giovedì 13 febbraio 2014

Comunità  provvisorie o tribù nomadi.
di mauro orlando


In una lettura superficiale o strumentale  la paesologia  di cui facciamo  continua esperienza  negli incontri comunitari  potrebbe apparire   una sorta di resistenza conservativa,  pacifica teoretico-etico-politica    dell’individuo terremotato, sradicato e provvisorio  che si incontra  nei “piccoli paesi”  periferici ed emarginati per aggrapparsi   ad una critica alla modernità incivile  e nello stesso tempo  non cadere nei gorghi affascinanti  della postmodernità ninilista.Un impegno  attivo  e riflessivo per  conservare  in sé il fuoco eterno  dell’essere,  colto  come senso di totalità della vita  nel suo farsi  particolare, origine ,verità, poetica,mito.  «Un mito creato dall’uomo, o perfino un mito autentico di cui l’uomo si impadronisca per fini  strumentali, cioè per fini, in ultima analisi,  utilitaristici, non può mai agire veramente, poiché non manifesta più la volontà stessa dell’Essere, ma si limita a tradurre la volontà soggettiva di chi ne fa uso.» (Alain de Benoist). Un mito terraneo  che ardisce pensarsi  al di là (metà, uber) dello spazio e del tempo senza farsi metafisica  e senza perdersi nelle fumose apparenze  della contemporaneità  lisciando il pelo  delle “icone” che pretendono di rappresentare  il collettivo e le necessità comunitarie ,tribali  e sociali  come specchio e senso del quotidiano :hic et nunc…qui ed ora. Della modernità teme il suo abbraccio letale   e necessitato verso un sapere universale e necessario  dichiarando paradossalmente di essere un “sapere arreso e provvisorio”non  per ostentare una debolezza e precarietà  che lo tiene incarnato nella terra  sottraendolo a qualsiasi forma di dottrina, estetica  o metafisica  ecologica. Un sapere esistenziale  che  sappia cogliere  e raccontare   lo smarrimento del sensoriale percettivo lasciato a sé stesso  alla mercè   della  vecchia padrona ragione- essenza della modernità- e  non soccombere  ed essere  non più “rappresentata” ma “presentata” come individualismo irrazionale e nihilismo tout court. «Il passaggio dalla rappresentazione alla presentazione è una questione tutt’altro che teorica; anzi, ha innegabili riflessi sulla vita quotidiana.»( Maffessoli)  La rappresentazione o volontà schopenauiriana è soprattutto cerebrale, disincarnata, intellettuale. In una parola è figlia della modernità. La presentazione – in linea coi tempi che stiamo vivendo – solletica i sensi,la fantasia, il mistero e  ammicca con il corpo e ristabilisce un rapporto con le radici terrene dell’uomo. La fine della modernità – oltre che in termini di teatralizzazione e rappresentazione – è letta anche in chiave ludica: dal fuoco alla festa, dal fuoco come tecnica al fuoco come focolare festoso, momento di ritrovo: il regno di Dioniso è solo all’inizio: «Il mito di Prometeo – scrive Maffesoli –, il titano che rapisce il fuoco agli dei per farne dono agli uomini, dopo aver trionfato per tutta la modernità, è ormai logoro; perciò il festoso e chiassoso Dioniso tende a soppiantarlo.»La modernità con i suoi miti dello sviluppo, del progresso,della uguaglianza, della libertà e della fratellanza resta imprigliata nel labirinto teologico del disprezzo delle origini e del contemporaneo in un sostanziale timore e disprezzo per il mondo  nella sua naturale  materialità evolutiva e produttiva.  La rappresentazione  della modernità si è imposta  sotto la maschera di aspettative ,di attese e di futuro ponendosi come barriera o confine  un  nihilismo o un relativismo che  non prevede più attese nelle nostre vite, non  più progetto, aspettativa; la nostra immaginazione  è costretta a  spingersi ed alimentarsi  fino al tramonto quotidiano. La filosofia stessa  ha continuato nel suo ruolo  cinico di “ancilla teologia” e l’opera dei filosofi si è limitata  a creare materiali di “critica” del reale  per  cercare un modo di superare le diverse forme di alienazione gravanti su di essa e incentivate  dalle sue  sofisticherie  o paralogismi  degradati o  nobilitati .Ancora un volta occorreva emancipare quella povera esistenza da tutte le tare e le scorie del mondo che la opprimevano per rendere possibile, sempre di là da venire o sempre  più tardi, l’accesso alla società perfetta persa  e non mai trovata nelle origini o nel futuro. E allora come affrontare la contemporaneità multiforme  e proteica che ci fagocita  nel suo nonsense, etrogeineità, sintomi plurali, riduzione dell’abitare senza territorio e abitanti del territorio in una sorta di « patchwork nel quale i diversi elementi si fondono armoniosamente in un insieme fortemente organico.» ma solo nella nostra testa o nelle nostre aspirazioni.Il mondo come una “presentazione”  come in una sorta di urna onirica  da cui a sorte tirare fuori merce  e simboli a caso al di là delle relazioni e degli scambi materiali ed immateriali all’interno labirintico   di una continua mediazione provvisoria tra il microcosmo personale e un macrocosmo collettivo. E poi ineluttabilmente   finire nel calderone  del consumismo a tutti costi , dei luoghi comuni come riferimento , dell’emozionale percettivo come rimedio  al mortifero razionalismo moderno. Ecco perché in questo difficile passaggio  d’epoca  in cui  si è stabilita una guerra insidiosa e  non dichiarata tra essere ed apparire , pensiero e realtà,combattuta con le armi  della critica spuntata  che non sa farsi  più critica delle armi stesse…. e costretta  alla ricerca neocinica  per  cercare di dare  un senso  e una possibile declinazione  concreta alla categoria di  “comunitario” e  non cadere per converso nei gorghi regressivi della categoria  di “immunitario” con tutte le sue scorie  e derive  di razzismo etnico o  omofobico . Più del ricorso al “tribalismo” creativo e minimalista  sembra opportuno un ritorno originale e radicale  al termine “comunitarismo” con la precauzione dell’aggettivo “provvisorio”. E’ nelle “comunità provvisorie” che si formano e si attraggono cercare volta per volta   di  dare un senso e un nome alla malattia del secolo dei “post” intorno alla esigenza  e voglia di avvenire  partendo  proprio nei “piccoli paesi” che di avvenire hanno ben poco nel doloroso isolamento di  senso  che si vive nei paesi appenninici di duecento anime. E lì che si possono rintracciare  le macerie e i segni  archeologici  tra le anime delle panchine   che hanno perso le tracce o i ricordi  del loro passato .“C‘è stato un altro tempo – scrive F. Arminio- in cui si sapeva cosa attendere e per cosa lottare, non era ancora l‘epoca dell‘equivoco di massa in cui siamo calati‖ ……Non sto facendo l‘elogio della sopravvivenza. So bene che per noi la sopravvivenza è tutto, ma non basta‖ . Provvisorietà e sopravvivenza  non come stati d’animo depressivi,regressivi o estetizzanti e cinici . Un sapere arreso con le dita conficcate nella terra  e con gli occhi infilati nelle crepe  delle macerie  di uno sviluppo senza progresso e anima. Un recupero del senso di spazio e tempo sapendo che  : “Siamo tutti – precisa ancora  F. Arminio- sotto un enorme massa di detriti. È la frana del tempo che passa. Il mondo è fermo, noi non siamo fermi, noi ci dibattiamo credendo di muoverci, in realtà, quando ci accorgiamo del tempo, quello se ne è già andato. Non aspettiamo che trascorra, perché non lo sentiamo andare via. Solo dopo che se ne è andato, lo rimpiangiamo. E questa la vera dannazione a cui siamo condannati, a cui è condannato chi non sa dare valore al suo tempo terreno. Che è anche l'unico che abbiamo. Tempus tantum nostrum est, diceva Seneca, solo il tempo è nostro, il nostro tempo mortale”. Le comunità provvisorie che si formano, si sciolgono, si ritrovano sempre su un territorio concreto e conservato dall’abbandono o dalla lontananza  o un paese determinato nella sua storia alle sue spalle. Questi territori o paesi  sono e non sono  legame o ‘koinè’ di appartenenza o identità ma che danno un senso  anche alle reti e ai nodi che si frequentano, ai ponti,  porte, finestre mai come   prospettive di identità,o di  ricerca di una mitologia fondante . Le “comunità provvisorie e paesologiche “ non vogliono essere il contraltare  ideologico delle  “  tribù nomadi”  della nuova sociologia moderna  e non vogliono altresì cercare il senso profondo del   “mito” rispetto alla superficialità delle “icone” del postmoderno. Insomma la paesologia  non cerca  l’eden naturalistico nei detriti o i materiali  di riporto dei paesi  appenninici dell’abbandono  per ricreare  nuovo umanesimo delle colline   ma solo  per provare   nuove esperienze  esistenziali   liberandosi  della tenaglia   concettuale e ideologica tra  una “ragione  padrona, dispotica   e  autoritaria e l’accettazione e  l’adeguamento  a «nuovo legame sociale più flessibile e più effimero. [….) un nuovo spirito del tempo, nel senso forte del termine” in una  sorta di “nomadismo postmoderno (che ) parla veramente di una realtà sotterranea, e anche di una vita intensa che sembra avere la meglio quasi insensibilmente, a dispetto dell’esistenza sclerotizzata e istituzionalizzata.»” (Maffessoli).