lunedì 22 dicembre 2014

....la buona novella del Natale......


Nel 1969 scrivevo La buona novella. Eravamo in piena rivolta studentesca; i miei amici, i miei compagni, i miei coetanei hanno pensato che quello fosse un disco anacronistico. Mi dicevano: “cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci
perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.” …. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La Buona Novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali.”
Il sogno della giovane donna Maria ....investita da un misterioso obbligo di ricominciare la storia del mondo allevando nel suo grembo ingenuo "il principio" stesso dell'universo mondo....Mistero e fascino del sacro che vuol fasi umanamente vita nel ciclo naturale della vita nel ciclo della natività. Un Natale misteriosamente umano e divino nel ventre inconsapevole di una fanciulla.
Questo ed altro ci ha insegnato la poesia di De Andrè...sopratutto a non subire il fascino della tirannia della presente, quotidiana e anche tragicamente, coinvolgente storia, né tantomeno la prigione mentale delle ubriacature ideologiche,della religioni storiche, della morale, della storia. Ce lo ha insegnato, come diceva lui, con una specie di sorriso, il sorriso del pescatore, che è emblematico e fondamentale per cogliere il suo modo di comunicare. Non ha avuto l’esigenza di rappresentare il vissuto storico delle persone o i fatti pesanti di quel tempo se non nella loro indecifrabile nudità e universalità, evitando la saccenteria di chi propone categorie etiche o storiche, troppo generali ai limiti della metafisica. Evitando anche il pericolo di rifugiarsi in isole di creatività tra i luoghi indecifrabili dell’essere e le voci assordanti e rumorose di un esserci nel tempo, di un tempo esagitato e fuori le righe. Ci ha suggerito l’immagine del poeta combattuto tra la necessità di non smarrirsi nella realtà, di
non farsi prendere, di non farsi ingabbiare il cuore, di non lasciarsi catturare negli archetipi universali che sono oltre la storia.
mauro orlando 



..noi uomini della "vigilia"
sentinelle e custodi dell'attesa
..... del giorno prima
del mistero della preghiera pagana
che "esca 'o sole" del "natale"
che non cade dal cielo stellato sopra di noi
ma dalla legge comune dentro di noi 
.....noi uomini dei "desideribus" 
che cadono liberi dalle stelle
che si nascondono nelle crepe dei terremoti
agli angoli degli abbandoni gravidi di vita
nella notte solitaria in attesa del "mistero"
sulle panchine della solitudine attiva
respirando la incorrotta dolcezza del silenzio
nei giorni in fiamme di slanci comuni
lontano dai mari che ingoiano gli orizzonti
per i "rari nantes in gurgite vasto"
o nei ciarlieri e incivili non-luoghi
del mercato delle anime morte della modernità
foreste dei sentieri interrotti del 'logos'
dove l'anima è schiacciata nei suoi tedi infiniti
tra reti disposte a dimora dai i ragni della tecnica
stringendo l'orizzonte in un livido cerchio
dei buchi neri del nulla esistenziale
....noi infreddoliti dal calore dell'inquietudine
dentro la silenziosa altura di Trevico
dove i venti giocano con gli alberi....
e inventano ombre di paure per bambini
passeggiando tra querce e castagni innevati
nei sentieri non interrotti del bosco o radure viandanti
passeggiando con le parole riscaldate dal fiato
a cogliere i raggi verdi del tramonto
che vigila e accoglie la luce dell'alba
...dove Eros liberato
agita scuote e scioglie le membra
e come il vento dai rami fa cadere
dolcemente le foglie d'autunno sul prato....
.....noi siamo quelli dell'attesa e del tramonto
del continuo ritorno tra i vivi con l'eudaimonia del deserto
dei margini, dell'abbandono della pienezza della gioia
mendicanti provvisori della pienezza incontenibile
di una sovrabbondanza di benessere e benvolere
che si dona a chi sa ascoltare in perfetta letizia....
il suono, la forza, il tempo ," la musica dietro le parole
la passione dietro questa musica...
la persona dietro questa passione....
tutto quanto non può essere scritto"
se non dall'"amico"..."ospite degli ospiti"
che ci racconta l'ultimo suo confine
in un "tempo senza mèta" 
dei luoghi dell'incerto,del mutevole ...del provvisorio
alunno di Dioniso "genio del cuore"...
sovrano della danza leggera e piana
dello sguardo che crea e distrugge
patrocinatore e archeologo della vita nascosta
nella sua esondante solitudine delle panchine
dei piccoli paesi delle quiete colline irpine
dove il sapere s'incarna nelle piccole cose
dove la vita si nasconde come brace che urge
facendosi seduzione di attesa e di scoperta
di un nuovo infinito di esistenze comunitarie
di un pensiero vivente nel corpo
alla ricerca di brividi e vertigini veri,reali e viventi
nel caos ....insoggiocabile ricchezza del divenire
e dello scorrere del mondo
nell'eterno ritorno del diseguale...del provvisorio
del silenzio...della solitudine....del margine...dell'abbandono
e allora...
jesce sole....
jesce sole....
jesce sole.....
nun te fà cchiù suspirà....
mercuzio
Pubblico questo clip per colmare una lacuna in rete. Buon ascolto!





nostalgia,,,nostalgia per piccina che tu sia.....




La nostra anima della memoria  è diventata “vintage”?E’ giusto ancorarci a situazione ricche di passioni calde ed oggetti del passato del sentimento  come forma rassicurante di una dimensione dell’anima  politica  perduta  non trovando appagamento e continuità  nel presente. Il “vintage” non è ricordo  ….. è una forma possibile di vivere o organizzare la nostalgia? Il passato si presta ad essere riempito di cose ideali dal momento che il presente  è bulimico  di momenti fondanti,di toppe pregresse di senso. Ci si abitua a d un parossismo del pensiero  che cerca se stesso e sfinisce per trovarsi dappertutto in una canzone,un oggetto,un vecchio quaderno d i appunti e quant’altro. “tutte le storie ne contengono una –scriveva Kundera- che non è stata ancora raccontata e che probabilmente non verrà raccontata mai”.  Il senso mitico dell’infanzia,di Babbo natale e del gioco come forma del mondo…era il tempo degli Dei di Eraclito che   giocavano con gli elementi con la natura e a dadi con gli uomini. Oggi al mitologia possibile delle origini  può essere l’antidoto ad un tempo che ci sfugge tra le dita  e che non riusciamo a fermare e capire.Non abbiamo più radure che ci permettono di pender fiato nei nostri viaggi parossistici e superficiali  in un presente complesso,complicato inafferrabile come Proteo. Mito è parola-racconto  ma non parola delle merci che hanno bisogno di aggressività e asservimento totale della nostra mente e psiche..Pasolini ricreava un passato mitico  nelle borgate reali o mai esistite, Leopardi li cercava ‘oltre la siepe’. Il vintage è al fenomenologia dello Spirito-merce  che satura il nostro orizzonte di senso e che noi dobbiamo comprare per estendere quel senso a noi stessi.

mercoledì 30 luglio 2014

oggi mi sento un lupo in gabbia


oggi mi sento un lupo in gabbia......

 "Sono nato nella bocca di un lupo, un lupo sperduto in un’altura senza boschi, era febbraio del sessanta, c’erano nel paese una decina di macchine e un migliaio di muli, le rondini muovevano il cielo, i porci tenevano ferma la terra, camminavano i giorni verso il futuro. Poi tutto si è fermato, siamo entrati nel mondo, i vecchi sulle panchine hanno preso la via del cimitero, il cimitero ha preso la via delle case. È andata così, più o meno, il tempo alla lunga si rivela la forma tranquilla del veleno." franco arminio 

 ....ma è mai possibile che da una bocca di lupo possa nascere un tranquillo e domestico cane “ triste ,solitario y final” , randagio di riporto o di testimonianza ,nel silenzio di “un piccolo paese” dimenticato e sperduto o tra le macerie di un Nord affluente e disamorato in una crisi perenne. Ho letto la bella storia di un lupo che ha disegnato una arteria naturale e ininterrotta che unisce gli appennini alle alpi, tra foreste,crinali ad alta quota, vallate , partendo da i monti Sibillini , beneficiando di fatto del progressivo spopolamento ed abbadono di interi territori appenninici e alpini con l’unico senso solo di indicare o ricordare all’homo erectus “una via naturale e possibile di vita “. Anche la “paesologia “ potrebbe essere o indicare “questa via” percettiva o conoscitiva che ognuno deve riimparare a disegnare per sé e per gli altri “la cicogna” di karen blixen. Il lupo è un animale molto umano. Non ama la debolezza ,preferisce l’astuzia e la leggerezza de “ la mètis”…greca, non nell’accezione della furbizia e superficialità della modernità condannata allo sviluppo a tutti i costi . Prova speranza ,paura ,orgoglio, disgusto,rabbia. Il lupo con le sue azioni tra fughe e ritorni ci mostra e offre descrizioni e racconti del suo mondo interiore comunque di ‘sé’. Normalmente non può parlare parole umane ma, quando naturalmente ne possiede le doti, riesce a proiettare sé stesso e a dare voce alle creature che appaiono sulla sua scena tra i silenzi dei suoi territori e paesi abbandonati dagli uomini e dalle idee. Nelle “alture senza boschi” ha Imparato in solitario o in branco sin da cucciolo il senso di una comunità di riferimento e di vita , come la radice più profonda di un albero sente un passero posarsi sopra il ramo più alto…..Si sente da sempre un essere diverso dalle altre cose viventi, diverso dagli alberi e dalla neve, più simile al fuoco, più simile all’autunno che all’estate…..Impara a parte in solitaria a decifrare e gustare il silenzio dei boschi e delle macchie … a sentire oltre alla falcata pesante o felpate delle sue prede anche il ritmo del loro cuore e del fiato….. a misurare la loro paura mista a rancore , invidia, accidia …… si abitua ad essere il lupo , quello che strappa e sconvolge la tranquillità della vita degli per amore e altruismo non per aggressività o piacere , non ama essere definito il predatore del quieto e impaurito vivere ma gli piace non “mota quaetare … ma …quaeta movere”.E’ sempre diretto e onesto …attacca tenendo gli occhi aperti…Sa e vuole essere …. l’ombra che porta la luce della morte, la vita che dona la libertà ai paurosi,pavidi…. braccando le mandrie mansuete e gregarie ,mettendo fine alle sofferenze dei deboli…… se indifesi e abbandonati. Ama confronti aperti, espliciti ….equilibrati e dignitosi. Ha imparato dai vecchi solitari e muti padroni delle panchine a saper ascoltare i passi amici, addolorati, innamorati dei passanti o il suono impercettibile che affiora dal silenzio, un ramo che scricchiola, mentre cade sulla neve con un tonfo distante , calcolare il tempo e il suono , il verso di un eccello o il fruscio delle ali all’altezza delle orecchie,il soffio appesantito di un cane invecchiato , il grattare di un insetto dal profondo di un albero morto. Rumori, suoni ,parole che sente solo quando non gli occorre sentirli, come se sapesse che possono farsi sentire proprio perché non li ascolto…che non lo distraggono dall’ azione delicata e vitale…. solo un essere vivente,naturale , vivo e sveglio che sente ,fiuta e percepisce gli altri uomini tristi, felici, preoccupati o persi…. con compassione e timore mentre sa che gli alberi non lo sono e non li sentono……ma li subiscono… Non può vivere addomesticato e tranquillo “l’inverno in una stanza vuota e senza connessione”.La sua natura è libera e ferina , rispettosa e memore dell’equilibrio perduto e oltraggiato dal resto degli esseri umani : e’ un essere autenticamente democratico e sbagliano i più forti e potenti o amici affaticati nella “bella famiglia d’animali” ….è credere di poterlo scoraggiare mostrandosi agguerriti e decisi a scacciarlo o annientarlo o relegarlo … a vivere l’inverno in una stanza vuota e senza connessione”. O in un definitivo e civile “cimitero d’altura”. La aggressività ,malevolenza , accidia o malvagità non fa che accrescere la sua fame o voglia di combatterli e anche di abbatterli….E anche quando sembra sconfitto, scoraggiato e amareggiato …… non si rifugia nella fredda ma accomodante per affetti “casa d’inverno” ma …. in cuor suo , per natura, si predispone ad esercitare ad impararare a simulare negli occhi della maschera lo spettro e la paura della momentanea sconfitta o di “un buen retiro” per riprendere il suo ruolo individualmente ferino di portavoce poetico dell’ equilibrio mobile … del ‘de rerum natura’ e della riscossa degli abbandonati ,terremotati e maltrattati negli zsunami e sulle macerie della modernità delle élites finanziarie ed economiche e di tutti loro lacchè, nani e ballerine . mercuzio

domenica 13 luglio 2014

DUE LETTERE SULLA PAESOLOGIA.

 

  DUE LETTERE SULLA PAESOLOGIA.


 1. La paesologia è una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda. Ci vuole un’idea di sé scucita dagli abitini classici e rassicuranti dell’ego cartesiano. Noi siamo materia esposta alle intemperie esattamente come un albero, come una casa cantoniera. Non siamo una fortezza da cui spiare l’infantile disastro del mondo. Un amico architetto mi diceva che lui vorrebbe qualificarsi come paesologo. Mi diceva che l’ottica paesologica contiene in sé tutto quello che lui fa e non gli dà molto piacere definirsi architetto. È lo stesso motivo per cui non mi sento a mio agio a sentirmi definire scrittore o anche poeta. Mi sembrano parole che parlano di esperienze troppo diverse. Con la paesologia io me ne vado da un’altra parte, definisco un territorio fatto di volpi e di poiane, di lampioni rotti, di cani randagi, di gatti, di vecchi sulle panchine, di vecchine che girano per strada con una busta in mano. Questo territorio è la goccia di sangue sotto il vetrino. Ma non c’è bisogno di microscopio. La vista è dilatata dall’ansia, dal tremore di stare nel cratere del proprio corpo, un cratere che trema, trema da sempre. La paesologia non è una nuova scienza umana, è una forma d’attenzione verso il fuori, attenzione intensa perché provvisoria, perché il paesologo parte dagli abissi del suo corpo e ci torna continuamente. Il suo guardare è un tentativo perenne di venire al mondo che pare non riesca mai a compiersi del tutto. Ma proprio qui si avverte la grazia, il vorticare confuso delle cose che stanno fuori, la distesa immensa delle creature deposte nel lieto inferno della terra tonda. Per me oggi non ha senso essere scrittori, sociologi, architetti. Forse non ha senso neppure definirsi umani. Siamo chiamati ad ascoltare l’aria e l’aria ci dice che i nostri saperi sono chiodi di gesso a cui non possiamo appendere niente. La paesologia è una disciplina inerme, ma non arresa. Non partecipa alle marcette e alla marchette accademiche. Allinea dettagli, avanza, indietreggia, inciampa e forse è con questo inciampare che riesce a essere più dentro, più vicina alle cose. Il paesologo non ha in programma la salvezza dei paesi, non tutela i campanili, i dialetti, le manfrine del rancore, la fregola delle confidenze e dello stare vicini. A volte combatte, s’indigna, chiede tutela per gli esseri e le cose che stanno in alto, lontane dai vaneggiamenti delle pianure, ma questo filo di ardore subito s’intreccia al filo della mestizia. Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore. La paesologia non dà ricette per curare, ma si prende cura di guardare, di aggirarsi senza meta, di indugiare o anche di andare via alla svelta. Non ci sono regole, questionari da riempire, non c’è un formulario da approntare. Si esce per poche ore oltre la prigione domestica, oltre la prigione della propria professione, si va nei luoghi più nascosti e affranti e sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare. Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere fra cento anni. Fra un secolo i paesi avranno una piega più chiara, saranno morti o saranno vivi e vegeti e allora non avranno più questo crepuscolo che li rende così particolari. Si è aperta una piccola finestra e da questa finestra il paese ci fa vedere il delirio e la gloria di stare al mondo. Andate nei paesi allora, andate dove non c’è nessuno in giro. Abbiate cura di credere alla bellezza sprecata del paesaggio, portate il vostro fiato alle sperdute fontanelle del respiro. 2. Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro. Sono infinitamente stupidi i cittadini che quando arrivano in un paese fanno sempre la solita domanda: ma qui di cosa si vive? È la domanda di chi pensa di essere in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla conquista di chissà che. Il paese, se accogli la sua lingua, ti dice che sei un cane, che devi dismettere l’arroganza di chi pensa di essere il padrone della terra. Il paese è una creatura che sgretola qualunque narcisismo, per questo le vetrine sono sempre un po’ fuori posto (il paese è una creatura intimamente puberale e se gli metti il doppiopetto diventa ridicolo). L’uomo che va in giro per i paesi, il paesologo, in realtà è un cane, ha il punto di vista del cane. La sua è una scrittura sgretolata, ha la postura accasciata di chi è stato colpito da un male fraternamente incurabile e non può che congedarsi dalla letteratura come prova titanica di un autore che pretende di spiegare il mondo. Non ci si arrende solo rispetto all’idea di inseguire il mito dello sviluppo, ci si arrende all’idea di essere qualcosa o qualcuno. Per uscire dall’autismo corale ci vogliono posture nuove. È tempo di tornare a una fisiologia meno velleitaria, a un quieto vagabondare nel mondo che gira, nell’aria che non sta mai ferma, nella polvere in cui luccichiamo ad occhi aperti insieme al sole e alle stelle. Franco Arminio

una mesta rinuncia a Aliano....


una mesta rinuncia ad Aliano...... 

 “Il corpo di Bob Bridge lo ha accompagnato per ottantasette anni. Non per molto ancora. Il tempo consumato è il corpo di Bob. Tutti i suoi organi sono in declino. I nostri corpi si sono evoluti in modo da durare solo il tempo necessario a trasmettere i nostri geni alle generazioni successive. Dopo esserci riprodotti e aver cresciuto i nostri figli, non siamo più necessari. Bob ha svolto già da tempo il suo compito biologico. Vive di tempo preso in prestito”.…Il corpo è ciò che ci pone in contatto con il mondo. L’uomo non ha un corpo, ma è un corpo…e allora corpo ed anima non sono separati. Pure ammettendo che tale separazione ci sia, il corpo può fungere da veicolo per la crescita e per la grandezza dell’anima. Come Zarathustra allo specchio sconvolto un mattino vide”il ghigno deforme di un demonio….e pensò che ancora “l’erba maligna vuole passare per grano” e che anche gli amici possono andare smarriti….trascinati dai nemici ,è necessario”ridiscendere dagli amici e dai nemici”…anche a costo …..“di nuovo parlare e fare doni “e dare il meglio di ciò che trabocca dal cuore e dall’anima e scendere ancora a valle tra “le tempeste del dolore” e donare ciò che si era succhiato leggero sino in fondo sul ventilato,solcato. silenzioso e magico di Aliano. Certo anche dentro di noi intravedo insidioso e accattivante” il lago solitario che basta a se stesso” ma tutti quelli che continuano a viverlo “hanno bevuto profondamente alle fonti alpestri” non solo a conforto del ” nostro cuore esule” ma per alimentare un torrente d’amore e farlo scorrere con naturalezza verso il mare del sogno, della speranza e del futuro. “O voce di colui che primamente conobbe il tremolar de la marina!” Ad Aliano si respira la storia minima e provvisoria di anime consumate e solitarie e si cammina i sempre nuovi sentieri ininterrotti per imparare, come in una pedagogia permanente,ad usare “le radure e i segnavie” e anche le vecchie, logore e abusate parole ,ma per discorsi nuovi....diversi e sempre uguali e la voglia di vivere e raccontare vite provvisorie e rinnovate di creatori e non di spettatori,gregari e ripetitori.Stanchi e annoiati della vecchia lingua impastata di buoni propositi per i vecchi discorsi della poetica,della politica ,della filosofia e della teologia.Gli spiriti che vi circolano "dal desio chiamati" sono incamminati sui sentieri liberi e ventilati tra i rugosi calanchi come deltaplani policromi o aquiloni che cercano le mani dei bambini per essere guidati.Ma non solo e sempre per volare con le ali come aquile solitarie….. e vogliono incedere come uomini anche con le vecchie scarpe ma per tracciare nuovi cammini e storie vere con la mente semplice e leggera di un bambino…………. ed io ....inviso agli dei e amato dagli uomini,sognerò tutto questo tra le "paesane ,sudate e affollate banacarelle" del "Festone" del mio "borgo natio"......Grottaminarda....Irpinia d'occidente. 

mercuzio

venerdì 11 luglio 2014

..lontano da Aliano


…con la coda dell’occhio del paesologo…..assente da Aliano
Pensando da lontano alle giornate di Aliano e  per caricarmi di ottimismo intelligente e visionario e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio  testo  di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa. Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili  categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione  del ruolo del maestro-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot  descrive  in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura  (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica  consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il maestro-paesologo  di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mercuzio


..lontano da Aliano


…con la coda dell’occhio del paesologo…..assente da Aliano
Pensando da lontano alle giornate di Aliano e  per caricarmi di ottimismo intelligente e visionario e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio  testo  di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa. Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili  categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione  del ruolo del maestro-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot  descrive  in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura  (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica  consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il maestro-paesologo  di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mercuzio


domande senza risposte......




una brezza salvifica e fresca
asciuga gli umori neri
e i sudori acidi
di un indesiderato scirocco 
di testa e di stagione
che riapre le finestre aperte
della monade leibniziana....
contra la spinoziana sicumera
dell' Uno-Tutto
contrario
agli "spritz" mentali e percettivi
di un pensiero
che ha rotto
l'orologio del tempo frenetico
della modernità incivile
padrona e senza dramma
cieca e muta....
per una inoperosa vita
scandita dal pendolo pigro
del tempo immobile
segnato dai battiti del cuore. ...
nel perenne turismo dell' anima
antica 
che sonnecchia 
tra le crepe e le caverne platoniche
mai abbandonate....
per paura di riveder le stelle
e l'accecante sole.....
dalla terrazza degli orizzonti perduti
del vociare infantile
e lo stimolo curioso per sensi assopiti
rifugio di pensieri inattuali
presso il Lido Santamaria. ....
e una panchina viva
con il saggio Costabile
"voito " di una inoperosa libertà.
mercuzio..

vacanze e......paesologia


Vacanze e paesologia

 Lessicalmente e culturalmente antinomiche queste "categorie. ..non dello Spirito assoluto hegheliano" ma del " tempo immobile paesologico e provvisorio dentro di noi". ..ci permettono tuttavia di fare il punto sul tema centrale del nostro vivere oggi con autenicita' e consapevolezza le esperienze esistenziali , culturali e politiche che vogliono andare oltre le abitudini e gli stili di vita...miti e icone della imposta "modernità incivile"....e nella trasfigurazione dell'immaginario e del politico nell'irrisolto postmoderno. Il problema è culturale, giuridico, politico e esistenziale assieme. Ripropone , in tempi di crisi strutturali e globali del nostro pensiero occidentale tout court , il tema costituente del "nomos della terra"...oggi. Una sorta di ritorno alla "razionalità della natura" che superi d'amblai la satrapia autoritaria del moderno "cogito cartesiano" o dei kantiani "tribunali della ragion pura. ..pratica o del giudizio" nella centralità universale e necessaria dello "io penso". Abbiamo necessita' di riappropriarci di un " giusnaturalismo terraneo" che vede la centralità della terra nel nostro pensiero, sentimento, passione .... azione nella sua accezione più ampia di quella legata alla ottocentesca proprietà privata o pubblica o comune in rapporto al lavoro o alla fatica. Le carte costituzionali contemporanee hanno riproposto e introdotto i "diritti della Natura".....definendo il " buon vivere" come un necessario e possibile ordinamento pubblico economico attraverso il quale promuovere anche lo sviluppo insieme al progresso. L'essere umano e la terra sono "consustanziali".La terra ridiventa la madre del diritto. ..della politica...della cultura.....della vita in ultima e prima analisi. È da questa interpretazione e visione , e non viceversa, che si può parlare di "libertà" e patto sociale. ...solidarietà. ..bene comune.Lo Stato di fatto assume un ruolo non solo di "persona giuridica astratta"...lontano o diverso o nemico del cittadino. ... ma si fa "universalità concreta" dove l'essere umano dismette i panni esclusivi dell' homo aeconomicus" per ritornare ad essere " zoon politikon. ...e curatore e amministratore del bene comune in tutte le sue articolazioni. 
mercuzio

venerdì 27 giugno 2014

Una casa aperta per la paesologia


Una casa aperta per la paesologia. 

Qualsiasi analisi politologica,sociologica o antropologica dovrebbe rilevare una cotraddizione teorica e funzionale tra le esperienze culturali-politiche che intendono pensare ed operare nella “società civile” e quelle che intendono pensare ed operare nella società politica. Tertium non datur ….per non finire nella incertezza letale dell’asino di Buridano! La articolazione sociologica,culturale con finalità politiche di nuovo senso vedono nella società civile l'insieme plurale e non omogeneo della soggettività di pensiero e di azione in ambito non politico ‘strictu sensu’ con tentazioni di populismo,impoliticità, apoliticità …radicalismo inconcludente.La specificità del pensiero e dell'azione nella cultura politica occidentale da Platone a Popper si è costruita sulla priorità del soggetto pensante ed agente rispetto allo stesso e specifico pensiero o alle idee pensate o perseguite in modo originale o tradizionale. Non la casa prima del singolo o collettivo costruttore di case. A Cairano, a Laviano e in tutti “i parlamenti nei “piccoli paesi dalla grande vita” con soggetti liberi,attivi,riflessivi e consapevoli era e sarà questa semplice ma presuntuosa verità che ha fatto capolino in modo provocatorio ma chiaro nel panorama sonnolente e ossequiente non solo politico, ma giornalistico e culturale della italia delle metropoli, delle campagne , delle riviere, delle montagne e degli appennini sul tema della vivibilità della vita. E' stata una occasione per tutti ma sopratutto per i singoli soggetti che ribadivano e pretendevano con passione e intelligenza la necessità e l'importanza di riconoscere e rivalutare un modo di pensare e fare la politica non necessariamente con "i canovacci", gli strumenti e le finalità che la storia e la cultura politica italiana aveva messo in campo nei diversi momenti della fragile e recente democrazia italiana dall'unità in poi….nel coacervo di iniziative “ecologiche” nella grande crisi economico-finaziaria nel processo in corso di “mondializzazione” sotto gli occi vigili delle telecamere e dei social networks. Lontani dalle cortine fumogene per non riconoscere, con onestà intellettuale e politica, non solo le responsabilità soggettive della momentanea sconfitta da parte dei leaders naturali o presunti tali ( nelle elezioni amministrative, politiche o europee) ma anche la individuazione di uno spazio o occasioni di ridare dignità e valore a tutte le iniziative organizzate e non che sono sorte nelle piccole e grandi comunità territoriali sull'articolato mondo dei diritti e dei valori civili ma soprattutto degli stili di vita e di pensiero nel rapporto col mondo naturale e civile nei “piccoli contesti urbani” e nei gradi spazi naturali e paesagistici. Queste realtà esistono comunque e nonostante noi ci saimo auto considerati "mosche cocchiere abilitate " della storia di tutte le stagioni dei movimenti italiani legati al rapporto ecologico dell’uomo con la terra in generale o i territori di vita vissuta e da vivere in particolare. Il tema del pensiero e dell’azione “ culturale-politica” riflessiva, attiva, responsabile e consapevole che si esercita nelle nuove forme della partecipazione ed esperienza individuale-comunitaria o nella logorata ma anche utile dialettica-conflitto con tutte le forme organizzate e istituzionali della politica (partiti,sindacati ecc.)non è solo una esperienza bella e coinvolgente ma anche una sorta di stimolo e coinvolgimento delle istituzioni ‘naturaliter’…..dal passo lento,dai pensieri corti e dall’occhio miope. E' da qui e da queste premesse ( di vittorie ed errori) che comunque bisogna ripartire non per cercare e costruire nuove case, nuove comunità, nuove “democrazie” con nuove ammiccanti aggettivazioni….. non per proporre o pretendere rappresentanza per "inquilini speciali" con “affittuari geniali ed ispirati con il marchio doc della “paesologia” o di qualsiasi sapere sempre autoreferenziale se pur ‘arreso’.Queste benefiche esperienze hanno senso se si vivono per ricreare sempre e comunque spazi ed occasioni per l'esercizio e la difesa della democrazia esposta alla “malattia senile” della esposizione alla varie forme dell’autoritarismo piramidale della “macrofisica del potere” e soprattutto della “microfisica dei poteri”. mercuzio

giovedì 26 giugno 2014

le grandi radici della "paesologia"


Il nuovo anno il nostro viaggio riprenda la strada al ritrovamento degli uomini delle colline e degli appennini e dei piccoli paesi,dopo i nostri “ritorni” provvisori e brevi sui mari che lambiscono le coste del mare nostrum alla ricerca della libertà o delle isole felici….farneticando soltanto su un definitivo abbandono della terra per un viaggio nell’Oceano di un nulla eterno. Nella Gaia scienza, col titolo ‘Nell’orizzonte dell’infinito’ Nietzsche scrive :«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!».In questo sogno radicale siamo agli antipodi del ‘nóstos’ mediterraneo di Ulisse , di Enea….di Ercole; il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero ‘éxodos’, un salpare senza ritorno nel cuore della crisi di tutto l’occidente europeo incomprensibili, disumano e freddo. D’altra parte, parliamo del filosofo che aveva dedicato una poesia a Cristoforo Colombo. Non più ‘póntos’, questo mare spinge piuttosto a tagliare tutti i ponti, a dimenticare perfino la terra ormai definitivamente alle spalle. La sua esperienza “triste ,solitaria y final” a Napoli e sulle nostre spiagge della magna grecia doveva diventare fatale alla sua “eccitata e affaticata ragione”.Anche ancora hic et nunc…. la nave resta unica e precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua.L’immaginaria realtà ci ricorda che ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che batte rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimitato e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli. Un horror vacui, uno sgomento di fronte al ‘Niente’ potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di ‘nómos’. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, la nostalgia struggente per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con le sue leggi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Ci si sente in questo stato di precaria nullità e immobilismo in questa crisi epocale economica,finanziaria ,storica e culturale in cui siamo bandalzosamente imbarcati sospinti dai demoni del capitalismo dopo aver offeso e vituperato in noi stessi i demoni della utopia, dei sogni e delle speranze ….. nella storia effettuale e gli orrori del totalitarismo egualitario e elitario. Siamo impauriti ,smarriti e immobilizzati dalla convinzione di un impossibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una “dislocazione”, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che non consente più radicamento e dimora o desiderio di un possibile ‘nuovo inizio o nuova nascita’ per continuare le piccole storie anche inutili e provvisorie. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica? Anche il nostro viaggio immaginario,onirico e reale a Cairano, a Nusco, a Bisaccia, a L’Aquilonia, a Rocca lo decliniamo al passato prossimo nel vocabolario della nostalgia e del ricordo. Riconoscendo ancora che esso corrispondeva e corrisponde al nostro “costume” irpino di “ umanità precaria delle montagne” provvisoria e terrestre anche quando sogna..Ricominciare dal piccole dal basso con sguardo acuto e verticale da collina….. Niente “Colonne d’ercole” , paradisi ed utopie ma un inizio di viaggio periferico, quotidiano,fragile e provvisorio alla ricerca non dei paradisi perduti profani o del Santo Graal divino ma “la grande vita nascosta nei piccoli paesi” delle nostre belle colline che muta di senso,di colori, di misteri, di storie e di espressione ogni giorno sempre ….nella forza della fragilità e nella sicurezza della provvisorietà. Il paese è il luogo del suo farsi male e più prova a scappare più lo agguanta. Qui la sua vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta”.F.Arminio, Circo dell’ipocondria. Con il pessimismo critico di Leopardi e con le sue domande realistiche “ …..Forse s'avess'io l'ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei”.Sapendo che …..al risveglio da sogni burrascosi, di amarezza e di avventure , belle o brutte , possiamo riprendiamo comunque il cammino tra le piccole cose che sono anche lavoro,vita, poesia e bellezza. mercuzio

giovedì 19 giugno 2014

..paesologia ....mon amour!


”La paesologia è in guerra con le parole, è in guerra con le astrazioni. …..La paesologia è l’illusione di trovare anime mute, anime sconvolte dal clamore di un attimo qualsiasi e non dagli spettacolini del tubo catodico o del pianeta google” Di parole ne abbiamo consumate , raggrumate e appesantite dalla lontananza e dalle incomprensioni dell'autismo paesano.Le frenesie presenzialiste ripropongono un urgenza e una necessità per ritrovarsi e verificare chi sa che cosa..lo spirito dell’inizio, il senso sbiadito e gerarchico di un comunitarismo amicale , ognuno con domande mai pronunciate che in cuor suo conosceva già le risposte possibili e desiderate …..ognuno con la speranza che il viaggio continui senza nocchieri autoreferenziali .La paesologia è democratica o non è. Il pericolo teorico-pratico di qualsiasi processo di formazione di una esperienza originale , nuova ed autentica è cessare “di mettersi in discussione” o subire il timore di poter concepire una possibile “alternativa” alle proprie forme acquisite di vivere o pensare in comune , siano esse esplicite o implicite. Ci si sente esentati o infastiditi dal dover riesaminare, riargomentare, rigiustificare o riprovare la validità dei propri postulati , opinioni o ragionamenti o la utilità dei propri esiti se pur non ritenuti assoluti e definitivi nel consumato e conflittuale incontro con le storie del passato,del presente e dell’immediato futuro.Non basta la garanzia totemica dell'atto percettivo come cifra delle nostre esperienze comunitarie. Le vere esperienze culturali ,che sono comunque politiche nella cosidetta età della “postdemocrazia” sono vive e vitali fino a quando non sopprimono, sopportano o vietano il pensiero laico, critico e plurale.....rimuovendo le proprie psicosi o nevrosi da prestazione o di successo. ” La cultura e la politica si fondano sul dato di fatto della pluralità degli uomini e…. trattano della convivenza e comunanza dei diversi”. Partecipiamo tutti alla politica o ad esperienze comunitarie come “esseri riflessivi” e siamo scaltri nel voler usare tutta la nostra libertà senza voler incorrere nella cosidetta “impotenza da eccesso di libertà”.Ecco per me una delle necessità di formalizzare le comunanze individuali per una declinazione reale dell’etica della responsabilità che non mortifichi l’etica delle convinzioni.Abbiamo individuato uno spartito su cui scrivere le nostre melodie e qualcuno l’ha chiamato “paesologia”.Ora dobbiamo ad ognuno di noi lasciare la libertà di scriverci la propria canzone ,la propria lirica,il proprio racconto, il proprio progetto,la propria filosofia……io da parte mia voglio scrivere un mio viaggio verso una nuova identità plurale della cittadinanza ripartendo dalla mia bella e abbandonata Irpinia.......ogni tanto in solitario con gli occhi curiosi,,,sognanti e distaccati di un bambino..... 
mercuzio

mercoledì 18 giugno 2014

L'Irpinia delle colline


“…non è il mondo che vorrei trasformare, ma il mio modo di stare al mondo , e considero questa la vera rivoluzione…”, perché …. ”l’essenziale è invisibile agli occhi.” ( J. Ochayava) 

 ’Irpinia delle colline Per quanto avverto , come irpino delle diaspore, costretto o capitato a vivere sulle sponde di un lago, il richiamo del sole e del mare Mediterraneo sulle cui rive amo trascorrere gli inverni, mi sono abituato da terra a capire la sfida del mare aperto e compreso il ruolo dell’Oceano come una possibile o necessaria “grande crisi “ epocale o secolare. Sono un uomo dell’appennino abituato agli orizzonti corti verso l’alto o in orizzontale sul lago. Noi irpini non possiamo essere “santi, eroi” ma neppure “navigatori, al massimo “banditi” , piccoli agricoltori,pastori o cacciatori di frodo. I nostri modelli religiosi possono essere mistici appatto di essere umani troppo umani. I nostri viaggi erano legati al nomadismo solitario, conoscitivo ,introverso e fantastico della transumanza….o sacro del pellegrinaggio. E i nostri tratturi mentali ci portano per il mondo con la promessa a noi stessi di ritornare. Siamo “pastori erranti” dei “piccoli territori o paesi”…dal “vagar breve”. E inseguiamo “il corso immortale “ della luna non oltre le Colonne d’Ercole o di Thule, se non nei sogni del dovuto riposo come viatico al massimo a fantasticare …..Forse s'avess'io l'ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei. Ma …..al risveglio con sogni burrascosi di avventure , belli o brutti , riprendiamo comunque il viaggio che è anche lavoro,vita. Pur amando i filosofi del tempo presente e dell’avvenire non avvertiamo più neppure la cogenza del Termine imposto al nostro viaggio. Da molto tempo per noi sono ormai abbattute nel loro valore simbolico le Colonne d’Ercole, guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. Sulle nostre terre o sulle nostre coste si sono sentite le parole dei poeti,dei sapienti o dei filosofi «Via sulle navi, filosofi!, era alle soglie della modernità il perentorio invito a prendere il largo lanciato ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire», sollecitandoli a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori», assumendo sguardo vigile pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che accade. Questa è la crisi epocale economica,finanziaria ,storica e culturale in cui siamo bandalzosamente imbarcati sospinti dai demoni del capitalismo dopo aver distrutto in noi stessi i demoni della utopia ….. nella storia gli orrori del totalitarismo egualitario e elitario. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una “dislocazione”, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica? Anche il nostro viaggio immaginario,onirico e reale a Cairano, a Nusco, a Bisaccia, a L’Aquilonia, a Rocca corrispondeva e corrisponde al nostro “costume” irpino di “ umanità precaria delle montagne” provvisoria e terrestre anche quando sogna.. Niente “Colonne d’ercole” , paradisi ed utopie ma un inizio di viaggio periferico, quotidiano,fragile e provvisorio alla ricerca non dei paradisi perduti profani o del Santo Graal divino ma “la grande vita nascosta nei piccoli paesi” delle nostre belle colline che muta di senso,di colori, di misteri, di storie e di espressione ogni giorno sempre ….nella forza della fragilità e nella sicurezza della provvisorietà. Il paese è il luogo del suo farsi male e più prova a scappare più lo agguanta. Qui la sua vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta”.F.Arminio, Circo dell’ipocondria. Mauro Orlando

martedì 17 giugno 2014

dialoghi immaginifici

https://comunitarncd.files.wordpress.com/2014/06/e2809cdialoghi-immaginificie2809d-tra-il-clown-nanosecondo-e-il-suo-angelo-custode-mercuzio.pdf

.....il religioso silenzio....

Il religioso silenzio di un tempio al tramonto .... prima del logos padrone come parola che lega al tempo e uomini e cose tenuti in disparte.... scomodi inopportuni salvati... solo con parola poetica che lo distrugge nel canto corale ...e noi spettatori pigri del nascondimento dell' Essere impariamo con timore e tremore ad ascoltare il silenzio lontano dai teatri e dalle chiese sconsacrate nel tempo... .....viandanti dei deserti e dei luoghi appartati dell'abbandono cinico della modernità incivile... ...oggi ho sentito una voce leggera di silenzio nelle carezze di una piccola onda del mare dove ancora canta la malia erotica la giovane ninfa Leucosia nel mare dove nacque Venere e fece questa terra feconda di vita lenta e felice col corpo e la mente in armonica koinonia in presenza di altre creature incuranti dei rumori di fondo delle piazze dei mercati o delle disarmonie dell' animo nel piacere conviviale della perduta familiarità con il sapere e l'eloquenza del tacere e dell' ascoltare..... quando più sento il silenzio negli spifferi segreti tra le crepe del mio animo e nelle esuberanze logiche nel cure dei miei amici....

domenica 15 giugno 2014

L'elogio dell'inoperoso....


Elogio dell'inoperoso.... parola magica...equivocata e cifra di vita autentica..... .....
........Ed ecco allora il paradigma o la categoria originale e diversa della provvisorietà e ….della inoperosità. L’improduttivo spazio e tempo dell’inoperoso non è delimitabile da un opaco dispositivo di miscelazione di desideri arcani, pulsioni di fuga, resistenze inerziali, eremitaggi esistenziali, silenzi e rifiuti assoluti, immobilismi estremi. Volendo far uso di un lessico più squisitamente filosofico, possiamo peculiarmente qualificare l’inoperoso come la prevalenza dello stare dell’essere sul divenire dell’essere: esso è il sottrarsi giocato contro l’esporsi. In tal senso, è la faccia speculare del potere: l’abbandono simmetrico alla cattura.Noi vorremmo scongiurare l’abbandono delle emigrazioni,le fughe nella propria autosufficienza intellettuale o sociale,la cattura nelle neoideologie postmoderne del “fare” come variabile indipendente della producibilità umana universale e necessaria.Dobbiamo pensare per non disperare che possa esistere o essere pensata una possibile nuovo modo di fare economia.Si parla di economia ‘noetica’. Una possibile nuova situazione in cui le visioni, i miraggi, le speranze segrete e inconfessabili, le introflessioni integrali, i mutismi e gli arresti incondizionati, le resistenze estreme e l’estrema inarticolazione dell’inoperoso diventano la prassi possibile per vivere e pensare “i piccoli paesi” dell’abbandono, e dei “terremoti”,delle emergenze o delle urgenze naturali o meccaniche. Essa, grazie alla sua razionalità metapoietica, fa dell’inespresso,del fantasioso,del sogno e del non pianificabile il suo oggetto perspicuo, che non lega le proprie sortie le sue finalità alla esplosione consumistica e sublimazione riproduttiva . L’inespresso e l’inarticolato non necessariamente devono essere letti nell’ottica sublimato, modificato e riprodotto. Attenti e sospettosi che anche l’inoperosità può essere trasformata in mercato operoso che mette in scena il fantasmagorico teatro della fruizione consumistica dell’inespresso. Che l’inerzialità, l’inespressività e l’inappagabilità dei desideri possono diventano sempre riproducibili, attraverso sequenze/figure immaginifiche: replicanti che si spacciano per mutanti. In queste condizioni inedite e nuove rifiutarsi di pensare che non v’è alcuna speranza di poter ingabbiare anche l’inoperosità nel ciclo o della salvezza o nell’orizzonte della linea di fuga......
 mercuzio

giovedì 5 giugno 2014

...le parole al tempo della crisi

...le parole al tempo della crisi.... Per amore solo per amore delle parole... sento il fastidio di un abuso de parole fredde e inospitali da ragionieri anaffettivi del risentimento del dare-avere impoetico ..... E allora triste e sconsolato allontanò lo sguardo dalla terra del rancore e dell' autismo strapaesano e fissò amorevole il riflusso infinito delle onde del mare ...e vide e sentì inseguendo un senso che non c'è la brezza leggera la luce diffusa i colori sfumati gli odori indiscreti che riflettono ancora nello specchio profondo del mare le parole che il pifferaio magico trasportò con sè nel fondo del mare quando bruciarono la casa del libraio che non amava la poesia postermetica sperimentale con spruzzi di nihilismo in tensione con le parole non verso le parole di un io camaleonte in conflitto con l'io leviatano per scappare da uomini incapaci di bellezza e letizia..... quando le le loro parole si sono fatte forme fredde e senza vita dal magma infuocato del proprio spirito materico . fosfenico con desiderio di continuità e d' armonia.. nel suo reale contraddittorio conflitto..... ora anche i poeti frequentano i supermercati delle parole nelle piazze affollate della politica o della finzione tecnologica in attesa di occhi indiscreti ....curiosi e semplici come bambini o menti invasate di furori poetici vitali con la rabbia delle baccanti senza freni... e forse naufraghi di un 'nòstos' senza 'mètis' al risveglio le parole riprendono il volo come bolle leggere piane.... .chiare fresche e dolci come acqua.. folli...gridate agli uomini o bestemmiate con le braccia al cielo dal grazioso riso o dal vecchio pazzo che si crede Re truffatore folle di cielo e terra e di parole naufragate agli uomini senza imparare a nuotare ..... e...... senza chiedere "pinne...fucile ed occhiali quando il mare non è una tavola blù...ed è bello tuffarsi con la testa all'ingiù ."

mercoledì 4 giugno 2014

A Mauro, amico caro, che mi parla indossando vesti d’angelo e dicendo, come angelo, di chiamarsi Mercuzio. Mercuzio, personaggio scespiriano considerante la vita come sequenza pura di episodi e, nell’episodio, rappresentante se stesso, ispirato ad allegria, a sensualità, a gioco. Un Mercuzio, quello scespiriano, che piroetta mattacchione sul palcoscenico della vita nascondendo così il suo pessimismo doloroso. Ridi pagliaccio sul tuo amore infranto! Ridi del duol, che t'avvelena il cor! Altro è il discorso di Mauro in veste d’angelo, pur se il suo è un piroettare filosofico allegro. A Mauro, e ai suoi amici, non piacciono meditazioni austere, noiose. da affiliati alla trappa.. Mauro lo sa e quindi inventa ossimori come quello dell’angelo cogitante che ha nome Mercuzio, angelo scherzoso, allontanante da sé vaniloquentia et iactatio. Discorso sereno, gioioso il suo, che nasconde con astuzia la tristezza, come il Mercuzio scespiriano, la tristitia rerum tenuta a bada finché può; il suo è frugamento dell’anima braccante qualcosa che doni al dubbio parvum amuletum ad animum nostrum modice confirmandum, rincuorante noi, amici suoi, rimestanti lepidezza e seriosità insieme, bevitori d’indiche, aromatiche tisane fumanti intercalando senza metodo cartesiano parvenze di sillogismi e facezie, distesi su divani in salotto d’ospite discepola di Jung o in raffinato bar mitteleuropeo, all’ora solita, cotidie, noi, soggetti smarriti. Caro Mauro, ho letto con invidia la tua capacità di comporre un dialogo di tipo platonico mischiato con sprazzi pirandelliani (“Ciò che raccontiamo di noi è realtà, pura realtà. È realtà!” “No, no, è fantasia, siete tutti matti. Via di qua!”), condito con il riso multicolore di un angelo/clown, come si fa di solito con amici che soprattutto amano calorosi rapporti umani. Amici disdegnanti aride solitudini e stupide presunzioni. Risponderti non è facile dopo la lettura di vorticose illuminazioni. Io sono invece un vulcano in via di spegnimento, al fondo del quale ci sono braci esalanti spirali di fumarole. In verità l’immagine del vulcano è ben lontana dall’esprimere quel che sono stato nella vita. Nella vita ho amato le quiete distese del mare, i soffusi tramonti color pastello del mio lago, i sereni pendii dei monti e le rocce, quiete nel tempo che irreparabile fugit. Parto dalla fine del tuo dialogo dove ad un tratto parli dell’amore, esperienza umana tra le più belle e più rare. Un parola (l’amore) che non è semplice flatus vocis, ma è realtà pervasiva che ci ha dato la vita (siamo nati in seguito ad una attrazione amorosa sprigionata dai sensi) e che “muove il sole e l’altre stelle”: L’amore è sempre stato, per me, un tranquillo flusso che mi ha legato ad alcune esistenze sotto il segno di Venere che ad “amar conforta”, ovverosia “esorta, sollecita”. Questo è il maggior bene che abbia avuto dalla vita, molto più del sapere. Non mi importa affatto conoscere le mirabili scoperte matematiche di Gauss, se nel contempo non avessi l’amore; e potrei proseguire, sull’esempio di Paolo di Tarso (vedi Ia Corinzi), nell’elenco dei saperi. Non potrei lasciarmi affascinare dalle Disquisitiones Arithmticae di Gauss se non mi innamorassi della loro bellezza. Su questa mia asserzione il nostro amico Sebastianus, mathematicarum artium peritus, at a philosophiae cogitationibus abhorrens, senz’altro ─ opinor ─ sarà d’accordo. Ne sarei felice. Penso che il fluire dell’amore nella sua completezza, cioè se è corrisposto, lo si ravvisi, sia pure allo stato apparentemente elementare, nella natura inorganica. Il mondo atomico è un microcosmo di relazioni incredibilmente complesse in cui particelle subatomiche chiamano altre particelle. L’acido solforico è un’unione di elementi ( H2SO4 ). Certo, siamo nel regno della necessità; questi legami sono forze che, necessariamente, in date circostanze, si attraggono e si uniscono. Mi viene il desiderio di leggere, a sostegno della correlazione fra mondo fisico e mondo umano in tema di attrazione, lo scritto di Goethe Le affinità elettive dove si allude a quel particolare fenomeno chimico per il quale due elementi associati, sotto l’azione simultanea di due altri elementi dotati di certe determinate proprietà, si disgregano, associandosi con questi ultimi in due nuove coppie, per legge di reciproca attrazione (è la storia raccontata nel romanzo, la storia di Eduard, Charlotte, Ottilia e il Capitano), per necessità, come se il carattere di ineluttabile necessità, che è proprio delle leggi della natura, si sia trasmesso anche al sentimento degli uomini. È come se una forza magnetica, analoga a quella che impera nel mondo, agisca anche sopra le anime, entro le anime. Non dice forse Francesca che “Amor,… al cor gentile ratto s’apprende” (Inf. c. V, v. 100), cioè che Amore trova facile accesso in cuore gentile? Il cor gentile è l’ animo nobile. Poi (v. 103) Francesca esclama: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, Amor che non permette (perdona) che chi è amato non ami la persona che l’ama. In verità, amore è forza primigenia, che è un tutt’uno con l’istinto di vita, il desiderio, la volontà di vivere. Si ama, si desidera vivere. La radice di amare sembra derivare dal sanscrito ka, kam, che significa appunto desiderare, amare; e dal greco maomai “bramo”, connesso con menos “animo, principio di vita e di forza; principio di volontà, brama”. L’infante appena nato s’attacca alla mammella della madre per trarne alimento e vita. Le carezze della madre lo rassicurano dopo il trauma di apparire alla vita. Amore quindi è energia che percorre il nostro esserci,; forza che permette a noi di esserci, non in modo caotico, confuso, disordinato, informe (un qualcosa che è simultaneamente orecchio ed occhio oppure lingua e naso, e così via). Una energia intelligente, nel senso che si muove secondo strutture razionali, funzionali, in cui agisce il caso, a sua volta condizionato dalla selezione naturale secondo la quale una farfalla sopravvive perché con i suoi colori si confonde con la corteccia di un albero e quindi facilmente non diviene preda di uccelli predatori. Il colore delle ali della farfalla non è voluto consapevolmente dalla farfalla stessa, ma dal caso. Ciò nonostante, al caso si unisce la necessità che sopravviene con le sue leggi fisiche, chimiche, biologiche per cui una farfalla è una farfalla, e non un gatto. Quindi, le farfalle e i gatti hanno una loro storia, benché di questa essi non siano consci. Ecco, appare per la prima volta il termine coscienza, dal latino conscire, “aver coscienza, consapevolezza di”. Ma sulla coscienza, dopo. Quando si parla dell’amore, lo si deve intendere come forza che si dispiega in mille forme, da quella semplice che si identifica con l’amor vitae (istinto di sopravvivenza), all’amore materno, filiale, coniugale; l’amore/amicizia tra persone che non hanno legami di parentela, Comunque abbiamo a che fare con un sentimento che è definito con parole contenenti la stessa radice, am─. Si può anche amare un paesaggio, il proprio paese, che è diventato un luogo dell’anima, il ricordo di un viaggio che suscita visioni che fanno parte essenziale della nostra vita; si può amare un animale e piangere sulla sua morte; si possono amare fiori e piante con cui alcuni sono addirittura capaci di porsi in comunicazione. L’amore per il Bene e la Giustizia può essere tanto forte da spingerci ad offrire la nostra vita, a testimonianza, dinanzi a chi perversamente li nega, della loro presenza sacra in noi. So benissimo che qualcuno può qui obiettare che, quando parliamo di Bene e di Giustizia, entriamo nella sfera della soggettività. Questo è un altro problema da discutere a parte per la sua complessità. Qui mi limito a dire che, allorché si parla di Bene, si dovrebbe fare riferimento a un bene concreto, non ad una idea astratta, che per la sua astrattezza è vuota. Si può invece, analizzando la realtà e utilizzando quindi gli strumenti scientifici della ricerca antropologica, che nell’uomo esiste l’impulso alla conservazione di sé all’interno di una società non conflittuale in cui emerge la consapevolezza di darsi delle leggi. Quali leggi? Vi sono leggi buone e leggi non buone. Le leggi sono soggette ad evoluzione storica. Dovremmo parlare di evoluzionismo culturale. Per il momento parliamo dell’impulso alla vita e all’amore. Quelli che faccio sono rilevamenti desunti da fenomeni. È un metodo pragmatico. L’amore è una energia che percorre la nostra esistenza biologica, come la corrente elettrica fluisce lungo i filamenti di rame o altro materiale per dare luce. Per nobilitare questa forza, questa energia (en─, “dentro”; érgon, “opera, fatto azione”) è stata assegnata ad essa una parola, che muta nelle varie lingue e che significa “spirito”. Lo spirito di vita. L’amore che muov soli e stelle, e ci dà la vita, non solo quella biologica, ma pure quella psichica (sentimenti, affetti, desideri …). Vero è che l’amore è multiforme. Può essere passione coinvolgente i sensi, dolce contemplazione di persone, di esseri od oggetti che ci affascinano. L’amore è relazionalità; una relazione può interrompersi, svanire, sostituita da un’altra. Caratteristiche dell’amore sono la specificità e la prossimità. L’amore è specifico perché le varianti delle esperienze individuali sono infinite, non imitabili se non con artificioso imitazione. Inoltre, l’amore tende a porre in atto tutta la sua energia solo in rapporto al suo prossimo (Ama il tuo prossimo come te stesso). In questo caso il prossimo non sono tutti gli altri, ma solo quelli o quello/quella che sono vicini a te. Prossimo infatti deriva da proximus, “vicinissimo”, contenente la radice di prope, l’avverbio significante “vicino, presso”. L’amore, icona della massima prossimità, è quello ricordato con struggente nostalgia da Francesca da Rimini, e cantato con passione solare nel Cantico dei Cantici, canto sacro e sublime, che ha il grande privilegio, secondo la interpretazione ebraica, di essere simbolo dell’unione di un popolo con Dio: ciò significa che l’amore tra uomo e donna, da cui è generata la vita, è il vincolo più grande e più bello di tutte quante le relazioni umane, ove l’attrazione sessuale si coniuga con il sentimento dell’amicizia, che qui raggiunge l’acme dell’intensità, ove l’uno non può far a meno dell’altra. Poi vi sono gli altri, più o meno prossimi, vicini, meno vicini, lontani, più lontani Così s’allontana l’oggetto del nostro amore, e appaiono tutti gli altri, sterminati, lontanissimi, non più visibili, ma di cui abbiamo sentito vagamente parlare, tutto quello che comunemente, ma erroneamente, chiamiamo prossimo; erroneamente, perché prossimo non è. Questa lontananza spaziale si riduce e quasi scompare; quando, però, si creano rapporti culturali, per cui si può amare una lingua diversa dalla nostra, si conosce l’arte di un altro popolo, il suo modo diverso di vivere, e così via. Si può arrivare ad amare una persona lontana e non mai vista. Jaufré Rudel cantò un “amore di terra lontana”, un amore irraggiungibile. Si può amare, attraverso parole che superano i secoli, una poetessa lontanissima nel tempo, Saffo. Ci si accorge che la vita su questo piccolo globo lega i popoli fra loro, avviati verso un futuro che attende tutti. Un futuro da noi creato. Che cos’è allora l’amore verso la specie umana, se non un amore intellettuale che s’identifica con quello di cui parla Spinoza quando definisce l’amore di Dio verso le sue creature un “amore intellettuale” ? “Dio ama se stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicarsi attraverso l’essenza della Mente umana, considerata sotto specie d’eternità”(Spinoza, Etica, parte 5(a), prop. XXXVI). Concludendo, e riassumendo, l’amore è una forza che tutto pervade, anzi è l’essenza, l’elemento base, costitutivo di tutti gli esseri inorganici e organici, dell’aria, dell’acqua, della terra, dell’ameba, del tentacolo del polipo, del bacherozzolo che è immerso nel molle terriccio e non vede mai il sole senza sentirsi minimamente triste, del nostro cuore e delle nostre dita. L’amore spinse Botticelli a dipingere Afrodite che nasce dalle acque. L’amore spinse Mendel a studiare i piselli e l’impollinazione dei fiori. Veramente l’Amore muove tutto ciò che esiste nell’Universo infinito ed eterno. È un tutt’uno con l’Universo. È l’Universo, la Totalità che è (voce del verbo essere), vive, esiste, qui, ora: la vediamo in quel piccolo sasso arrotondato che fu portato dal ghiacciaio sulla spiaggia del nostro lago. L’Amore è ll fiume eracliteo, l’Uno plotiniano, l’ipostasi trinitaria cristiana, il Dio come natura increata e creante di Scoto Eriugena, che contemporaneamente è natura creata e non creante, il Deus contractus di Cusano, il Dio di Giordano Bruno che è anima delle anime, vita delle vite, essenza delle essenze. il Dio spinoziano, natura naturans che si identifica con la naturata naturata, l’Assoluto di Hegel che si realizza nella storia. Dio è parola inflazionata. Il secondo comandamento biblico (Non nominare il nome di Dio invano), prima di essere inteso come divieto morale di non pronunciare il tetragramma, con cui lo si raffigura, come una parola qualsiasi sminuendo in tal modo la sua immensa sacralità, innanzi tutto dovrebbe essere interpretato teologicamente, nel senso che il tetragramma, significante Io sono colui che è, si pone, nella sua incomprensibilità, totalmente al di sopra della nostra esistenza, sicché è vano nominarlo, in quanto vuoto di significato, pura emissione di voce, cui ci riferiamo per analogia, rapportando all’Essere tutto quello che consideriamo buono, bello, giusto. In fondo è quello che poi dirà Kant con i suoi postulati (Dio, l’immortalità dell’anima e la libertà del nostro agire morale). Possiamo procedere solo per aenigmata. Ci soccorre l’Uno plotiniano che genera tutte le cose in un processo di emanazione. Queste sono considerazioni nostre (vale per Plotino e per tutti gli altri) che non si identificano con il pensiero dell’autore citato: è il nostro metodo, interpretare cioè i Maestri, con tutto il rispetto loro dovuto, per farli nostri. Precisato il metodo seguito, possiamo paragonare l’emanazione plotiniana con la sequenza infinita dei numeri che seguono all’infinito, sicché la mia identità è rappresentata simbolicamente con il numero 2 elevato ad una potenza n. L’Uno è l’unità assoluta, l’Essere che tuttavia, per essere deve diventare molteplice, deve essere seguito dagli altri numeri, ossia, fuor di metafora, dagli altri esseri per comporre la propria Storia, Historia Dei per animalia inanimaque, parafrasando la celebre storia di Gregorio di Tours (“Historia Dei per Francos”). L’Uno è presente come essere in ciascun numero: l’ 8 contiene, per esempio, otto volte l’uno. L’Uno è l’essenza di ogni numero, all’infinito (∞), e quindi è Totalità, che, per esistere, diventa necessariamente pluralità, senza la quale rimane un Deus otiusus (“Privo di forma” dice Plotino, riveduto e corretto, “non è nulla di determinato, né qualità, né quantità, né intelletto, né anima, né mobile, né immobile, né in luogo, né in tempo, ma è in sé stesso uniforme, anzi informe”); in conclusione, sarebbe il Nulla, se dalla Totalità potenziale (l’Uno) non seguissero .innumerevoli serie di esseri. Seguendo il metodo della conjectura (metodo suggerito dal nostro Cusano), Dio è il Pater procreator omnium rerum visibiluim et invisibilium: energia in potenza non oziosa, ma necessariamente, in aeternum, attiva. Le creature, inorganiche e organico, sono il Figlio, se vogliamo usare una allegoria cristiana. Poiché Dio non può non amare se stesso, così ama le proprie creature con cui si identifica, senza le quali non può essere. L’Essere esige necessariamente la pluralità degli esseri; inoltre l’amore per il proprio Figlio non può non concedere a questi la libertà, altrimenti il Figlio, cioè noi, saremmo semplici marionette che si muovono in seguito agli impulsi di un burattinaio che ha già scritto il copione di una storia infinita. L’emanazione plotiniana è un processo di degradazione. L’esistenza del singolo essere non può giungere alla perfezione; se ciò avvenisse, sarebbe un duplicato della Totalità pura, cioè il Nulla. Non si può pensare il non essere perché il pensiero e l’essere sono la stessa cosa. Così dice l’altro nostro amico, l’eleatico Parmenide. Il Padre emette lo spirito suo nella storia; anzi, è Spirito d’Amore che partecipa alla Storia, è storia, è l’Uno che diventa Altro e, quindi, per necessità intrinseca all’Essere, che deve manifestarsi uscendo dal Nulla della Totalità, subisce la contractio, la degeneratio. Lo Spirito divino, per amore di sé, non può accettare di rimanere nella ipotetica staticità astratta. Lo impedisce la potenza immensa di energia di vita, una potenza che dovremmo misurare con un numero avente come esponente l’infinito (∞). Lo Spirito divino è in noi, anzi, lo Spirito divino è tutta la nostra struttura fisica/biologica/psichica. Ciascuno di noi è figlio/emanazione di Dio. Queste mie considerazioni possono essere utili per comprendere l’intuizione cristiana della Trinità. Nelle nostre discussioni appare il dilemma riguardante la concezione di un Dio impersonale o personale. Se assumiamo la concezione panteistica, come avviene in questo mio ragionare, parrebbe che la impersonalità di un Dio che, come Potenza/Energia/Spirito, costruisce il mondo secondo sequenze logico─matematiche obbedienti a rapporti di pura necessità, sia la ipotesi più probabile. Il grado di consapevolezza di sé in un sasso levigato da antichi ghiacciai su una delle spiagge del nostro lago, è del tutto assente. Almeno così sembra; lo stesso dicasi di un’alga che ondeggia nell’acqua del mare; credo che la vita psichica in un nido di processionarie verosimilmente abbia un tasso assai debole di vita psichic, prevalendo una attività regolata da istinti, e quindi assai scarsa, se non priva, di autocoscienza. Per concludere, il problema dell’immanenza dello Spirito nella contingenza storica, con la quale si identifica, va visto in un’ottica evoluzionistica. Abbreviando il discorso arcinoto sull’evoluzione naturale (arcinoto in una semplificazione elementare), affermiamo che nell’uomo nasce l’autocoscienza, di cui la scienza ci spiega o spiegherà il meccanismo, senza che, con questa spiegazione scientifica, l’autocoscienza cessi di essere tale. Il paesaggio che vediamo dal nostro lungolago (la distesa dell’antico Benàco e i monti che lo circondano) ha una storia geologica di cui i monti e il lago non sono consci, ma che noi raccontiamo, inserendo la nostra storia nella loro. Il Dio persona − il Dio incarnato − è la nostra persona. Nessuno di noi ha mai visto Dio; per conoscerlo devo vedere in faccia un uomo. Gesù, cioè ognuno di noi, è vero Dio e vero uomo. Il fallimento nostro è il fallimento di Dio. Il dolore nostro è il dolore di Dio. La felicità nostra è la felicità di Dio. La Totalità, inverata nella storia, non può, essendo Totalità, non conoscere la deminutio. Il Male morale è l’ irrazionale che mette sottosopra il nostro mondo interiore, né più né meno di una imperfezione della sequenza del DNA che provoca una inerzia biologica di fronte all’attacco di virus e batteri, oppure è responsabile di deficienze biologiche gravi, tali da distruggere la persona. Nel Cottolengo di Torino si potevano osservare mostri, aborti della natura. La contractio, necessaria allo Spirito per esistere nella pluralità delle cose e degli esseri, riduce lo Spirito a vivere nel tumulto della Storia. Non esiste un piano divino, una Provvidenza che tutto regoli, che tutto alla fine giustifichi. Il Regno della libertà si evolve conoscendo naufragi e lieti approdi. Il dubbio, l’ansia, la paura, lo smarrimento sono realtà della vita dello Spirito, come sono reali le opposte e complementari esperienze quali la certezza del conoscere e dell’agire, la serenità, il coraggio, la fede. È l’umanità a decidere della stessa sorte di Dio, perché essa è Dio, sia nel bene, sia nel male. “Siccome i mortali … invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono, così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel mondo che di grandissimi regni ed imperi umani e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna, parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo, e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.” (Leopardi, Cantico del gallo silvestre). Lo splendido brano di Leopardi, caro Mauro sotto la specie di angelo, ci fa sentire il dramma esistenziale della incomprensibilità del mondo in cui viviamo, quando rinunciamo a voler dare un senso al mondo, alla nostra vita. Il bisogno dell’uomo di capire come è fatto il mondo, di fare progetti, di guardare al futuro, di fare ipotesi non irragionevoli, questo bisogno, che è elemento essenziale della natura umana, come ci insegna una analisi antropologica condotta secondo un metodo pragmatico, basato cioè sui fatti, sulla realtà, è la risposta all’angoscia leopardiana, che è pure la nostra. I cosmologi ipotizzano che l’Universo sia in espansione e che al termine di essa vi sarà una lentissima contrazione, alla fine della quale tutta la materia/energia/spirito si ridurrà al punto iniziale precedente il big-bang, un punto iniziale avente una massa enorme, inimmaginabile. Questo punto in cui si riduce tutta la materia dell’Universo (galassie, stelle, pianeti, satelliti, e tutta la materia vivente) è il raggio di luce che vide Dante nella sua trasfigurazione mistica: “Oh luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi … dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige” (Par, XXXIII, vv. 123-131). Saremo là, eterne effigi, ātman, epifanie dello Spirito che in noi si è incarnato, nelle nostre essenze individuali, che, irripetibili, sono e saranno parte di quella Totalità, di quel fulgore di luce che vive eterno nella storia infinita degli esseri Pure Emanuele Severino si rivolge ai suoi eterni, nella sua recente rimembranza della moglie, scomparsa di recente (Il mio ricordo degli eterni, 2011), Cosmologi hanno recentemente teorizzato universi paralleli seguendo le tracce di Giordano Bruno che intravide con la fantasia mondi infiniti; già Origene, uno dei Padri della Chiesa, nel II/III secolo d.C., scrisse di mondi che concludono la loro storia e di altri che si formano. Esempi questi di intuizioni poetiche o di visioni profetiche che sono servite di stimolo a ricerche scientifiche o a successivi mutamenti culturali essenziali nella evoluzione della cultura umana. Vorrei citare, caro Mauro, per non apparire sognatore farneticante, un maestro del pragmatismo americano, William James, “la cui tesi, in La volontà di credere, è che, poiché la funzione del pensiero è quella di servire all’azione, il pensiero non ha il diritto di inibire o bloccare credenze utili o necessarie ad un’azione efficace nel mondo. Ciò non implica certo il diritto di credere a tutto ciò che si vuole. Occorre che l’ipotesi prospettata nella credenza sia di quelle che non è possibile dimostrare né vera né falsa; occorre pure che sia un’ipotesi viva cioè che faccia un reale appello allo spirito di chi se la prospetta; e occorre infine che essa sia importante, cioè decisiva per la vita dell’individuo e non si riferisca a questioni banali.. Ma se un’ipotesi ha questi tre caratteri, l’uomo ha il diritto di credere, senza aspettare che essa diventi un’ipotesi dimostrata … Mentre la rinuncia alla fede è rinuncia a tutti i vantaggi eventuali che da essa possono derivare, la fede invece ha questo vantaggio: può provocare la propria verificazione. Questo è vero soprattutto nei rapporti fra gli uomini. La simpatia, l’amore si conquistano con la fede nella loro possibilità. E ogni organismo sociale, piccolo o grande che sia, si regge sulla fiducia che ognuno farà quello che deve, ed è quindi una conseguenza di questa fiducia. Ma James estende il principio anche alla struttura morale dell’universo. Anche qui l’uomo ha da fare con un può essere e deve assumersi il rischio della fede. Che, per esempio, la vita sia degna d’essere vissuta, è cosa che dipende unicamente dalla fede, giacché la vita è tale quale noi la facciamo dal punto di vista morale. Certamente, la fede nella bontà del mondo visibile si può verificare solo sul fondamento della fede in un mondo invisibile. Ma James ritiene che questa fede stessa possa, in certa misura, produrre la propria verificazione e che l’uomo si trovi anche qui di fronte a un può essere, di cui gli convenga accettare la responsabilità e il rischio” (cfr, The Will to Believe & other Essays, Watchmaker Publishing, 1919; il brano citato sopra è tratto dalla Storia della filosofia di N. Abbagnano, vol. VI, cap. VIII, pp. 222-223). Il grande compito che attende le prossime generazioni è quello di liberare le concezioni religiose dai miti che si sono fossilizzati nel tempo a supporto del potere ecclesiastico che fa da stampella a quello politico, precipitante spesso in forme totalitarie cui il dogmatismo religioso è un utile alleato. Più che liberarsi dai miti, sarebbe fondamentale, ai fini di una riforma religiosa, rendersi consapevoli che essi sono tali, cioè espressioni poetiche, nate in altri tempi, da interpretarsi ricorrendo ai progressi della scienza moderna. Nietzsche annunziò che “Dio è morto”, ma questo suo annunzio è da intendersi nel senso che “la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile” (La Gaia Scienza, par. 108, 125, 343). Esso è stato assunto come impegno di un rinnovamento del cristianesimo per ricuperare la purezza del suo messaggio. È nata così una nuova teologia di cui i massimi esponenti sono Bultman e Bonhoeffer. Questa teologia contrappone la fede alla religione istituzionalizzata, nega la trascendenza di Dio ed è quindi un panteismo, che trasferisce nel mondo della storia la speranza escatologica. Penso, tuttavia, che in una visione panteistica in cui la storia è eterna, la visione escatologica non può essere intesa come fine della storia, ma come progressione temporale i cui esiti ad infinitum se non sono inseribili in un disegno divino predeterminato, soggiacciono comunque ad una evoluzione in cui dalle forme più semplici si è passati a quelle più complesse, più evolute sino all’apparizione dell’autocoscienza e della libertà. L’umanità, in cui s’è rivelato lo Spirito di Libertà (ecco il vero senso della rivelazione cristiana) ha la caratteristica precipua di progettare e di realizzare il Regno di cui parla l’Apocalisse che, per inciso, non significa “fine del mondo, catastrofe”, come nell’accezione comune, ma rivelazione. Lo stesso calcolo della probabilità, in una serie infinita di possibilità, dovrebbe confortare e rassicurare la nostra fede secondo la quale l’uomo, antropologicamente mutato, costruirà un mondo migliore. Teilhard de Chardin, antropologo e teologo, sostiene che la terra, in un processo ascensivo (dagli atomi, alle molecole, alle cellule e così via) è stata avviluppata da una nuova sfera, la noosfera, al di sopra della biosfera. Il Regno esiste già; iniziò ad esistere molto tempo fa, quando i primi uomini di Neanderthal e di Cro-Magnon cominciarono ad avere la conoscenza del Bene e del Male. Furono i primi Adami. Dovettero porsi i primi problemi riguardanti la responsabilità delle scelte: “Faccio bene, faccio male?”. Teilhard de Chardin ( in Il fenomeno umano ) ritiene che l’evoluzione, nei suoi momenti successivi di materia (H2O), vitalizzazione della materia (l’ameba delle origini), l’ominizzazione della vita, non sia ancora terminata, e che l’umanità si diriga verso una super-umanità futura, costituita da persone mosse dalla solidarietà e dall’amore. L’amore fra gli uomini, sostiene Telhard de Chardin, trova il suo centro e la sua meta nel punto Omega, che è il termine inscritto nella materia primordiale ed il fine immanente dell’evoluzione. Egli identifica il punto Omega con Cristo e con l’incorporazione dell’Umanità in Lui, concepito come coscienza e Persona infinità che fonda e dà un senso a tutte le coscienze e le persone finite. Penso che, in una concezione panteistica, si debba rettificare la conclusione cui arriva Teilhatd de Chardin. Innanzi tutto non esiste una meta nel ciclo evolutivo. La storia di Dio, che si identifica nella Natura, è una manifestazione di Dio che è tale (Dio rivelazione) perché è potenza che necessariamente diventa atto. È Dio che parla creando un cristallo, un prato di margherite, un ciuffo di viole, una distesa di fiordalisi, un lombrico, il pelér, vento che spira ogni mattino sul nostro lago quando v’è il bel tempo. La Totalità non è un libro con pagine sulle quali non è scritto nulla. Il microcosmo è tale (cioè Totalità che s’evolve nel tempo) perché infinitamente ricco di individualità. Il macrocosmo (la Totalità) contiene il microcosmo, anzi è il microcosmo. Macrocosmo e microcosmo sono la stessa cosa. Il Cristo di cui parla la mitologia cristiana è ciascuno di noi, figlio di Dio e figlio dell’Uomo, come si legge nei Vangeli parlando di Gesù, che può essere inteso come icona vivente dell’Umanità. La Totalità è il Tutto che non ha avuto inizio, ma è sempre stato, è, e sempre sarà. Il nostro atman (l’essenza di noi che sopravvive perché nulla si dilegua nel nulla) rimane nello svolgersi dell’evoluzione in quanto particella necessaria al Padre che, nella sua intelligenza e nel suo amore (qualità inscindibili) non può abbandonare il frammento prezioso della nostra vita, svoltasi nel bene e nel male, quest’ultimo patologia diffusa negli esseri che non conoscono la purezza totale. Nessuno è santo. La santità nella contingenza della storia non esiste. Esiste solo, in quelli che vogliono essere buoni, solo l’aspirazione ad essa, ammesso che s’intenda la santità nel suo giusto significato, come dedizione agli altri, come amore. Noi sempiterni siamo destinati a nuove vite trascinati dal fiume eracliteo che ci condurrà verso una evoluzione di noi, come tutte le cose. L’evoluzione, per la sua intrinseca necessità, ci condurrà verso maggiori consapevolezze. Così è capitato nel passato quando un animale a quattro zampe ha cominciato a pensare e a volere. Così, non alla fine dei tempi, ma in un tempo futuro (alcuni milioni di anni?) avremo possibilità, ora inimmaginabili, tra cui ritrovare il nostro passato che è eterno, non per ripeterlo, in eterno ritorno, ma per custodirlo e ammirarlo come un’opera d’arte. Anche oggi si cerca di custodire il bello creato dall’uomo e di rappresentare artisticamente il male per rispetto di quelli che lo patirono, nel perdono/comprensione di coloro che lo compirono, vittime, a loro volta, di una patologia biologica e spirituale. L’evoluzione in atto ci spinge verso una fede che il nostro esserci si spiritualizzerà in forme diverse, molto più complesse, più ricche di vita, incomparabili con quelle attuali dove la morte ci angoscia. La nostra storia non finirà. L’universo, meglio sarebbe dire “gli universi”, è eterno. Il Padre di tutti noi esiste, quel Padre che mia moglie un giorno disse di essere accolta, dopo la morte, tra le sue braccia come una bambina. Che vi sarebbe stato prima del big-bang? Perché qualcosa sarebbe apparsa 13,73 + / − 0,12 miliardi anni fa? Perché l’Energia, che è vita, non avendo avuto inizio. ma è sempre stata, dovrebbe a un certo punto finire? Verrà giorno in cui sapremo molto, molto di più di quanto ora sappiamo, compreso il nostro essere eterni. Rinascerà Pitagora a spiegarci il significato vero, per ora nascosto, del cerchio e del perché la luce viaggi alla velocità di 300.000 al m/s. Sapremo che vi sarà pure la velocità del Pensiero nell’immensità dello spazio (immenso significa, lo sappiamo bene, sine mensura), Pensiero che vedremo coincidere con l’Essere. Non vi sarà né passato, né presente, né futuro che ci potranno arrestare, cancellare e ridurci a nulla. È assai probabile, anzi è deduzione ragionevole che universi infiniti paralleli al nostro mondo esistano già ab aeterno. Sono universi già divenuti paradisiaci. Anche il nostro lo sarà: Il Regno che ci trascende nel tempo che verrà in cui l’Umanità futura sarà una Super−Umanità, costituita da individui uniti fra loro da solidarietà e da Amore.. Mitologicamente parlando, questo Creato superominizzato sarà il Pantocrator. Un nuovo concetto di trascendenza appare senza essere affatto una realtà diversa dall’immanenza in cui il Creatore si identifica con il Creato. Ateisti aborrenti dal profetismo, quello sorretto da fede libera, serena e dotata da conjecturae rationales, questi ateismi ipocondriaci, gioiosamente e dogmaticamente proclamati, non sono in grado (per un loro complesso ipocondriaco e masochistico) di elaborare progetti e speranze riguardanti la sorte dell’uomo. Il risultato di rifiutare la virtù della fede (jamesianamente intesa) provoca quella cultura diffusa e dominante che Emanuele Severino ha chiamato tecnocrazia. Sono alla conclusione del mio conversare e mi accorgo di aver solo accennato alla coscienza il cui problema occupa tanto le tue pagine di risposta all’amico Clown. Mi sembra che lui, l’amico Clown, e tu andiate in cerca del freddo nelle lenzuola. Con ciò non voglio dire che il tema dell’Io e della Coscienza non siano complessissimi e suscettibili di diverse ipotesi. Sono d’accordo con te che l’Io, cosciente o non, è un contenitore multiforme, una specie di Proteo. Ma, vivaddio, l’Io dell’uno è diverso da quello dell’altro. L’Io è pure Persona, cioè un individuo che ha avuto dal momento in cui è stato concepito, esperienze completamente diverse da quelle di tutti gli altri, a cominciare dall’eredità genetica. Poi, dalla prima infanzia sino alla vecchiaia, siamo i recettori di stimoli, informazioni, contenuti provenienti dall’ambiente in cui viviamo, e da altri tempi e spazi: sono gli Altri che ci parlano. Quante volte abbiamo discusso sull’alterità, sulla relazionalità! La relazione tra Io e Tu è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della nostra persona, sempre uguale e sempre diversa. Noi due siamo diversi perché, ad esempio io, fra mille e mille esperienze, non conosco l’Irpinia se non dai tuoi racconti e da quello che mi dice la storia, qualora volessi approfondire l’argomento; ma non potrò mai conoscere la Tua Irpinia che fa parte integrante della tua esperienza. Ecco in che consiste l’identità di una persona. Giambattista Vico non è Emanuele Kant. Tu, Mauro, non hai fatto la mia esperienza di guidare, all’età di nove anni nel 1938, il battello a pale Zanardelli, nel tratto tra Castelletto e Gargnano sorretto dal marinaio-timoniere Ceccon perché le mie braccia di fanciullo non riuscivano da sole a sorreggere il timone. Un’esperienza che ha contribuito a costruire la mia vita. Te lo immagini un bambino che guida un grosso battello della flotta del Garda? Siamo uno e centomila perché innumerevoli furono le esperienze e le conoscenze che via, via aggiunsero qualcosa di piccolo o di grande alla nostra persona senza con questo disgregarla, perché il pilotaggio che feci sullo Zanardelli lo conservo gelosamente nell’animo come conservo il ricordo del braccio, divenuto giallastro, di Carlo Vischioni lasciato per alcune ore in un fossato dopo il bombardamento del Viadotto, il 22 luglio 1944. Frammenti della memoria, meglio, per stare nel tema, della coscienza: frammenti che brillano alcuni di gioia, altri provocanti dolore. Uno e centomila, ma non nessuno, con buona pace di Pirandello. Nel vuoto contenitore indicato dalla parola nessuno non può essere collocato il rapporto tra me, ragazzo quindicenne, e il braccio abbandonato per alcune ore sotto il sole del 22 luglio 1944. Ich und Du (“Io e Tu”) è il nucleo della filosofia di Martin Buber. Né l'Io, né il Tu vivono separatamente, ma essi esistono nel contesto Io-Tu. Non voglio ora soffermarmi sulla filosofia di Buber, che tu conosci bene. Dico semplicemente che la relazione con gli Altri dà la possibilità di convivere nella polis salvo che le leggi scritte non contrastino con il nostro sentire, un sentire dell’animo, della nostra coscienza (si veda il contrasto tra Creonte/Gengis Kahn/Napoleone/Hitler, e Antigone). Antigone segue le leggi del cuore, l’impulso che a lei proviene dal profondo del suo essere. Antigone, nella libertà di spirito che non conosce servilismo, sa ascoltare quello che natura (in verità lei parla di leggi divine, ma noi modernamente traduciamo) le ha instillato sin dalla sua nascita, cioè l’impulso a dialogare con gli altri, a vivere armonicamente con essi senza ricorrere alla violenza, ad aver bisogno di essi in un reciproco dare. Questa è una morale naturale, laica, non discesa da alcun monte in quanto dettata da un Dio che alcuni pretendono parli dietro nubi tempestose. Ti saluto caramente, in attesa di altri nostri conversari. Simone