domenica 31 luglio 2011

Elisir d'amore per ......la "POESIA"


Lettera immaginaria ad Orazio.

“ma tu non sei mai stato un visionario,eccentrico, imprevedibile, sì- ma non un visionario.....i poeti latini, nell’insieme, erano più bravi nella riflessione e nella ruminazione che nella congettura. Per il buon motivo che l’Impero era già vasto quanto bastava per mettere a dura prova l’immaginazione....ma tu eri un provinciale a Roma e questa spiega la tua anomalia sentimentale e passionale.....insieme al tuoi amici Virgilio e Catullo. La nostra logica moderna è lineare non ha gli scarti erotici tra divergenze e continui ritorni in un incessante e infinito cammino di avvicinamento e di distanza….un pensiero appassionato :un atto d’amore vero e proprio. Fatto poetico che a voi riusciva benissimo e in modo naturale rispetto alla vostra esperienza nomade“








Cimelio dei profili – di Franco Arminio
Di francescomarotta

[FRANCO ARMINIO]

Lei non rumorosa
bacia e tocca in modo terapeutico.
Veicolo della tenerezza
accenna raramente alle penurie
del sentimento.
La sua figura è dipinta ovunque
e con ogni prospettiva.

Quiete fraudolenta d’una piazza.
Panchine platani malati
il ragno caldo la calura.
È il luogo dove il giorno
trova sepoltura.
L’epilogo e l’ossario
delle forme.


Non è raro
produrre penombra
con le mani.
La carne oscura
l’angolo su cui cade.


L’esistenza educa le forme
ad appassire.
Dal mio nome ogni giorno
cade una lettera.



La pioggia si dissangua
la nuvola fa il suo dovere
la stanza è un acquario di passi.



Il prato dell’alba di settembre.
Qui la luce affonda senza peso
delicatissimo volume giallo.



Della fiamma serale sei la cera
la forma verticale del calore.
Potresti vedermi
coricato sul ricciolo
adiacente al tuo viso
pronto a tramare un fruscio.



La luce è al suo onomastico.
Nelle vie senz’ombra
il sole è un’imboscata gialla.



Una collina adatta per dormire.
Sull’ultima mano di luce
cresce il sogno dell’ombra
la parte alberata del riposo.
*

Come una chioma
o una brocca
gioiello abbandonato
nell’erba
trofeo dei resti
maternità dell’uomo.



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Franco Arminio, Cimelio dei profili, prefazione di Valerio Magrelli, prima edizione, Catania, LunarioNuovo, 1985.
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sabato 30 luglio 2011

Elisir d'amore per .......una "Comunità provvisoria " al plurale.

“Non ci si arrende solo rispetto all’idea di inseguire il mito dello sviluppo, ci si arrende all’idea di essere qualcosa o qualcuno. Per uscire dall’autismo corale ci vogliono posture nuove. È tempo di tornare a una fisiologia meno velleitaria, a un quieto vagabondare nel mondo che gira, nell’aria che non sta mai ferma, nella polvere in cui luccichiamo ad occhi aperti insieme al sole e alle stelle”.

franco arminio





La comunità provvisoria e Il blog che ne è nel bene nel male la vetrina delle idee originali, degli umori,delle passioni calde e fredde sono le forme e gli spazi tradizionali dell’esercizio democratico di esigenze esistenziali,culturali e politiche. Nello stesso tempo sono le occasioni e lo spazio per costruire nuovi paradigmi ,logiche e grammatiche per vivere e pensare un territorio in modo autentico e originale. Evitando il più possibile la "dannazione alla chiacchiera che alimenta la “postdemocrazia” non solo per implosione dei vecchi vizi e difetti della ‘politica politicata’ ma anche per un cattivo eccessivo uso delle sue libertà senza responsabilità.Noi la voriamo e pensiamo ad una “comunità aperta” al futuro nel rispetto del passato.” “Quando affermo che il futuro è aperto - scriveva K. Popper- con "apertura" intendo, in senso ampio, che noi possiamo scegliere quei valori che sentiamo come valori importanti per noi e per la nostra vita…... Affrontare i problemi significa andare alla ricerca di soluzioni, ovvero ricercare qualcosa che migliori la situazione in cui ci troviamo…..E risolvere i problemi significa compiere delle valutazioni. ……Quando parlo del futuro aperto, io con ciò non solo intendo semplicemente affermare che non è possibile predire quel che accadrà; intendo dire piuttosto che quello che accadrà sarà influenzato da noi e dai nostri valori “.

Questo spazio va curato al meglio delle sue possibilità tecniche ma salvaguardato nella sua libertà di espressione nella regola della responsabilità individuale e nella cornice valoriale e culturale della "paeoslogia". Il blog è anche l'accompagnamento organizzativo e informativo delle iniziative che come Comunità provvisoria formalmente organizzata sia delle esperienze di approfondimento conoscitivo (es seminario a Grottaminarda sulla paesologia o a Lacedonia sul parco rurale o incontri mirati sulle varie “eccellenze” ) ma anche delle visite esistenziali , individuali e comunitarie , paesologiche e amicali nei piccoli paesi nello spirito che Franco ci suggerisce e ci racconta nei suoi scritti. Il Blog è anche l'espressione di un dialogo, un conflitto o un amore e una cura non ideologica e dottrinale per una "terra", l'Irpinia dei piccoli paesi …dalla grande vita”.L’irpinia ha una storia dignitosa e ricca letterariamente e culturalmente anche tra contraddizioni fisologiche ,sospetti metodologici e filosofici e quant'altro la condiziona non solo per le zavorre storiche in senso economico,sociale e politico. Anche questo aspetto ha una sua autenticità e originalità che ci dobbiamo autoriconoscere non solo come difficoltà e complessità ma anche come merito , capacità e possibilità di nuove intuizioni ed analisi. Per ultimo e non ultimo :Cairano 7X. E’ stato scelto “un piccolo paese” come simbolo e anche una possibile pratica di”grande vita” nascosta e da scoprire con una esperienza veramente innovativa e originale con alle spalle una grande esigenza o idea di Franco Dragone che Franco Arminio ha avuto il coraggio dei sognatori , la testardaggine dei poeti e la capacità del vero politico di rendere realizzabile al meglio di uomini e idee che circolano in Italia ed in Europa in cerca di esperienze coerenti di nuovi modi di abitare e pensare la terra che ci è data in comodato d’uso. Incomprensioni ,pigrizie e scelte al ribasso in coda ai poteri costituiti istituzionali e sociali hanno determinato rotture non volute ma necessarie . Di tutto ciò dobbiamo sentirci non solo orgogliosi e liberati ma soprattutto perché abbiamo recuperato il senso di attori e artefici di noi stessi ,ognuno con le sue capacità e le sue conoscenze purchè al meglio delle nostre possibilità e competenze senza gerarchie ne culturali né di poteri. Siamo in una fase costituente ed abbiamo un estremo bisogno di convinte adesioni ma soprattutto di entusiasmo culturale , passione civile, generosità e amore del dono, sentimenti caldi e un impegno personale nella responsabilità concreta secondo le proprie conoscenze,sentimenti e abilità organizzative. La Comunità provvisoria resta una buona e bella idea coltiviamola al meglio delle nostre capacità e possibilità nel rapporto di altre esperienze comunitarie ma non dimendichiamoci di annacquare o disperdere la sua anima “paesologica” .Non è solo “un valore aggiunto” ma un modo nuovo di essere,pensare e vivere l’Irpinia e tutte le “irpinie” della nostra “madre terra”……..



mauro orlando

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Elisir d'amore per .......i sogni e le stramberie di Vinicio

le poesie visonarie di Vinicio sono un impasto della sua vita di confine tra la germania della riforma e della nascita e l'irpinia della memoria e del folklore......una koinonia di suoni,natura e parola di una modernità tarlata delle fantasmagorie delle terre antiche dei nostri antenati nomadi dai sogni ancestrali della terra o naviganti dai sogni lunghi mediterranei,biblici ,semitici o mitici ,greci .....



paesologia salentina
di franco arminio

Cammino con la taranta su una spalla, con il sole in testa, il mare in gola. Ora per ora, zolla per zolla, gli angeli del seicento mi accompagnano tra case di calce, palazzi di tufo, in una terra da gustare all’aria aperta. Mi abbandono alla pietra dolce delle chiese, ai campanili di sughero, allo zucchero filato dei balconi. Cammino agli incroci tra fiori di campo e fichi d’India, tra le antiche donne e il vino, i polipi e gli scogli, i pomodori secchi, il cuore delle cicorie, i datteri, le olive. Terra scoperta, penisola limata dal vento e dalla luce. Mi abbandono a questa luce senza astuzie, grande e sincera, a questa gente ricca di cortesie, raffinata e generosa. Dopo la letizia e la sensualità del Salento si torna a casa e dobbiamo subito provvedere a rivestire di qualche impegno e fatica la polpa nuda della nostra vita. La giornata ricomincia ad andarci di traverso e noi siamo come il mosaico sul pavimento nella cattedrale di Otranto. Ma sul nostro corpo più che l’albero della vita è disteso l’albero dell’ansia.
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giovedì 28 luglio 2011

Elisir d'amore per .......un viaggio provvisorio

“…Ma i veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili a palloncini,non si allontano mai dal proprio destino e senza sapere perché, dicono ogni volta:“Andiamo”!Sono quelli i cui desideri hanno la forma di nuvole,quelli che sognano, come fa la recluta con il cannone,piaceri immensi, mutevoli, sconosciuti,di cui l’animo umano non ha mai conosciuto il nome!”

Charles Baudelaire – le fleurs du mal





La comunità provvisoria -che sceglie di essere soggetto-plurale- ha intrapreso un suo viaggio due anni fa! In questo nostro provvisorio viaggio come Comunità , in una sorta di ritorno identitario non nell’inferno conradiano di una contemporanea “Apocalypse now” ,tuttavia abbiamo incontrato i nostri moderni ‘ piccoli demoni cattivi’ che inconsapevolmente vivono di piccolezze ‘umane troppo umane’ che non hanno retto per pigrizia al gioco “leggero e piano” della ricerca dell’ “io” della nostalgia ,della bellezza,della mitezza ,del silenzio e delle malinconia e della ossessiva loquacità del silenzio. Il viaggio è stato la metafora letteraria e concreta della nostra esperienza esitenziale e filosofica individuale-comunitaria inseguendo le ossesionio filosofiche di Faucalut e i sospetti niciani a tutte le forme di metafisiche e microfisiche del pensiero e del potere . Il nostro viaggio comunitario doveva essere il classico “viaggio eterno e simbolico” dove dovevano convivere a loro perfetto agio i profondi e doloranti sconforti dei poeti e dei ‘sognatori pratici’ con le argomentazioni più eterogenee dei cultori del logos,della doxa, dei sogni, della fantasia, dei professionisti delle tèkne e delle arti primarie e secondarie……non dei santi,navigatori ed eroi in cerchi di isole o paradisi perduti. Avevamo scelto di viaggiare senza i confini e osteggiato con intransigenza i pericoli della formalizzazione burocratica… del senso comune e del “fare senza anima e pensiero….di andare avanti in “ una cornice provvisoria che si allargava e si restringeva, in cui si sceglieva volta per volta di andare e si venire liberamente”. Volevamo inventare anche un nuovo modo di fare un viaggio nelle nostre radici senza diventare etnofobici e i nostri futuri senza diventare metautopici.Volevamo essere ‘ossimori’ viventi con la spregiudicatezza di giocarci anche le contraddizioni : sogni-reali. Con uno spirito multiforme e misterioso guidato assieme da Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggevono con una natura molteplice e versatile. Doveva poter assumere tutte le forme, prendere tutte le strade, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua natura doveva essere ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. Essere artificioso come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e di voli leggeri e solari e segnato da costellazioni luminose, velato e misterioso come la rotta dei pirati, dei ladri, dei pastori ,dei trovatori , dei mercanti e degli amanti. Non indicavamo mete -ripeto- e isole felici da raggiungere ma volevamo vivere felici nella isola-territorio che ci è stata donata dai nostri padri con fatica e anche con gioia. Non seguivamo le chimere o le sirene che ci cantavano ammaliatrici di mondi da scoprire o da indicare ma volevamo conoscere profondamente e far conoscere il territorio in cui siamo nati e vissuti non sempre con la comprensione e il rispetto di chi lo ha governato e sfruttato.Noi che intellettualmente ci siamo educati ad amare il viaggio per amore del viaggio come Gulliver e Robinson non con la malinconia lacerata di Amleto ma con la versatilità operosa di Ulisse ….forse con la dolce e sconsiderata follia di Quijote “il cavaliere dalla triste figura” . Abbiamo imparato a conoscere le insidie della malinconia e della nostalgia ma avevamo sottovalutato i piccoli rancori, le cattiverie, le pochezze,le idee corte,umane troppo umane, delle rivalse e dei riscatti nelle sacche degli umori neri degli animi senza orizzonti e ideali lunghi. Molti di noi si salveranno dal ‘naufragio’ perché per tempo abbiamo imparato ad amare la solitudine a scavalcare ed evitare i frutti malefici dell’isolamento.Ci salviamo perché sappiamo per esperienza umana troppo umana che sono sentimenti che non si possono temere o tacere ma vivere nella loro diversità. La malinconia è insidiosa e la nostalgia è diversa, perché la nostalgia è un sentimento di assenza, cioè fondamentalmente di assenza ma che può essere recuperata con la memoria ,il ricordo e sopratutto con il ritorno a casa e al proprio passato nei limiti del tempo possibile e della terra ridotta e curata dei padri. A patto che in questo nostro viaggio sia la nostalgia che la malinconia diventino sentimenti belli e attivi che ci costringono a superare la pigrizia, la noia , i rancori e le tristezze stimolando la voglia di “conoscere e curare sé stessi” e intraprendere sempre nuovi viaggi dentro di noi e dentro la terra che ci è toccato di vivere
di mauro orlando

martedì 26 luglio 2011

Elisir d'amore per .......un amico lontano.....

...momentaneamente lontano
..... come se mi mancasse il giorno
che mi mancasse il cuore
......dove se vinco o perdo
questo non ha importanza
.......in fondo alla paura
in una notte scura.....
in un infinita sera
così tremendamente lontano....




Egregio Professore,
mi costa molto doverla importunare soprattutto nella ricercata e sacra intimità dei suoi “ozi desenzanesi”.
L’ impellente e improcrastinabile motivo,poi, rischia ad uno sguardo fugace di rientrare nella casistica desueta del “ solito ed inopportuno rompicoglione”in cerca di rassicurazione e conforto alla sua dubbia e controversa capacità versificatoria o artistica.
Il fatto è presto detto. Tutto nasce dall’amore sconfinato e nobile di una mamma che con religiosa segretezza ha voluto conservare gli sfoghi letterari e poetici del suo proprio giovane figlio.
Il caso ha voluto che io divenissi, dopo la sua recente dipartita nell’eternità, unica erede materiale di questi eccellenti e promettenti versi.
Data la mia inesperienza estetica ed ermeneutica,io non mi sento in grado di diffondermi sulla natura di questi versi per me deliziosi e promettenti.Questi versi non hanno sicuramente ancora un loro stile, ma sento che sono sommessi e coperti avvii a un accento autenticamente personale.
Io , a differenza di lei e della sua accertata esperienza letteraria e sensibilità culturale, non so dire se sono dei buoni versi ma so solo sentire una autentica esigenza di ricerca di penetrare in sé stesso e di delineare una via d’uscita naturale a scrivere i propri affannosi e giovanili sentimenti e impellenti e burrascosi sogni .
Si sente che c’è una ragione poetiche che lo spinge a scrivere e estendere le sue radici nel più profondo e riposto luogo del suo cuore. Si avverte l’impellenza caotica e disordinata di un impulso di una ricca vita giovanile che vuol farsi segno e testimone di sogni e d’amore.
Sono raffigurate le inquiete tristezze e le strazianti nostalgie, i pensieri passeggeri e la fede in qualche occasionale bellezza, raffigurate con intima, profonda, burrascosa, sincera ed autentica ingenuità linguistica ,ma usando soprattutto le immagini dei propri fantasmagorici sogni e della propria giovane memoria e intelligenza.
Mi sembra che le sue parole riescono a cogliere la ricchezza di una mondo reale povero e limitato rispetto alla sua sfrenata esigenza di fantastico e di fuga nei sogni e nel tesoro dei ricordi.
C’è un autentico viaggio al proprio interno alla ricerche delle parole adatte e giuste per esprimere la propria intima , sacra e non ancora definita identità.
Io ho sentito il suono di questi precoci sentimenti ammaliato come al canto delle sirene ma non sono capace e non voglio perdermi in interpretazioni partigiane e sprovvedute.
E’ questo il motivo della mia incauta sfrontatezza nei suoi riguardi e della sua sacrosanta privacy.
Insomma io con grande modestia credo che questo giovane poeta si farà e che il suo valore non è solo dettato da uno sconfinato amore materno o da incauto e sprovveduto sentire di un critico bricoleur quale io mi sento di essere.
Vi ringrazio in anticipo per la disponibilità ad accordarmi ascolto e fiducia dettate solo dal rispetto alla sua privata persona e alle sue riconosciute e pubbliche capacità e sensibilità poetiche e letterarie.
Con,devozione , rispetto e simpatia
Un anonimo ereditario di un ’ inizio di viaggio nel ‘ sublime’ e nel ‘sogno’ “

Elisir d'amore per ......i sogni dei giovani irpini......


“E ti diranno parole
rosse come il sangue, nere come la notte;
ma non è vero, ragazzo,
che la ragione sta sempre col più forte; io conosco poeti
che spostano i fiumi con il pensiero,
e naviganti infiniti
che sanno parlare con il cielo.
Chiudi gli occhi, ragazzo,
e credi solo a quel che vedi dentro;
stringi i pugni, ragazzo,
non lasciargliela vinta neanche un momento;
copri l'amore, ragazzo,
ma non nasconderlo sotto il mantello;
a volte passa qualcuno,
a volte c'è qualcuno che deve vederlo”
R. Vecchioni.



Sono in tanti tra di voi a condurre una vita senza senso ad inseguire un sapere come riscatto o come possibilità di ribaltare i meccanismi dei poteri o di poterli reinterpretare a proprio vantaggio. Sembrate mezzo addormentati,disorientati anche quando siete occupati a fare ciò che ritenete importante. Questo perché molte sono gli stimoli e le occasioni per stare dietro a cose sbagliate , superficiali all’apparenza. Si può arricchire di significato la propria vita primaditutto disponendosi ad amare gli altri, dedicandosi alla comunità che ci vive intorno e creare qualcosa che ci dia uno scopo, un senso. Vi affacciate alla vita sociale e pubblica dietro allo stimolo e alla necessità di dovere difendere e ribadire un “diritto”: il diritto alla salute e alla cura di sé e degli altri. Viviamo una terra bellissima e ricca di storie di impegno civile e culturali importanti e profonde ,ma non ci basta. Un semplice impegno pubblico oggi richiede a voi sentimento,passione ma soprattutto ragione che alimenti nuova vita mentale per affrontare l’esperienza fondamentale che di un uomo un uomo:la politica .Noi oggi normalmente pensiamo che la politica copre un ambito molto ristretto della nostra vita. Tanto ristretto che uno potrebbe non incontrarla mai e non fare mai nulla di politico nella sua vita. Non gli è proibito da nessuno. E qualche volta ,invece, ai più è concesso accedere alla politica in un attimo ,in un istante, cioè nel momento in cui va a votare. E’ un breve attimo, è un segno e poi la sua vita rientra di nuovo in un ambito non-politico. Ecco come stanno le cose oggi anche in Irpinia.La politica copre di fatto un settore molto parziale e non esaltante della nostra vita. Infatti a ciò che propriamente e comunemente costituisce il politco (cioè lo Stato,le istituzioni, i partiti….) si contrappone una sfera vastissima, molto più ampia ,ricca e vitale che è la “società civile” che comunemente non è considerata ( e forse non lo è) politica. Ma io voglio dirvi che le cose non stanno propriamente così. La Politica ha una dimensione più vasta e assolutamente diversa dalla politica praticata e professionale come puro o distorto esercizio del potere che noi quotidianamente subiamo o accettiamo criticamente. Anche la scienza politica moderna è cieca e colpevole rispetto alla vita politica e lascia gli uomini indifesi sia rispetto alle perversioni più aberranti,drammatiche e violente (totalitarismi ideologici e fondamentalisti).Non è bastato a M. Weber scrivere “ La scienza e la politica come professione” per dare un senso possibile all’impegno politico nelle contraddizioni della modernità a voler giustificare razionalmente un qualsiasi atteggiamento pratico.(governare un comune, una regione …un ospedale).La politica attiva, pratica,concreta nelle migliori sue interpretazioni tende a non considerare la vita degli uomini e la cura di essi quando viene meno la sua salute prigioniera di ragionieristiche camice di forza della burocrazia o del bilancio. La stessa medicina come scienza e come pratica scientifica non si pone la domanda se la vita è degna di essere vissuta ma nel migliore dei casi quando, o per quando la vita deve essere vissuta. La medicina al massimo come suo scopo la salute e la vita del paziente. E noi non le possiamo chiedere se è desiderabile e perché continuare a vivere. Questo significa che purtroppo ogni scienza ,la più utile e più nobile, oggi è cieca rispetta al proprio fine e a i propri valori. La stessa scienza politica non ci può dire non ci può dire :se la democrazia è desiderabile o più desiderabile di altre forme di governo. Ci può raccontare ,descrivere quante e quali sono le forme di democrazia o le forme contrastanti con la democrazia. Ci può aiutare a capire o rilevare criticamente quando funzionano male istituzionalmente diverse organizzazioni e praticche del potere e delle organizzazioni politche. La scienza politica ,purtroppo, si presenta come imparziale, neutrale, a-valutativa. Il campo politico a sua volta per come lo vediamo e lo sperimentiamo quotidianamente e concretamente nei momenti di crisi si rivela essenzialmente come il campo e l’ambito del potere è la politica è lotta per il potere. E quindi per entrare in quell’ambito bisogna organizzarsi e pensare in un certo modo per entrare nelle ‘macchine del e per la lotta per il potere,per la distribuzione ,per la spartizione del potere ’ che sono i Partiti. Oppure nel caso della necessità di vivere la Politica come valore si producano capi carismatici o radici etniche o fondamentalistiche che spostano in altri o nel passato il senso e le modalità di un impegno pubblico sul proprio territorio. La nostra esperienza “paesologica” nella Comunità provvisoria è vuole essere filosofica e politica ma non nel senso della ‘scienza filosofica e politica’.Noi ci domandiamo e chiediamo non la ‘natura dell’uomo’ universale necessario ma quali sono le condizioni in determinato territorio anche con la sua storia culturale etnicamente determinata che rendo possibile l’uomo uomo. Certo con questo atteggiamento concreto e critico e con queste domande mostriamo di essere ,quantomeno avversi o sospettosi di una certa deriva della “modernità” senza cadere nei fondamentalismi etnici con esiti fobici o razzisti. Dopo Cartesio noi coltiviamo il sospetto e il dubbio che l’uomo inteso come soggetto unicamente conoscente rischia di sentirsi incondizionato, cioè come colui che non accetta nessuna condizione, ma pone lui le sue condizioni alle cose, al mondo esterno .Preferiamo che la nostra Comunità sia provvisoria e non definita su fondamenta solide e definite che ti costringono a vivere beatamente con le spalle rivolte al passato ( sia esso celtico,nordeuropeo o semitico-ebraico.grco-romano). Per noi gli uomini e le cose sono realtà finite ,limitate a cui la politica cerca di dare senso ,volta per volta, a questa finitezza e limitatezza. Sappiamo cha anche i diritti sanciti dalle varie carte costituzionali o dalle lotte sociali vanno rivitalizzati e riportati alla unicità comunitaria di ogni essere umano. Noi non chiediamo solo di ripristinare un diritto o uno spazio di cura dei singoli malati indipendentemente dal fatto di essere momentaneamente malato. La salute è un bene che non lo stabilisce solamente la medicina o la politica sanitaria. La questione per noi e di sapere se ciò è per noi desiderabile, sul Formicoso o a Bisaccia o a s.Angelo, se cioè lo vogliamo veramente. E questa è propriamente una questione politica. La politica per noi non è un settore determinato e limitato( e stabilito o imposto dagli altri) della nostra esistenza di cui possiamo fare anche a meno, se vogliamo; o che incrociamo molto raramente, se vogliamo;o che incrociamo più intensamente ,se vogliamo. Ma la politica riguarda proprio l’uomo in quanto tale. Per noi è politico rieducare lo sguardo per vedere il bello dei nostri territori (paesologia), utilizzare in modo essenziale e non solo utilitario o in diritto gli strumenti della tecnica e della medicina per giocare politicamente nelle articolazioni provvisorie delle attività propriamente umane…lavorare,fabbicare e agire.( ponein,poiein,prattein…come dicevano i greci che io preferisco ai celti!!!!)Esse sono qualità superiori alla contemplazione e fare teoria o ideologia. Rovesciare gli ordini tradizionali di pensare e agire partendo dalla finitudine umana e dalla sua provvisorietà e possibilità di realizzare se stesso nella sua individualità e alterità comunitaria. Una comunità è appunto questo: è una struttura permanente e provvisorio (ossimoro) che vuole rendere quotidiano lo straordinario e il profondamente autentico e prima di tutto rende possibile a ciascuno di essere sé stesso al cospetto e nel confronto con gli altri. La Comunità è soprattutto la condizione l’esercizio della libertà individuale e concreta. La libertà è da intendere esattamente come il potere o dovere mettersi in contatto con gli altri a partire da se stesso, e per se stesso; e tenendo, in qualche modo, e sfidando anche il ricordo e le memorie, cioè proponendo le proprie azioni, pensieri,sentimenti,passioni,sogni,speranze come degne di ricordo e memoria. Solo in questo , nel proporre e presentare le proprie azioni ed idee come degne di ricordo, l’uomo compie azioni veramente politiche, altrimenti retrocede a livello della specie. La vita diventa sacra e degna di essere vissuta solo attraverso la continua capacità di produrre idee e azioni. La politica è lo spazio pubblico, un grande palcoscenico, in cui tutti gli uomini possono entrare ed uscire a propria volontà e libertà, cercando di starci anche in modo non permanente,stabile, solido ma….provvisorio.
mauro orlando

domenica 24 luglio 2011

Elisir d'amore per ......." i piccoli paesi ma.....dalla grande vita"

.........Verifichiamo quotidianamente limiti e difficoltà operative pensare e promuovere una comunità vivibile tra gli uomini che non sia solo una richiesta ma un'esigenza e un bisogno fondamentali. Non ci basta più una corretta analisi sulla avvenuta dissoluzione delle "vere" comunità (contadine, artigianali, di commercianti, ecc.) e il tormento e supplizio (alla maniera di Tantalo) di dover vivere attanagliati dall'insicurezza, anelando però sempre, come i discendenti di Adamo ed Eva, alla comunità ideale, sognata. Sul campo scopriamo che non ci basta creare dei surrogati della comunità. Le comunità non sono più naturali nel momento, cioè, in cui delle comunità "se ne parla", esse rischiano di diventare artificiali. La categoria della identità legato alla lingua,al territorio o all'etnos rischia di diventare un surrogato della comunità, in quanto divide e separa. L'individualismo moderno ci rende sempre più insicuri, proprio perché offre (e non a tutti) libertà in cambio di sicurezza. E la stessa insicurezza di cui soffre l'individuo nell'era della globalizzazione genera assenza di comunità. Il problema potrebbe essere affrontato ripensando sociologicamente o antropologicamente agli "sradicamenti" degli individui dalle comunità naturali e dei "reimpiantamenti" in comunità fittizie (non luoghi) all'insegna del disimpegno, della flessibilità

di mauro orlando





La paesologia è una scienza mattutina. Al massimo pomeridiana. Di sicuro non è una scienza notturna. La sera tardi non ci sono vecchi in giro. È chiuso il Comune, è chiuso il cimitero, sono chiuse le salumerie. E sono chiuse anche le poche case aperte la mattina.
Il paese che sto visitando in notturna è Monteverde. In giro ho visto due stranieri. Nella sede del Pd incontro l’ex sindaco Pizza. Esordisce ricordandomi che non gli sono piaciute le righe dedicate a lui in un mio reportage di qualche anno fa. Dice che ne usciva un’immagine di una persona sconfortata. Ma questa sera Pizza fa di tutto per confermare quell’immagine. Sono appena passate le nuove elezioni. Mi racconta che a un certo punto sembrava che il risultato fosse incerto. Poi è stato nettamente favorevole all’altra lista. Pizza si lamenta anche dei giovani del paese che in gran parte hanno votato l’amministrazione uscente e delle persone per cui si è speso tanto in passato e che adesso gli hanno voltato le spalle. Dopo le lamentazioni mi porta nel suo garage e mi fa vedere i presepi a cui si dedica nel tempo libero. Nel garage c’è anche un piccolo spazio per la musica, batteria e microfono, altro hobby a cui si dedica.
Mi metto in cerca delle persone con cui sono venuto a Monteverde. Hanno un incontro con i ragazzi del forum giovanile. Li trovo in un bar che ha uno spazio all’aperto. I miei compagni di viaggio invitano i ragazzi a partecipare a un seminario a Bisaccia il giorno dopo. Lo fanno in maniera accorata, con gentilezza, con premura, ma nella sostanza non arrivano risposte. Un ragazzo di nome Antonio che fa di tutto per apparire il leader del gruppo e per smontare i ragionamenti dei miei amici. Io ho la sensazione che se in un paese c’è un ragazzo veramente in gamba forse non partecipa al forum giovanile. Forse in queste associazioni alla fine prevalgono i più verbosi. I ragazzi di Monteverde sembrano interessati alle tradizioni locali, la maggior parte andranno via, chi resterà magari sceglierà la strada della paesanologia. È come se in questi paesi dopo aver creduto alla modernizzazione e aver constatato il suo fallimento, si desse credito all’antichizzazione. Come se guardare indietro fosse più rassicurante che guardare avanti.
Adesso incontro il sindaco appena rieletto e uno della grande famiglia Continiello che qui restaura e costruisce organi. Parliamo un poco, ma senza quel filo di commozione che sento quando parlo coi vecchi la mattina. L’esperimento della paesologia notturna è fallito. Non posso neppure fare le riprese e le fotografie: il castello non è illuminato e neppure i due bellissimi campanili. E il giorno dopo ti senti come mi sento io adesso, uno straccio, un limone spremuto, un topo finito sulla colla della cantina.
Mi sono svegliato pensando all’articolo pubblicato ieri su un giornale locale in cui mi pareva di aver fatto un bel lavoro e di aver inchiodato alcuni personaggi alle loro colpe, ma sembra tutto inutile. Ieri avevo anche scritto in rete una letterina in versi ai ragazzi di facebook. Il risultato è l’umore di stamattina, la sensazione di avere una voce debole e cupa. Forse oggi la vita la sentono ancora solo quelli che stanno in agonia, forse solo le grandi malattie danno ancora un brivido, un sentimento, un desiderio di verità. La maggior parte delle nostre relazioni sociali è un puro intrattenimento con persone che non ci vedono e non ci sentono, con persone che non vediamo e non sentiamo. Adesso funziona così, ma forse mi sbaglio. Un mio amico su facebook mi ha scritto questo: pantofole & carica batteria”: ecco, c’è già il titolo del tuo prossimo libro. Quello che racconta la svolta prossima della tua vita. Forza Franco!
Io per ora ho scritto questi versi: La punta del cuore/ è arrivata sotto l’orecchio. Nella testa i neuroni e il pietrisco/ dei miei giorni. Più sotto/ tra lo stomaco e la gola/ la luce/ della stanchezza. Alle due del pomeriggio/ mi suicido. Li ho messi su Facebook con il titolo “chi ha scritto questa poesia”? Io per ora non posso che confidare nel pranzo di mezzogiorno, a volte dopo mangiato mi sento meglio. Adesso è come se fossi stato travolto da una slavina. Fuori non c’è nemmeno il sole. Nel pomeriggio potrei andare a fare un giro in un altro paese. Non so dove, un giro da ripetente. Per trovarne uno dove non sono mai stato devo fare molti chilometri. Ormai anche i dintorni cominciano a farmi l’effetto che mi fa il mio paese. E intanto continuo a non credere nei grandi viaggi, proprio non riesco a provare ad allungare il passo e andarmene in Australia. Voglio che la vita accada qui, dove è impossibile che accada.

franco arminio

venerdì 22 luglio 2011

Elisir d'amore per ......la "paesologia".....

...quando le parole osano ancora farsi sangue,terra, carne......anima e cuore e ricacciare sotto il tappeto o in soffitta le parole pensate e ripensate,affinate ,sottili, ciniche,sarcastiche fino all' inesistenza o la perdita di senso....schiacciate dalle esigenze della sfumatura per essere accettate senza essere amate, inespressive a forza di esprimere tutto, spaventosamente e ferradamente precise, colme di stanchezza,di pudore e di reticenza, discrete fine alla volgarità e alla piaggieria come un resoconto di un incubo......labirintico in una sintassi di rigore e di dignità cadaverica nella superficialità del senso comune e del fare senza......anima




di franco arminio
Non ho mai veramente messo piede in questo paese, non ci sono mai stato. Sono rimasto sui fili dei nervi ad osservare le grandi nuvole che arrivano da oriente. Paese a bocca aperta contro il vento, con il cuore pieno di neve. La stessa nuvola che dimora qui di pomeriggio nel mattino era a Sarajevo. Terra senza alberi, terra di grano che cresce sulle frane, terra di accidia che alligna nelle piazze: mezze anime contorte e verbose rigano le sere coi loro graffi di saliva. Qui di giorno e di notte mi luccicava dentro la paura della morte, con lei mi sono arrampicato a vedere i vermi che hanno bucato l’anima delle cose. Adesso è tutto come sfiatato, perfino l’inclemenza dura poco. Tra me e il mio paese è finita per sempre. Non abbiamo più niente da dirci. Pavese diceva che un paese ci vuole, ma io questo paese non l’ho mai avuto, non mi ha mai tenuto tra le sue braccia. La poesia è nata da qui, da questi alberi storti, da questa torre disertata ormai pure dai corvi, da questa piazza che è l’epilogo e l’ossario delle forme. Ormai esco poco, nego alla discordia il mio tributo. Esco quando c’è una bella luce, ma proprio allora sento il buco, sento che non c’è modo di raccogliere questi cani con le vene piene di ortiche. Vado per la mia strada, per la mia strada senza uscita. Ho dato fondo a ogni amarezza, ma non mi basta, non mi basta ancora. Voglio consumare l’intero universo, bucarlo in questo punto, nel punto suo più duro. Lo so, sotto non c’è niente, né dio e neppure i morti, non c’é neppure il niente a cui sembriamo appesi, ma io insisto, deve esserci da qualche parte il modo di parlare alle cose, di entrarci dentro e di farle entrare dentro di noi.
Fare le condoglianze è uno dei pochi motivi per uscire. Stringere la mano agli addolorati, ma senza perdere troppo tempo. Si spinge ai funerali come se si dovesse entrare allo stadio. Si ha fretta di sfilare davanti ai parenti dell’estinto e di tornarsene sollevati ad accudire la propria estinzione.
È quasi mezzanotte al mio paese, i ragazzi sono nelle pizzerie, davanti al bar Millennium o alla sala giochi, qualche marito ha già esaurito la sua foga, molti televisori sono spenti, nelle case di chi non è tornato, domani i ragni festeggeranno Pasqua da soli, i morti non sapranno e non vedranno nulla, come sempre. Noi siamo qui, noi chi?
L’altro ieri l’edicolante del mio paese mi raccontava della scena a cui aveva assistito il giorno dopo la lettura di Saviano di un mio testo in un programma televisivo di enorme ascolto. Lui si aspettava che qualcuno tirasse fuori l’argomento. Invece niente. A un certo punto avrebbe voluto parlarne lui, ma ha resistito ed è rimasto in silenzio per vedere se un qualche riferimento sarebbe prima o poi venuto fuori. Ma i clienti dell’edicola, sempre animosi e ciarlieri, quel giorno non solo non parlavano di Saviano, non parlavano di niente, erano muti, come se temessero che aprendo la bocca poi si poteva in qualche modo arrivare a parlare di Arminio.

C’è un altro sud che sta nascendo, ma è piccolo, bambino. Il sud che resiste è quello decrepitamente democristiano, allungato verso le solite mete: la casa e il denaro. É un sud allegro con i suoi compari e se vuoi ti accoglie nella sua disonestà senza destino. Se ti opponi veramente alla lobby dei vermi diventa cupo, feroce, ti brucia la casa ti fa emigrare.
Una ragazza mi ha scritto: Bisaccia è nera e silenziosa ma piena di energia. Lo so, vivo in un paese sotto sforzo, che cerca di tenersi per non franare a valle. È un paese in cui restano vivi in pochi, molti finiscono inghiottiti nelle faglie. Ce n’è una molto grande proprio in piazza, al centro, e gli ignari passeggiatori ci finiscono dentro.
Io dico che il sindaco non serve a niente, il vicesindaco pure e tutti gli assessori e tutti i consiglieri dell’opposizione, e gli impiegati della posta e i maestri della scuola, e i bidelli e i contadini, non serve a niente chi si ubriaca nei bar e chi vede la televisione, e chi passeggia in piazza e chi compra il giornale, adesso gli unici che servono a qualcosa sono quelli che sono partiti, quelli che sanno sparire, quelli che sanno liberarsi e andare via, via dai paesi e dalle città, via dai partiti e dalle chiese, dalle mogli e dai mariti, via dagli amici, via da ogni cosa vecchia e via da ogni cosa nuova, semplicemente via, via dalla banalità e anche dalla poesia.
Sono un viaggiatore ipocondriaco. Sinceramente io non guardo il mondo ma il mio corpo che vaga per il mondo, spinto e trattenuto dalla morte, instancabile viaggiatrice sempre in gita nel mio corpo.
Voglio la neve, l’inverno più feroce e non questo sole scialbo, questi giorni appesi al niente e questo niente che si è fatto paese e che seguiamo ogni giorno sparsi e senza voce fino all’imbuto della sera, paesani senza sguardo, camerieri dell’orrore, incapaci di aprirci al vento, alle cose vere. Oggi l’unica felicità possibile nei paesi è farsi straziare, non conservare nulla, essere semplici come una mela, non badare a ciò che accade, pensare al nostro io come una mosca morta nella ragnatela.
Il sud ha bisogno di osservazioni più che di teorie. Una realtà che vuole essere guardata e riguardata più che analizzata. L’eminenza da riconoscere è una sola: l’eminenza della percezione.
Il mondo è in decomposizione e gli uomini al potere sono gli enzimi che lavorano alla putrefazione dello spirito, putrefazione sulla quale pone il suo edificio necrofilo la dittatura imperante. Tutti abbiamo lo stesso problema di scegliere ogni giorno se essere radicali e impervi oppure pieghevoli e disponibili al compromesso. Spesso si decide proprio per la via di mezzo: un po’ siamo radicali e un po’ pieghevoli. Accade in famiglia, a scuola, nei partiti, con gli amici, la partita tra libertà e dittatura si svolge ovunque e noi spesso decidiamo di perderla volutamente, per pigrizia, per mancanza di coraggio. Ma il motivo più grande è che abbiamo scelto di sopravvivere più che di vivere, abbiamo deciso di decomporci prima di morire.
Esisteva l’inizio e la fine del giorno, l’alba e il tramonto, Dio e le tenebre. Il mondo non era ancora diventato così piccolo da sembrare il ventre di una zanzara. Siamo tutti lì dentro e tutti insieme produciamo un ronzio penoso.
Al sud molta gente si ammala per colpa dei medici che fanno politica.
Per qualche minuto il mondo mi pare sopportabile, poi sono di nuovo inchiodato a un’impazienza insopportabile. Un paesologo è tale proprio perché la corrente che lo lega al mondo non è mai salda, è una cosa che va e viene, una luce che si accende a intermittenza, la luce dell’impazienza più che la pubblica illuminazione.
A me pare che ogni vita alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella, oppure una mela che appassisce quietamente.
Mi sveglio col peso che mi ha lasciato il giorno precedente. Avanziamo negli anni sempre più carichi, bestie da soma che vagano per il mondo per lasciare un peso e passare al successivo. Possiamo essere frenetici o apatici, possiamo essere furbi o ingenui, il nostro giorno è sempre lo stesso, è il giorno dell’asino.
Ma come sono gli altri? Cosa pensano veramente i disertori che si sono fatti la villa in campagna, quelli che passeggiano a passi brevi alle sette di sera? Non lo so, forse non lo sa nessuno. Ogni tanto provo a capirlo, getto uno sguardo alla piazza, mi ritiro: gli altri siamo noi, non sono quelli che vediamo in giro.
Siamo rimasti qui, ma è come se ognuno a tutti gli altri avesse detto addio e da questa infima distanza ci scambiamo un po’ di smorfie. Così passa il giorno del paese, aspettando inutilmente un abbraccio che sia vero. È già tardi, la cena è apparecchiata intorno a un buco nero.
Di una cosa sono sicuro: qualcosa è svanito, qualcosa che era nel mondo se n’è andato. In fondo io vado in giro per registrare questa perdita. L’altra mattina svegliandomi nel centro storico di Cosenza per un attimo ho sentito un’energia che veniva dal luogo, ma è stato solo un attimo, mi sono messo in macchina per andare a vedere i paesi e già ero nella solita trafila, il minuto prima cancellato dal minuto successivo, un albero, una curva, una pompa di benzina, tutto inutile, tutta una matassa di coriandoli per avvolgere una coppia che non c’è più, la coppia che era costituita da ognuno di noi e dal mondo. Noi non siamo morti e neppure il mondo è morto, ad essere morta è la nostra congiunzione. Forse quello che è accaduto non è un incidente imprevisto, è accaduto proprio quello che volevamo, volevamo rompere questo incanto di stare al mondo, volevamo che diventasse una semplice incombenza da gestire a piacimento e questo è accaduto.
Se esce un po’ di sole prendo il paese sottobraccio come un vecchio zio un poco scemo e me lo porto a spasso.
Quello che conta per chi scrive è solo la furia, la commozione lo smarrimento, la vita è vera quando è spezzata, quando la testa brucia. Dio non c’è quando siamo gentili, quando siamo pazienti, quando ogni parola è puro sfogo, labile isteria. Dio crede in noi quando siamo in croce, quando buttiamo fuori l’inferno che abbiamo dentro, quando non misuriamo niente, ma vaghiamo fuori dai nostri nidi. La vita è fuori, è sgomento e avventura, non è appendere i coglioni alle grate della nostra clausura.
Prima di dormire ho letto qualche pagina di “ecce homo”, poi sono entrato lentamente in un sonno di carta velina. A un certo punto mio padre mi ha telefonato per dirmi che mia madre era morta, saranno state le quattro. Adesso sono le sei del mattino, ho già aperto la posta, l’alba mediatica è senza luce e fuori c’è la stessa nebbia di ieri sera. Sarà un giorno di marzo, i miei giorni difficili di marzo, il mese in cui è morto mio padre e la nonna che mi somigliava, il mese in cui l’inverno finisce e ricomincia molte volte, perché marzo prosegue anche ad aprile. Ieri sera ho chiesto aiuto, adesso non mi sento di chiedere niente. Se è vero quel che penso, se penso veramente che siamo all’autismo di massa, dovrei solo calmarmi, riprendere a leggere “ecce homo” o andare in qualche paese, camminare in silenzio dentro il suo silenzio.
Ai tempi di Socrate non esisteva la questione meridionale.
Siamo illuminati quando ci accade qualcosa di brutto, siamo in piedi quando tremiamo, altrimenti ci accatastiamo come vermi in un letamaio depressivo in cui ognuno compiange la scomparsa di qualcosa, la mancanza, la non coincidenza. Siamo gli eroi di un tempo aggrovigliato e non poteva essere altrimenti visto che siamo ormai molti miliardi e stiamo tutti su un balconcino, protesi a vedere o a farci vedere.
Ci sono tre sud, almeno. Il primo è col muso per terra, pronto a raschiare ogni briciola, un sud accattone, reso ancora più volgare dall’abito piccolo-borghese. Il secondo è un sud verboso che combatte infinite guerre senza mai morire: il segreto è che la lotta non è vera. Il terzo è un sud affranto e silenzioso seduto sulle sedie vicino alla porta a prendere il sole, un sud con le ossa rotte dall’artrosi, un sud solitario e appartato. È il sud che cerco nei miei giri, facce che sembrano sospiri.
C’è un’ora del giorno, tra le quattro e le sei del pomeriggio, in cui il paese diventa un sasso in mezzo alla giornata. È una vecchia pena, non puoi aggirarlo, devi salire fino in cima a mani nude e poi cadere verso il buio e la cena.
Il sud me lo ha già detto troppe volte che non mi vuole e io sono rimasto qui a rifargli le suole per calpestarmi meglio.
Qui ho vissuto senza vivere, qui mi sono attorcigliato a me stesso, mi sono avvinto, mi sono sedotto, mi sono sparecchiato e rotto, adesso vago ogni giorno tra le mie parole, ho fatto tutto un paesaggio con le mie parole, boschi, laghi e fiumi, strade e montagne. Non manca niente, manca solamente il sole.
Quando vado nei paesi, a volte dopo aver mangiato il mio panino, dopo aver guardato i manifesti e le panchine, mi vengono i miei pensieri più veri, quelli che non puoi dire dentro un bar o dentro una sezione di partito. Allora chiudo gli occhi e mi chiedo quanto spazio ci sarà da fare dall’ultimo respiro al non respirare.
A me pare che ogni vita alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella, oppure una mela che appassisce quietamente.
Viviamo in un mondo di individui sciancati, siamo l’osso e la carne di noi stessi e c’è solo una cartilagine sottilissima che ci lega agli altri. Spesso sentiamo questi legami proprio quando si squarciano, quando la cartilagine non tiene. A vent’anni non pensavo di arrivare a cinquanta. Mi sentivo in una combustione che mi avrebbe bruciato prima. E invece sono ancora qui. Non ero malato, ma sentivo il cuore battere troppo in fretta e alla cieca. Usavo il mio cuore per scriverci sopra, lo battevo come si batte un tappeto. Non scrivevo col cuore, scrivevo sul cuore.
Non ho mai giocato a carte, ho usato il paese solo per scrivere. Ogni tanto ho cercato di infiammarmi assieme agli altri, ma il sud non resiste, quando si sporge troppo si ritira. Io ho sempre sognato un cuore comune, una corda che si tende senza paura di spezzarsi. Ho sempre sognato che accadesse fuori quello che accadeva a casa mia. Molte volte ho scritto in ginocchio l’ultimo rigo, l’ultimo castigo.