei. Dal luogo in cui parlo, con la morte che mi passa nel cuore molte volte al giorno, io sono costretto ad ambire alla rivoluzione, non ho altra scelta. E se guardo un albero, non gli chiedo soltanto di farmi ombra, e se vedo una donna non mi accontento delle solite cerimonie, voglio l’infinito e non mi basta neanche quello, dell’infinito voglio la radice, il luogo in cui inizia, voglio sentire come è cominciata questa infiammazione, questo delirio della materia che chiamiamo vita.
Che cos’è una rivoluzione? Chi è l’uomo “rivoluzionario”? Sono queste le domande che dovrebbero guidare la nostra ricerca e verso le quali condurre le nostre idee,azioni,sentimenti ,sogni,fantasie. Da dove iniziare per cercare le risposte? La via migliore, forse, è quella di osservare quel che accade attorno a noi, di partire dalla nostra esperienza quotidiana, da come nel mondo contemporaneo la politica in senso classico (zoòn politikòn) e l’uomo politico (teknè politikè) entrano nel nostro orizzonte, ci vengono incontro. La politica come” cura di sé e degli altri”, in primo luogo, ci appare un ambito che si colloca accanto e in antitesi critica ed esistenziale ad altri ambiti, e i suoi confini ci appaiono facilmente individuabili, tanto che non incontriamo difficoltà a stabilire quando il discorso verte sulla politica, o sullo sport, o sull’economia, o sulla scienza e così via. Se sentiamo parlare di partiti, di elezioni, di voto, di governo, di parlamento, di Stato, di istituzioni democratiche, non abbiamo dubbi: in gioco è la politica. Ci è così possibile nel corso di una discussione tra amici ‘iniziare’ liberamente a parlare di politica, e altrettanto liberamente di ‘smettere’ di parlarne, e di spostare il discorso su di un altro ambito. Ancor prima che nei discorsi, noi percorriamo ogni giorno i diversi ambiti, volontariamente entriamo e usciamo da essi; in un determinato momento della giornata entriamo nell’ambito del lavoro o dello studio, poi in quello della famiglia, del tempo libero, dello sport, dello spettacolo e anche, sempre se lo vogliamo, in quello della politica.Fare “rivoluzione” oltre che pensarla e programmarla è prima di tutto mettere il proprio “io” al centro della nostra vita nel “confronto-diaologo” con le vite degli “altri”.Il senso rivoluzionario è ll coraggio di esporsi nel racconto della propria “diversità” senza le zattere o le ciambelle di salvataggio di salvataggio dei vari saperi tradizionali …scientifico,filosofico, etico, antropologico e quant’altro.Questo coraggio per me è essenziale per cercare e dare un senso “rivoluzionario” ,possibile,e fattibile alla sfida paesologica…..Il tuo testo è un bello e buon esercizio ……..di libertà ed autonomia non di capi o messia…..
mauro

venerdì 28 gennaio 2011

Elisir d'amore per....... Guido Giannini ...occhio comunitario e paesologico


Ora giovedì 3 febbraio alle ore 18.30 – 04 marzo alle ore 21.30

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Luogo Libreria ” Feltrinelli “,via Santa Caterina a Chiaia 23 -Napoli

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Creato da Guido Giannini, Zelda Sayre Giannini

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Maggiori informazioni Presenteranno il volume:Franco Arminio e Generoso Picone.
In contemporanea sarà inagurata anche la mostra di alcune delle foto pubblicate nel libro

GUIDO GIANNINI : FOTOREPORTER PER VOCAZIONE: IL CHIOSTRO e LIBRARTERIA EDITRICE

“Il fotografo della decenza quotidiana”

L’occhio segreto e radicale di Guido Giannini.

“Uno spettro segreto e inquietante si aggira libero per Cairano…..l’occhio di Guido Giannini! Cairano 7x 2010 sta segnando una sua tappa ulteriore. Lo spazio e il tempo lento e dilatato assieme sconvolgerebbe la stessa ‘ragion pura ‘ kantiana anche se solo al livello della percezione semplicemente estetica senza finalità di ‘razionalizzazioni’ .Qui abbiamo esistenzialmente vissuto il non sentirsi impegnato in nessuna ‘forma a priori’ come obbligo conoscitivo e etico sfiorando in ogni attimo le insidie sofferenti del nihilismo e del relativismo. Abbiamo semplicemente immaginato e concepito il vivere quotidiano e i suoi attimi nelle contrarie maniere di vita come un insieme complesso di contingenza strane e impossibili. Ci ha individualmente aiutati ad apprezzare la ricchezza del possibile e assieme a consolarci dell ‘angustia del presente .Qualcuno ha scritto saggiamente che “ l’universo contiene sempre molte più cose di quelle che al momento è possibile trovarvi”.

Ciò significa essere obbligati a pensare nelle contrarie maniere di vita o possibilità di vita che altrimenti saremmo condannati a non vedere coinvolti nei nostri problemi quotidiani della nostra contemporaneità:la permanenza della memoria, l’insidia dell’oblio,le strategie necessarie per conservala o costruirla, le pretese assolute delle morali,la ‘relatività’ dei buoni e laboriosi costumi, i pericoli dell’identità e le strategie che mettiamo in essere per sopravvivere o vivere la nostra funzione sociale o professionale.In questi giorni di ‘ozio cairanese’ ci siamo prefissi o ci sono donati delle ‘radure’ in cui prendere fiato, regolare il respiro, esercitare l’ascolto, allontanare il silenzio assordante e infinito , gli spazi senza limiti e confini. Una radura abituale e obbligata è il mitico Bar di ‘angiolino’ dove in questi giorni sulle pareti sono in bella vista esposti le splendide fotografie di Guido Giannini… una sorta di ‘abbecedario’ realistico e non visionario di una umanità autenticamente dolente e tragica che ti riporta alla essenza ordinata e lirica del vivere lontano dalle sociologie,dalle estetiche o dalle poetiche.Saltano di fatto le filosofie,le estetiche,le ideologie e viene rappresentata in modo ossimorico la vita nella sua realistica idealità. “Eidein” dicevano i greci che ragionavano in profondità e non in superfice.La dignitosa indigenza nella ricchezza poetica della figura e nel volto della suonatrice di violino.Gli occhi conficcati con insistenza nell’obbiettivo del fotografo di uno sfrontato ed irriverente giovane rom che sembra voler sfidare con la sua sfrontatezza una esistenza fatta di antiche e moderne offese e soprusi. Il riposo attivo del vecchio suonatore di fisarmonica ‘posteggiatore’ provvisorio che ci racconta la sua vita voltandoci irrispettosamente le spalle senza la necessità di chiederci scusa. Il piccolo mendicante legato alla sua ciotola triste e questuante davanti ad un negozio di antiquariato nella triste dolcezza di una sofferenza sorpresa e dolorante. Il passo sospeso in una rituale e mitica lettura del frate ingabbiato nella ideologia dall’occhio anarchico dell’obbiettivo e della la scritta anticlericale sul muro di fondo. E potrei continuare ad libitum in questo esercizio ermeneutico e descrittivo di queste spendide e iriiverenti fotografie sulla parete se impellente e fastidiosa si presentava la inquietante domanda :”ma questo occhio anarchico,irriverente e smaliziato sta girando liberamente per Cairano senza freni e pudori ?”.E tutti noi nei nostri piccoli atti e nei nostri logorroici o poetici inganni o nelle rappresentazioni incipriate e datate dei pochi politici che clandestini ,assenti o in affige hanno frequentato Cairano in questi giorni. Eravamo inquietati dalla possibilità di essere scoperti e smacherati nei nostri piccoli ‘vizi privati’ o delle poche ‘pubbliche virtù’ da questo occhi indiscreti sfacciati se pur per “buone fotografie,senza trucco e manipolazione”. E non ci conforta neanche sapere che in qualsiasi forma oggettivata della comunicazione sia essa letteraria, visiva o orale “ogni lettore ,quando legge ,legge se stesso”.Non è mai piacevole essere osservati ma ancora più inquietante è essere guardato e visto da un occhio così profondamente caustico e concreto come quello di Guido Giannini ,vera anima critica ,libera e autentica anche di una rappresentazione , autorizzata o non, di una paesologia come radicale e profonda lettura critica degli abitanti vecchi e nuova della Irpinia dei nostri sentimenti, di nostri sogni o speranze o dei nostri logorati e improduttivi pensieri.Anche a noi piace ciò che ha scritto di lui Mario Pannunzio ,mitico Direttore de “il Mondo”. Guido “conosce l’arte di rubare agli esseri umani qualcosa del mistero della loro e nostra esistenza” e noi come lui mai lo denunziieremper furto anzi di questo lo ringraziamo ….paradossalmente.

Mauro Orlando

ps…scritto in occasione di Cairano 7X 2010

giovedì 27 gennaio 2011

Elisir d'amore per ........"la rivoluzione"

......la rivoluzione di F. Arminio
Voglio la rivoluzione, nient’altro che la rivoluzione. La voglio da me stesso, prima ancora che dal mondo. La voglio perché la furberia dolciastra e la scalmanata indifferenza hanno preso in mano i territori della parola e anche quelli del silenzio. Chi scrive viene tollerato a patto che rimanga nel recinto. Le sue ambizioni possono essere anche altissime, ma solo se vengono esercitate in luoghi millimetrici, invisibili. I fanatici della moderazione avanzano ovunque. In politica come in letteratura.

Io sono fuori da questo mondo e fuori da questa vita. Non è un merito e spero non diventi una colpa. È andata così e sono fatti miei. Dal luogo in cui parlo, con la morte che mi passa nel cuore molte volte al giorno, io sono costretto ad ambire alla rivoluzione, non ho altra scelta. E se guardo un albero, non gli chiedo soltanto di farmi ombra, e se vedo una donna non mi accontento delle solite cerimonie, voglio l’infinito e non mi basta neanche quello, dell’infinito voglio la radice, il luogo in cui inizia, voglio sentire come è cominciata questa infiammazione, questo delirio della materia che chiamiamo vita.

Che cos’è una rivoluzione? Chi è l’uomo “rivoluzionario”? Sono queste le domande che dovrebbero guidare la nostra ricerca e verso le quali condurre le nostre idee,azioni,sentimenti ,sogni,fantasie. Da dove iniziare per cercare le risposte? La via migliore, forse, è quella di osservare quel che accade attorno a noi, di partire dalla nostra esperienza quotidiana, da come nel mondo contemporaneo la politica in senso classico (zoòn politikòn) e l’uomo politico (teknè politikè) entrano nel nostro orizzonte, ci vengono incontro. La politica come” cura di sé e degli altri”, in primo luogo, ci appare un ambito che si colloca accanto e in antitesi critica ed esistenziale ad altri ambiti, e i suoi confini ci appaiono facilmente individuabili, tanto che non incontriamo difficoltà a stabilire quando il discorso verte sulla politica, o sullo sport, o sull’economia, o sulla scienza e così via. Se sentiamo parlare di partiti, di elezioni, di voto, di governo, di parlamento, di Stato, di istituzioni democratiche, non abbiamo dubbi: in gioco è la politica. Ci è così possibile nel corso di una discussione tra amici ‘iniziare’ liberamente a parlare di politica, e altrettanto liberamente di ‘smettere’ di parlarne, e di spostare il discorso su di un altro ambito. Ancor prima che nei discorsi, noi percorriamo ogni giorno i diversi ambiti, volontariamente entriamo e usciamo da essi; in un determinato momento della giornata entriamo nell’ambito del lavoro o dello studio, poi in quello della famiglia, del tempo libero, dello sport, dello spettacolo e anche, sempre se lo vogliamo, in quello della politica.Fare “rivoluzione” oltre che pensarla e programmarla è prima di tutto mettere il proprio “io” al centro della nostra vita nel “confronto-diaologo” con le vite degli “altri”.Il senso rivoluzionario è ll coraggio di esporsi nel racconto della propria “diversità” senza le zattere o le ciambelle di salvataggio di salvataggio dei vari saperi tradizionali …scientifico,filosofico, etico, antropologico e quant’altro.Questo coraggio per me è essenziale per cercare e dare un senso “rivoluzionario” ,possibile,e fattibile alla sfida paesologica…..Il tuo testo è un bello e buon esercizio ……..di libertà ed autonomia non di capi o messia…..
mauro

lunedì 24 gennaio 2011

Elisir d'amore per .....il silenzio di Bisaccia.....



“ Il paesologo non va a vedere i paesi, non segue le insegne, le evita il più possibile, così come evita i percorsi obbligati, le corsie chiuse. Questo posto doveva avere una sua grazia appartata, volerla svelare a tutti i costi un po’ la fa svanire” F. Arminio



Rivisitazione di un dialogo immaginifico tra Mercuzio e il clown Nanos.

- Ah che solitudine ,che bella compagnia e…..che silenzio ieri a Bisaccia con gli “occhi” spalancati per cogliere l’incantamento della “ grande vita dei piccoli paesi” mortificando almeno per un giorno le pretese padronali e autoritarie delle parole!

- “Silenzio”!Non cominciamo con i paradossi e le stranezze. Hai voglia di meravigliarmi o confondermi?

- Ascolta ,ma veramente non senti una musica in questo silenzio?

- Mi dispiace ,no!

- Ascolta meglio: il silenzio non è assenza di suoni, quello che tu non hai udito è la totalità dei suoni. C’è una differenza che i ‘filosofi’ usano chiamare ‘ontologica’: una cosa è zero,un’altra cosa è “ infinito meno infinito uguale zero”. Io so che proprio così il mio “Signore e padrone” ha fatto il mondo:dal niente, come impropriamente usi dire tu, e che invece era un infinito di suoni ingarbugliati tra loro e giustamente muti, vuoti ,incorporei. Ha separato accordi ,toni, armonie,note quella che normalmente chiamate musica. Insieme ha creato il verme e l’uomo, i pensieri e le cime di rape, Beethoven e Pupo…..

Creare in fondo è dividere l’incorporeo,l’insostanziale e dargli dei confini,dei limiti,delle qualità …impressionarli nella profondità degli occhi del cuore oltre che della ragione .
Questo “silenzio pieno di musica” è una modulazione di una gamma spropositata e infinita di non-suoni, che però nella tua incolpevole ‘ignoranza’ e perdita non riesci ad avvertire ,a percepire, sentire se non con questi capolavori comprensibili……come questo di Beethoven che voi chiamate ‘opera 73 o Imperatore’.

- Ah ma io ho comprato anche il cd e la ascolto spesso e la conosco benissimo. Io amo soprattutto la “nona”, il concerto in Do minore di Rachmaninoff, ‘Un bel dì vedremo’, Gershwin…….e anche De Andrè, Guccini,De Gregori, Vecchioni,Cohen,Dylan e altri……

-Per tornare alla musica del “silenzio negli occhi ” oltre al silenzio nella mente e nelle orecchie….. Qualcuno di voi che ama chiarsi ‘critico-musicale’ ha scritto che Beethoven sa ascoltare e riprodurre il canto candido e leggero dell’esistente, ne ha inseguito il movimento ritmico accarezzandone il silenzioso brusio per trasformarlo in rigoroso linguaggio di una musica assoluta. Ma in quello che scrive sembra non capire che le due cose non sempre erano indistinguibili,conseguenza una dell’altra. In ‘origine’ per esempio canto e parola erano carichi di una sola potenza che solo il divino avrebbe potuto sopportare o sentire. La lingua era musica e il dire degli uomini riusciva farsi carico di questo di questo mistero poetico,mitico e religioso assieme .Era la prova di una perfetta innocenza che si è trasformata in algida concettualità per esigenze comunicative dimenticando persino la bellezza del libero cinquettare degli uccelli o del sibilo del vento tra le foglie o i capelli della donna amata o dei luminosi chiari di bosco in primavera.

Ma il vero problema è che tu fai fatica oggi …a sentire o vedere questo “silenzio” nel vento ,nella luce nei colori ,….. non nelle parole e anche la musica che girano per Bisaccia in questa giornata paesologica! Ecco io penso che per arrivare e vivere veramente la “paesologia” bisogna prima di tutto rieducarsi ai “silenzi”, ai “vuoti” agli “sguardi” autentici nei rapporti quotidiani e comuni ma soprattutto in quella disciplina tutta umana che usiamo chiamare filosofia anche quando si fà ” pensiero del cuore enon della ragione ” e che ci siamo costruiti nella testa e nel suo linguaggio,o da questo richiamarsi alla poesia ,al racconto ,alla narrazione. E per vostra fortuna nella Comunità provvisoria ci sono buoni poeti ,affabulatori o contastorie ,visionari di ogni tipo anche se alcuni ancora non lo sanno o hanno paura di esserlo .

sabato 22 gennaio 2011


I partiti di centrosinistra hanno da tempo imitato il modello espresso dal premier. Hanno abbandonato il territorio, le persone in carne ed ossa, la dignità e i diritti delle donne anche ‘escort’, la difesa delle istituzioni democratiche , i contrappesi costituzionali e la partecipazione, per tuffarsi nei media e soprattutto nella tivù. In nome della personalizzazione autoritaria della democrazia e del marketing economico.
La società civile ha in gran parte consapevolmente o inconsapevolmente fatto esperienza del “virus” berlusconiano per il passato seguendo il parere autorevole di Montanelli.Uno che si intendeva di cultura autoritaria e di destra!
Ora , ‘noi’ singoli cittadini attivi, liberi, riflessivi,consapevoli e responsabili vogliamo seguire la linea politica e l’agenda dell’egoarca funambolico . Per rovesciargliela addosso : vogliamo praticare la “nuova” opposizione dei nostri giorni. In larga parte “suggerita” – e ispirata – proprio dall’esperienza politica di Berlusconi. Rovesciamo il meccanismo che ha tradotto il privato in un fatto pubblico-politico.,usato dal leader del PdL per coltivare consenso e di fiducia. Oggi noi lo rovesciamo contro di lui e la sua politica democraticamente autoritria e illiberale. “Privato e pubblico, retroscena e ribalta. Tutt’uno. A flusso continuo. D’altro canto, il confronto politico si è spostato – totalmente – sui media. Che sono divenuti l’unico vero campo di battaglia politica. Tivù e stampa. Stampa e tivù. Giornali e tele-giornali. Opposti fra loro. Visto che le informazioni in tivù, in molte reti, sono filtrate. Con l’alibi di non sovrapporre pubblico e privato. Politica e gossip. Come se fossero cose diverse. Come se la ribalta e il retroscena fossero ambienti separati. (Come se le interviste “politiche” del premier non fossero ospitate da Chi e annunciate in copertina da foto di famiglia. Nonno Silvio insieme a figli, figlie e nipoti)”.
Costruiamo la democrazia mediatica dei “farabutti”!
Rubiamogli la scena stabilendo noi i temi e il linguaggio non solo denudando il Re ma definendo noi le conseguenze delle sue agende e i suoi progetti futuri.
Prima di tutto dando visibilità anagrafica ai tanti ‘spettri’ che si aggirano nella menta affaticata e ‘malata’ ( a parere di Veronica) affollando tutti gli spazi mediatici della Rete inviando una nostra foto e le nostre generalità riconoscendoci nell’epiteto o anche al posto del nome ,la scritta:farabutto esibita con orgoglio e vanto. . Una sorta di movimento di opposizione cresciuto dentro a quello che il leader considera il principale soggetto di opposizione con un profilo, non solo fisiognomico, ma sociale, culturale e politico di questa popolazione.
Si accettano i giovani,gli adulti e di mezza età e..anche ‘anziani’ coetanei del premier.Donne e uomini da soli, in coppia o in compagnia.Anche intere famiglie uniti da un comune obiettivo: la libertà di informazione e di azione e espressione privata e pubblica senza censure. “Esuli” dai partiti di opposizione istituzionale in cui faticano riconoscersi e di un paese nel quale stentano a sentirsi concittadini.Spaesati .Di incerta identità …a cui B. ha contribuito a dare un nome e un senso.Farabutti. Meglio di “fannulloni”, “coglioni” che in altro occasioni ci si è sentiti sprezzantemente apostrofare.
Con una identità, senza bandiere, senza parole da dire. Senza simboli da esibire e senza riti da celebrare ma una diversità da difendere e costruire: non apparteniamo al gregge belusconiano.

mauro orlando




Il Cavaliere e la morte

di franco arminio

Berlusconi ha paura di morire. Questa paura è comune a tutti gli uomini,ma in Italia, cuore del cattolicesimo, che ha alimentato la sua potenza giocando tutto sul memento mori, il timore della morte è assai più potente.
Accumulare potere e ricchezze è un tentativo come un altro di esorcizzare la morte. Un tentativo penoso e vano, mano a mano che si invecchia, che ci si avvicina al traguardo finale L’accumulare ricchezza e potere altro non è se non un segno di questo pensiero costante che accompagna Berlusconi.
Le pantomime oscene sulla sessualità del Cavaliere che riempiono le prime pagine dei quotidiani non sono altro che il tentativo di un uomo ormai vecchio di distrarsi dall’idea della morte. La sua è una sessualità a cartoni animati, è una proliferazione di figure disegnate dalla matita della fine.
L’ironia e l’indignazione sulle depravazioni del capo indicano anche il rapporto irrisolto che gran parte degli italiani hanno con il sesso. Si può dire che il sesso e la morte sono due grandi questioni irrisolte dell’italietta laida e fascista di cui il Cavaliere è l’ultima metamorfosi.
La vicenda di questi mesi non è solo materia per magistrati e neppure per beghe politiche. Il teorema è questo: Berlusconi è governato dalla morte, Berlusconi governa l’Italia, l’Italia è governata dalla morte.
Se vogliamo che nella nostra nazione torni a spirare qualche vento di lietezza, dobbiamo deciderci a sgombrare questo enorme cadavere che tutti insieme formiamo e di cui il Cavaliere è il cuore. Non si può pensare che siamo di fronte a un depravato da rieducare. Non siamo al collasso morale di una sola persona, ma a quello di gran parte della nazione.
Il problema della morte non è solo il problema del Cavaliere. In questo senso lui non è nostro nemico, ma nostro fratello. Bisogna bonificare lo spirito nazionale da queste pozze putride prodotte dal secolare potere di una chiesa che ha messo nella nostra testa l’idea che ci aspetta l’inferno se non diventiamo suoi seguaci.
Berlusconi non lo si sconfigge con la conta in Parlamento ma con una spietata radiografia del nostro spirito, una radiografia che sappia individuare la metastasi narcisistica prodotta proprio da una crescente paura della morte, che può essere considerata come paura della vita, una vita sempre più sigillata in piccole confezioni usa e getta.
Da tempo credo che la morte non sia più un evento, una cosa che tocca gli animi. C’è stato un momento in cui era qualcosa che veniva nella vita come una faina arrivava nel pollaio. Si può pensare che questa faina abbia stampato la sua zampa su ogni tipo di religione. Adesso la morte ha cambiato faccia, è diventata l’aria che si respira, la scena madre della vita, il riassunto delle nostre giornate. È sempre bene in vista, è sempre ben esposta contro l’amore, contro la politica vera, contro i nostri slanci più sinceri. È usata come deterrente per non vivere, per dire di no a ciò di cui potremmo gioire e da cui, invece, ci nascondiamo. Si mette in mezzo tra l’anima e il corpo e ci scinde. Si mette in mezzo tra noi e gli altri e ci divide.
Non è facile dire come e quando sia avvenuta questa mutazione della morte da evento che irrompe a realtà che ristagna. Pensate a una nebbiolina che avvolge la nostra società, pensate a una nebulizzazione dell’evento traumatico e unico della fine in vapore sospeso intorno ad ogni minuto della nostra vita: tutta la rete di comunicazione di cui siamo poveri tralicci sembra che agisca solo per diffondere il senso della fine. La morte non viene dopo l’ultimo respiro, ma sembra essere il legame tra un respiro e l’altro. Non viene pavesianamente a prendere i nostri occhi, ma da tempo li apre e li chiude a suo piacimento ogni giorno. Sempre più spesso guardiamo dal balcone della morte, vediamo il mondo come se già fossimo fuori di esso. È una situazione profondamente nuova. È una condizione che dovrebbe farci leggere l’esperienza di ognuno e di tutti come un’esperienza straordinaria. E invece ragioniamo come se fossimo sempre nello stesso mondo, nella stessa psiche, nello stesso corpo. In un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta raramente dalla vita.

Arcore, la notte

di Andrea Di Consoli

Ci chiedono gentilmente di passare in un’altra stanza; non proprio in una stanza, ma in una discoteca buia, un privè claustrofobico con le tende chiuse. Sembra un bunker interrato.
Gli amici suoi, prima di salutarlo, gli fanno un cenno rassicurante, come a dire: sono ragazze a posto, nessuna di loro è fuori di testa, vai tranquillo, goditi la notte.
Nel bunker c’è musica in sottofondo, fa caldo, non si respira, è anche vietato fumare. Nel centro della stanza c’è un palo di ferro per la lap-dance, come in un locale per scambisti. Mi gira la testa, ho la nausea, forse ho bevuto troppo.
Mi guardo intorno e vedo queste ragazze che ballano abbracciate a due a due con la schiena inarcata, e ridono a crepapelle, non si capisce bene perché. Alcune sono russe, altre rumene, altre ancora brasiliane. Forse sono venti, forse di meno, e tutte si muovono a proprio agio su tacchi altissimi. Lui sta seduto su una poltrona in penombra e non capisco bene se stia guardando o se si sia addormentato – per via della testa un po’ curva, e dell’immobilità. Una ragazza – forse russa – è rimasta in tacchi e autoreggenti e si appende al palo di ferro girando più volte su se stessa; altre due – forse brasiliane – si stanno baciando intrecciando rapidamente le lingue, ma anche un bambino capirebbe che lo stanno facendo per finta. Lentamente si spogliano tutte, e rimangono in tacchi e autoreggenti. Si sentono gridolini, urlii scemi, risate improvvise.
Lui adesso si alza e si avvicina alle ragazze; ma non sorride più come prima a tavola; anzi, è cupo, ha un volto stanco e teso. Tre ragazze lo mettono in mezzo alla loro danza e lo soffocano con i loro profumi intensi e nauseanti. E’ una recita cupa, uno spettacolo buio – e, così chiusi, si perde la concezione del tempo. Alcune ragazze perdono il controllo: in fondo basta bere un po’ di champagne in più e non ci si vergogna neanche un po’ di baciare i seni freddi di una ragazza che, come te, senza capirne bene il motivo, si sta esibendo davanti a quell’uomo ricco e potente nonostante, appena ieri, fosse una bambina, e nonostante, appena ieri, vivesse in una squallida stanza in una squallida periferia di Mosca, di Rio de Janeiro o di Bucarest.
Ma si vede che il suo piacere principale è guardarle, guardare avidamente tutti questi capelli lungi e ben pettinati, tutti questi seni turgidi, tutte queste gambe lunghe, tutte queste labbra rosse, tutti questi occhi vivi: tutta questa maledetta giovinezza.
Gli piace da impazzire, la bellezza, ma non gli passa neanche per la testa la certezza che queste ragazze, domattina, al sorgere dell’alba, avranno mal di testa, mal di piedi, malumori e che andranno a dormire in brutte stanza ammobiliate o in alberghi disadorni, e che dormiranno con in sottofondo il trillo disturbante degli sms di clienti furibondi e insistenti a tutte le ore. Sul comodino avranno una busta gialla con dei soldi, ma nei loro sogni ci sono ancora cose tenere: principi azzurri e abbracci di mamma.
Ora ci chiede di fare silenzio e ci raggruppa nella parte di sala più illuminata – mentre parla, mi fisso a guardare le scie di rossetto sul palo di ferro. Con sicurezza ci seleziona – si è messo di nuovo a scherzare –, alle altre, invece, indica un posto dove andare, una via d’uscita. Rimaniamo in otto, e ci fa strada verso il centro benessere della villa, dove ci sono piscina e sauna. Faccio in tempo, sbirciando un orologio a pendolo, a vedere che sono le tre e mezza. Sono sfinita, barcollo sui tacchi e, appena arrivata, mi sdraio su una poltrona bianca. Le altre ragazze, prese dall’euforia, si buttano nell’acqua senza sfilarsi i tacchi e le calze autoreggenti. Lui è a bordo piscina e ordina alle ragazze di baciarsi. Loro lo fanno, ridendo. Lui ripete solo: “Meraviglioso, è meraviglioso”. Non dice altro. Poi chiama a sé una ragazza – sembra adulta, ma è una ragazzina ancora gonfia di quel tipico gonfiore delle adolescenti che ancora non hanno varcato la linea d’ombra – e, prendendola per mano, la conduce nella stanza dei massaggi. Tra di noi si fa silenzio; un misto di attesa, di dubbio e di stanchezza ci ammutolisce; qualcuna nuota, soprattutto le russe, che evidentemente sono abituate a farlo; altre, a bordo piscina, parlano avidamente di soldi in un italiano aspro e arrangiato. Dopo appena cinque minuti lui e la ragazza tornano in piscina e lei, sorridente, si tuffa nell’acqua. Cosa sarà potuto accadere in soli cinque minuti? Ce lo chiediamo con gli occhi interrogativi, ma senza parlare. In un crescendo di confusione, lui le chiama una per volta, e sempre si chiude per cinque minuti nella stanza dei massaggi. Finché tocca a me, proprio a me. Sento il cuore in gola, ho i battiti impazziti. Mi sembra che stia sragionando un po’ – è totalmente spettinato, e ha la faccia stravolta. Mi prende per mano e, in quel preciso momento, penso che in fondo adesso – saranno le cinque del mattino – io che non sono niente e lui che è l’uomo più potente della mia nazione, siamo due persone sole, semplicemente ammalate della stessa malattia. Chiude la porta e mi fa sdraiare su un lettino. Mi accarezza le gambe, il ventre, le braccia, i capelli, le labbra. Vorrei alzarmi per fare qualcosa – forse, in questo circostanze, si è costretti a fare qualcosa. Invece mi costringe con un gesto della mano a stare sdraiata. Provo a guardarlo negli occhi, nonostante la penombra. Forse se ne accorge, infatti abbassa la testa e posa le labbra e la bocca sulle mie gambe. Poi si alza e, con la voce rotta, mi dice: “Andiamo bellissima, è tardi”. Ma, non appena alzata, toccandomi le gambe, mi accorgo che sono bagnate. Dio mio, sono le sue lacrime! Ma non faccio in tempo – e forse nessuno in Italia fa più in tempo – a chiedergli il perché di quelle lacrime, il perché di tutta quell’infelicità.








mercoledì 19 gennaio 2011

Elisir d'amore per ......."i miei anni"



Ho compiuto gli anni e mi faccio gli auguri da solo.
Mi racconto una favoletta e mi dedico una bella canzone di un amico.

"Il regime quotidiano di Hukusai era frugale:non fumava e salvo eccezione,non beveva che del tè.Suo unico lusso, un dolce di riso.piccolo particolere simpatico: gli piaceva la sera, una zuppa di spaghettini.Fu certamente per questo regime severo erigoroso che vsse cos...ì alungo.In vecchiaia gli capitava di ammalarsi,ma evitava i medici,preferendo guarire (o morire) da soloSi guarì da sè d'un attacco apoplettico grazie ad un impasto abase di limone cotto nel sakè.Aveva anche un elisir di lunga vita:occhio di drago,zucchero e sakè macerati,duettazze al giorno.Un altro ingrediente di cui parla poco ma che non è da dimenticare : l'umorismo"
da Hokusai o l'orizzonte sensibile,1990.
grazie e vi auguro una bella risata!
mauro

martedì 18 gennaio 2011

Elisir d'amore ........per la politica......




...la politica del rancore
di franco arminio


Sarebbe una buona cosa uscire in piazza e sentire gente che muove alti pensieri e scalpita e si appassiona a progettare il futuro. E invece dobbiamo spendere il nostro tempo per cincischiare sulle nostre miserie. Ormai qui siamo tutti operai della vasta e ineffabile fabbrica del lamento. Il dispetto, il rancore, la diffidenza verso tutti e tutto sembrano l’unico modo rimasto per tenersi a galla. Litigano quelli che si oppongono alle pale, litigano i ferventi di padre Pio sull’ubicazione della statua, litigano quelli che hanno sostenuto l’amministrazione e quelli che l’avversano. L’unica cosa che è diminuita sono i litigi tra i vicini di casa, per il semplice motivo che ora la gente è tutta sparpagliata.
Qui la passione dominante è l’interdizione, l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni. Se costruisci un gruppo che produce qualcosa di buono subito viene fuori il dissenso, il ronzio di chi avanza riserve, cavilli. E chi non si mette di traverso in modo palese lo fa, vigliaccamente, in maniera obliqua, criptica. Più che il conflitto, l’irpino preferisce agire con l’indifferenza, il diniego, il far finta che il bene che fanno gli altri non esiste. Io sono rimasto qui per registrare questi movimenti. Ci sono delle giornate in cui certi atteggiamenti mi feriscono profondamente, poi però mi riprendo, in fondo questa avversione è il tonico che mi fa andare avanti, che mi impedisce di addormentarmi. Il sud dei paesi sta morendo proprio perché è in mano alla lobby dei vigliacchi. Perché sono loro a tenere in mano le piazze, sono loro a decidere a chi dare la pensione, a chi togliere la multa, a chi consentire questo o quell’abuso. La loro abilità maggiore è nel far credere che siamo tutti uguali, che la vigliaccheria è nel cuore di tutti e invece è solo un’anomalia della maggioranza. Ci sono ancora i coraggiosi, gli eroi, a volte ci vengono vicino ma non sempre riusciamo a riconoscerli, magari proprio perché distratti a occuparci delle vigliaccherie che subiamo.
Questa è un’epoca che ha disperatamente bisogno del nostro amore, della nostra speranza, ha bisogno del coraggio di opporsi, di lottare contro la meschinità imperante. Il segreto per una giornata lietamente rivoluzionaria è riuscire a vedere che le montagne sono ancora piene di alberi e che ci sono cuori clementi agli angoli delle strade e ci sono albe e tramonti, c’è l’acqua del mare e il grano che cresce. Tuttavia, questa affezione per il mondo va sempre incrociata con una fortissima allergia al compromesso, all’intrallazzo. Bisogna unire la capacità di percepire la bellezza del mondo e di lottare contro chi ogni giorno tenta di impoverirla, di svilirla. È ora di tenere insieme la tensione politica e quella poetica, la contemplazione e il conflitto. I luminari del rancore ci vorrebbero rassegnati alle misere finzioni della vita sociale oppure chiusi nei freddi loculi del nostro io. No, questa è un’epoca da attraversare ad occhi aperti, con sguardi spericolati, mossi in ogni direzione. Il rancore alla lunga rende sterili, ci allena alla conservazione di ciò che non abbiamo. I rancorosi non conoscono la cordialità, la mitezza, non sanno usare il metro della clemenza. Infervorati come sono nelle loro accidie, nelle loro pretese, hanno interiorizzato il disagio, la disaffezione. La loro postura è fatta per claudicare, non per il passo spedito, il gesto aperto. La loro giornata è tutta trapuntata di inadempienze, di incomprensioni. Ognuno è scambiato per un altro, e in genere lo scambio avviene al ribasso. La vita dei rancorosi consiste in una perenne edificazioni di muri, di cancelli. La loro poetica è stare lontani dagli stati estremi, accucciati a scambiarsi una pappina psichica che non serve a niente. Vivono tenendosi costantemente al riparo dalla vita. Rimangono contratti, sospettosi, come se l’universo fosse un cane che li punta e sta per morderli da un momento all’altro. Tutt’al più procedono al piccolo trotto, in un traccheggio prolungato. Prevalgono le posizioni difensive, gli slanci millimetrati. Spendere il proprio tempo per gli altri è considerato quasi un segno di malattia, un gesto folle, sconsiderato, incomprensibile. Si lamentano per conformismo, per appartenere al gregge oppure per fingersi pastori. Forse quello che noi chiamiamo sud avrà una speranza di salvezza se saprà mettere questa gente con le spalle al muro, se saprà amare i bizzarri, gli inventori, gli estrosi, i poeti e i cuori affamati di amore.


Sono comunque un insegnante di filosofia abituato a sentirsi tirato per la giacca o preso in giro dai cosidetti “pratici” per la necessaria o presunta astrattezza dei cosidetti Filosofi .Esempio storico è il famoso “riso della servetta di Tracia “ nei confronti di Talete che cadde in una cloaca perché distratto ad ammirare le stelle e non guardare la strada che percorreva.Tant’è …non è così semplice parlare ai sordi che non voglio sentire…..come cercare di spiegare con i propri argomenti che tra il pensare e ii fare non necessariamente c’ contrasto ….anzi. Io spero che ci sia la stessa libertà e spazio di esprimersi per l’esperienza di Agostino,delle esigenze di Giovanni, degli scritti di Franco, delle opere di Angelo, dei pensieri poetanti di Elda, dei sofismi intelligenti di Paolo, di Mario, Savatore, i due Enzo sognatori pratici o pratici sognatori, delle poesie di Gaetano,delle provocazioni non sempre benevolo di Rocco e di tutti gli altri che non cito per non annoiarvi.Io lavoro con la filosofia e la presunzioni di poter elaborare idee e voglio essere libero di fare la mia esperienza comunitaria con la mia identità e le mie idiosincrasie mentali e anche con le mie ossessioni complesse,arzigogolate, barocche eccc.. Un mio maestro di altri tempi scriveva:
« Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui. »
(Aristotele, Protreptico o Esortazione alla filosofia) Io per la mia vita mentale ed attiva del presente e del futuro che mi resta di vivere cerco di dare alle cose un grande peso, il peso della filosofia stessa, il peso delle idee. Vuol dire passare la realtà che ci circonda al vaglio del pensiero, della ragione, come esercizio di intelligenza e libertà, che sono poi le caratteristiche fondamentali dell’essere umano. Platone era uno che davvero la prendeva con filosofia. Non certo nel senso, come pensano quelli che vedono in lui il prototipo del filosofo con la testa fra le nuvole, troppo immerso nell’Iperuranio per vedere le cose così come sono, che davanti alla realtà egli chiudesse gli occhi; anzi, il suo sguardo sul mondo era lucido e si avvaleva del metro del pensiero, che è “l’occhio dell’anima”. È davvero difficile far passare questa idea, tanto più oggi che ci troviamo in un contesto in cui sembra che il pensiero sia roba vecchia e inutile, una perdita di tempo a cui anteporre, senza se e senza ma, l’agire. In Italia, oggi, va di moda il “governo del fare”. Ma fare che cosa? Come si può fare senza prima aver pensato con serietà cosa fare? Un fare svincolato dal pensare porta direttamente in un vicolo cieco. Chi fa senza pensare rischia di fare – anzi, senza dubbio fa – male. Questo i filosofi lo sanno bene e Platone sopra tutti. Ed io immeritatamente sempre con curiosità cerco di seguire queste semplici verità. Sbaglio ….sicuramente ma fa parte della mia vita e non ci rinuncio oggi come non ci ho rinunciato nel passato.Perciò ho voluto iniziare da lui e dalla Repubblica in particolare. Quando nel bel mezzo della sua opera, egli si spinge a dire che “ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi”, non si lascia andare certo ad una boutade, come pure viene recepita dai suoi interlocutori dialogici e da buona parte dei lettori disincantati. Con questa frase, destinata ad avere lunga eco nei secoli successivi, Platone, per bocca di Socrate, vuole indicare come la politica possa adempiere al suo mandato solo se poggia sulla solida base delle idee, della ragione e della cultura, che le diano un orientamento. Come l’utopia mette le ali alla storia permettendole di volare alto, così sono le idee a fare della politica qualcosa di alto e nobile. Il mio motto-guida sarà sempre “Amicus Plato sed magis amica veritas”….per ripetto di me stesso oltre che degli altri.
mauro orlando

le mie parole comunitarie :la politica




“ Oggi la politica consiste in effetti nel pregiudizio verso la politica. Il rischio è che il politico scompaia del tutto dalla faccia della terra” H. Arendt

POLITICA

Da sempre è ricorrente …la cosidetta «tentazione di Siracusa» di Platone e la conseguente sindrome ricorrente degli intellettuali di voler modificare la storia, intervenire nel governo della città e consigliare la politica, alternandosi ciclicamente alla sindrome opposta, che potremmo battezzare «tentazione di San Casciano», ovvero la località, denominata l’«Albergaccio», in cui si rifugiò Machiavelli dopo le scottature della sua esperienza politica. Tutti gli intellettuali delusi dalla politica inseguono un loro” Albergaccio” ideale o necessitato in cui vivere, come la fine di un incubo o l’inizio di una sdegnosa solitudine, il loro disincanto politico e magari il loro operoso rientro nell’attività intellettuale fattuale.
Il dramma del filosofo o del poeta in politica, al servizio della città o di una comunità, è cadere in una insolubile contraddizione: scegliere come il fine del vero sapere il potere comunque o il perseguimento della personale realizzazione spirituale (l’eudaimonia) e “cura di sè e degli altri”, specificando il perché egli deve volgersi al governo della città oltre che al governo di sè o semplicemente come riscatto sociale e acquisizione di potere personale. E’ possibile governare bene la polis o la comunità sapendo che ci sono cose superiori che meritano le nostre energie e la nostra attenzione? E’ possibile usare con saggezza e mantenere con fermezza il potere, pur non nutrendo alcuna vera passione per il potere, anzi un sottile disprezzo e una sicura e benevole distanza? Si può insomma costringere il saggio a governare la città suo malgrado o perlomeno a consigliare chi governa cotringendolo al confronto nel conflitto? Il rischio ricorrente e possibile è l’aggravante che, spesso non si tratta nemmeno di governare e di produrre opere o idee per la città ma di spendere le proprie risorse mentali e pratiche in procedure insensate e avvilenti, dedicando gran parte del proprio tempo e dei propri buoni uffici e capacità per pararsi le spalle dai nemici e…… dagli amici. I mezzi divorano i fini. Un doppio scacco: rinunciare alla filosofia o alla poesia per governare e a governare per sopravvivere politicamente. C’è un altro modo di pensare e vivere la filosofia,la poesia ,la cultura in genere e soprattutto la POLITICA? Io penso di sì:lavorare,vivere e pensare sempre per il “meglio”.
Dobbiamo concretamente sperimentare di persona che la politica può esser in grado di esprimere la nostra ‘individualità’ solo nella comunità o sottraendoci alle appartenenze strumentali e identitarie quando diventano autoritarie e prescittive secondo il principio dell’”Immunitas” o rifugiandosi nel rifiuto, o nel nascondimento , sottraendosi alla visibilità e alla comunicazione con gli altri. Per questo ripeto: la politica esiste per quello che è, con tutta la sua potenza,fascino e i suoi limiti,a patto che in ogni momento possa mettere in gioco noi stessi e le nostre idee o opinioni , sempre e comunque.

mauro orlando

la domenica dell’attimo


poco alla volta imprigionarsi

all’anca, sbiadire in sé, dentro il tragitto

che ti sei assegnato, nessun occhio intanto

vola via dal corpo, tutto resta al suo posto,

poco alla volta consumarsi

fare insieme un chiasso inutile

limarsi

per rotolare più lontano dagli altri,

la vita è stata un tempo un vetro rotto,

è stata, così diciamo

e adesso?

io sento ormai uno strano silenzio ovunque

un silenzio che contiene tutto

il bacio, il centro commerciale, piazza di spagna

l’autostrada.

sento che non riesco a muovemi, dovrei

uscire dalle mie ossa

rifondare un me che sia

altro da me, altro dalla materia,

fiato, stella, notte,

altro, altro che sia altro

anche altro mondo

non dunque amore

paura o festa o nebbia

dunque non questo niente mal condiviso

che si chiama vita

che però quando la minaccia è vera

subito riprende vita

e non vorresti sciupare più niente

e pensi che ti sei irritato inutilmente

e vorresti fare festa all’attimo che arriva

vorresti andare in luna di miele col domani

ma intanto non sai chi sposare

non c’è un solo atomo del mondo

che a te si vuole

coniugare.

franco arminio, 16 gennaio 2011