mercoledì 28 dicembre 2011

Elisir d'amore per.......la fragilità e il dono





Fragilità, indifferenza e provvisorietà comune.

Nella nostra esperienza comunitaria ho messo in gioco , istruendo un processo d’amore (philìa), la stessa filosofia rea di pensare solo per conoscere invece di ricercare un modo e un senso del vivere per essere belli,buoni,giusti e felici. Una prassi quotidiana ed esistenziale non un lavoro di cervello. Partendo dalla categoria della fragilità più che della forza…della incompiutezza che della pienezza,della molteplicità più che dell’unità. Nella pratica,insomma, della felicità non cercata nelle teorie astratte ed eteronome ,logiche,etiche,metafisiche o religiose ma nelle autonome vie ,discipline,stili di vita che consentono di uscire indenni ed attivi dalle trappole e tagliole intriganti dell’esistenza. Ma una felicità che non è le tavole della legge mosaica o la legge morale kantiana dentro di noi ma….è “eudaimonia”…cura di sé come .ordine ed equilibrio dei vari demoni della nostra anima individuale e equilibri e giustizia della nostra vita in comune. Per cercare in sé stessi e nelle nostre piccole e grandi comunità un equilibirio ed una armonia capaci di difenderci e ricattarci dalla fragilità della paura ,del dolore e degli squilibri delle diversità e pluralità.La “paesologia” non come una sorta di nuova o vecchia pedagogia del senso,dell’intelletto e della ragione ma una sorta di “esercizio spirituale” attraverso cui ognuno di noi trovava la sua identità (equilibrio) personale e la sua (koinonìa) comunanza sociale con gli altri.Camminare, leggere, meditare, armonizzare la giungla dei propri sentimenti e passioni,ascoltare, fare silenzio, coltivare amicizie,dialogare nella vita concreta di tutti i giorni e nella realtà effettuale .”Scolpire la propria statua” come scriveva Plotino, non per ergerla su un nuovo e d originale piedistallo di potere ma per fare e praticare , come prescriveva la scultura greca e umanistica, opera di sottrazione,di alleggerimenti di scorie per successivi svelamenti.Scappellando dal nostro marmo grezzo ed informe tutto ciò che è falso,superficiale ed inutile che ci si è attacato col tempo culturale al nostro corpo e anima e liberare l’essenziale armonico di quel che noi veramente e autenticamente siamo. Recuperare con questa esperienza anche il senso vero della filosofia non come attività puramente teorica e speculativa ma di recupero-svelamento (alethèia) dell’idea aurorale di filosofia come conversione umanistica,guarigione ,prassi di sanità-armonia mentale. ”Fare il proprio volo ogni giorno” senza abbandonare la nostra specificità di esseri umani terrestri,”..Almeno in momento che può essere breve, purchè sia inteso.Ogni giorno una esperienza umana e territoriale come un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimente migliorare.Uscire dalla durata. Sfozarsi di spogliarsi della proprie passioni,delle vanità, ,del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza.Deporre la pietà el’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta” (Pierre Hadot) .Le idee e i concetti di questo studioso del mondo greco mi hanno fatto pensare al senso che noi vogliamo dare alla parola “rivoluzione” nella nostra esperienza comunitaria e provvisoria: “ rendercene degni” oltre che “immergerci interamente nella politica militante,nella preparazione della rivoluzione sociale”.Fragilità e provvisorietà ci aiutano non solo a resistere ma soprattutto ad essere modernamente consapevoli ed attivi. E’ l’indifferenza il peggiore dei sentimenti freddi che ci costringe in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, creatrice che riscopre la semplicità ela bellezza, ama il silenzio non come rinuncia ma come ricchezza e non ci costringe all’isolamento..Nella indifferenza si inaridisce e si esaurisce una qualsiasi comunità provvisoria interpersonale o di destino che riuscirebbe per incanto anche a rendere vivibile e degno di pensiero…. una vita vissuta anche nella dolore, al margine, nella provvisorietà ,nell’angoscia ,nella sofferenza o nella disperazione per contrastare un nihilismo disperato verso un confortevole passato o un inquietante futuro.Una vita degna di essere vissuta per la sua naturale vitalità e che vede anche solo nel dono gratuito della amicizia (philìa) un possibile superamento dei labirinti consapevoli e inconsapevoli del nostro ego che ci possa far vivere anche il dolore e la sofforenza ,la fragilità, il morire e il nascere nostro ed altrui come qualcosa che ci interessa molto da vicino come un destino comune anche in cui siamo coinvolti anche noi.Una comunità del cuore che va oltre la comunità di cura o di lotta in cui siamo capaci di capire e convivere come nostra anche la fragilità, la difficoltà, la sofferenza degli altri. Un destino comune come esperienza complessa,difficile, affascinante ma anche inquietante. In questo senso mi inquietano e mi affascinano le parole profonde e sofferte della Elda e nel mio caso mi incitano a continuare con testardaggine e ripetitività a vederle necessariamente inserite nel percorso della nostra esperienza comunitaria in Irpinia anche a costo di testate di incomprensioni , dolorose e insopportabili. Per non cadere in un solipsismo nobile e degno che non ci costringe ad inventare,sognare e cercare vie di uscite dignitose in un mondo culturale e politico che ha perso il bandolo umanistico della suo essere vivibile.Ed ho pensato ad un riferimento umano e storico che mi confortasse non solo con bellissime e profonde parole ma con azioni e fatti storici che veramente hanno determinato situazioni e cambiamenti “rivoluzionari” interiori ed esteriori…..
mauro orlando

lunedì 26 dicembre 2011

Elisir d'amore per .......chi non ama il cinismo


Uscendo dal bar ho sbagliato strada. Il vento era fortissimo e nevicava. Il cuore si è gelato sotto il cappotto......f. arminio








CINISMO: (LETTERA AI VIVI)

Scriveva la Rochefoucauld “chi vive senza follie, non è così savio quanto crede”. Sacrosanta verità per demarcare un confine tra vita normale subita e vita impegnata per scelta a saper affrontare “venti fortissimi e nevicate”.
Un lento e inconsapevole morire per un “un cuore gelato sotto il cappotto” parla di noi quando accettiamo supinamente di smarrire il gusto e il senso di una esperienza comunitaria rassegnati alla insensibilità del senso comune, alla rassegnazione del “così va il mondo”, alla connivenza con l’insensatezza della banalità, alla ingenua o consapevole disponibilità a farsi complice di qualunque cosa a qualunque prezzo.
Uno spettro inquietante si aggira come un “venticello” per le nostre terre sopraffacendo la nobilitata e propulsiva “ipocondria” arminiana: il cinismo.
Il cinico contemporaneo non ha come punto di arrivo la classica botte di Diogene ma una ordinata e riconosciuta carriera spesso segnata da frustrazione, rassegnazione e avvilimento morale. Il ‘cinicus’ antico era una forma estrema di affermazione della dignità, una riproposizione coerente di distanza dalle pochezze umane e dai pressappochismi e interessi pratici, della cura di una estrema padronanza e sovranità su se stesso e i propri difetti pubblici e attivazione del governo dei propri demoni interiori negativi come la “razionale auriga” platonica.
Il neocinico cura e ostenta una “falsa coscienza illuminata” con un discreto vocabolario polimorfo e una forma malcelata di “disincanto” che li rende molto efficienti e accettati sul piano pratico.

Qualcuno autorevolmente in modo cattivo ha scritto che il neocinico è “ un caso limite di melanconico che riesce a controllare i suoi sintomi depressivi conservando una certa capacità di lavorare” che mal sopporta “avvisi ai naviganti” disinteressati o venati di ironia e peggio di benevole commiserazione perché “intellettuali e …quindi inutili”.
Bisognerebbe imparare dal “cinismo classico “ dei morti di Franco Arminio ("Cartoline dai Morti" Ed. Nottetempo) che ci regalano una morale fatta di libertà ed autonomia e non “coperte di linus” come alibi pseudopsicologici ma soprattutto con il compito “etico” di riscaldare quotidianamente, profondamente e continuamente il nostro “cuore” infreddolito e debole.
Nella “pòlis” greca il primo atto cinico contro la costruzione di “una comunità” libera e consapevole, avvenne con un atto violento formalmente e simbolicamente reale e tragico.
La restaurata democrazia ateniese aveva bisogno della condanna a morte di Socrate nel 399 a.c. e la promozione sul campo degli “Antistene, Diogene di Sinope, Cratete e Ipparchia” come fatto consequenziale, illuminante e normalizzante.

Con quell’atto si condannava la ragione, il sogno, il sentimento, la fantasia, la democrazia che presume farsi “comunità” di un sapere non commerciale e commerciabile che ha solo il compito di difendersi per smascherare, responsabilità, inadempienze , ostilità, rancori latenti e combattere quelle palesi e praticate. Le ragioni del cuore non possono mai entrare in un orizzonte limitato che gli è estraneo per statuto.
Non vive di pensieri corti, di i rapporti di forza, della pratica o l’ aspirazione dei poteri a tutti i livelli.
Ritornando in metafora : “sbagliare strada” affrontare un ”vento fortissimo e una nevicata” è ancora parte possibile e integrante del vivere umano. Ma evitare sempre e comunque “Il cuore gelato sotto il cappotto” che è il vero e tragico morire sia personale che comunitario anche della limitata vita umana troppo umana …..e per questo…….
“Merita il nome di sapere soltanto ciò che conferisce il giusto ordine all’anima”.

di Mauro Orlando

giovedì 22 dicembre 2011

Elisir d'amore per ......l'Irpinia dei "piccoli paesi"

Un nuovo inizio dall’Irpinia delle colline
Per quanto avverto , come irpino delle diaspore, costretto o capitato a vivere sulle sponde di un lago, il richiamo del sole e del mare Mediterraneo sulle cui rive amo trascorrere gli inverni, mi sono abituato da terra a capire la sfida del mare aperto e compreso il ruolo dell’Oceano come una possibile o necessaria “grande crisi “ epocale o secolare. Sono un uomo dell’appennino abituato agli orizzonti corti verso l’alto o in orizzontale sul lago. Noi irpini non possiamo essere “santi, eroi” ma neppure “navigatori, al massimo “banditi” , piccoli agricoltori,pastori o cacciatori di frodo. I nostri modelli mistici sono umani troppo umani. I nostri viaggi erano legati al nomadismo conoscitivo ,introverso e fantastico della transumanza…. E i nostri tratturi mentali ci portano per il mondo con la promessa a noi stessi di ritornare. Siamo “pastori erranti” dei “piccoli territori o paesi”…dal “vagar breve”. E n inseguiamo “il corso immortale “ della luna non oltre le Colonne d’Ercole o di Thule, se non nei sogni del dovuto riposo come viatico al massimo a fantasticare …..Forse s'avess'io l'ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei”…….Ma al risveglio con sogni burrascosi di avventure , belli o brutti , riprendiamo comunque il viaggio che è anche lavoro. Pur amando i filosofi del tempo presente e dell’avvenire non avvertiamo più neppure la cogenza del Termine imposto al nostro viaggio. Da molto tempo per noi sono ormai abbattute nel loro valore simbolico le Colonne d’Ercole, guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. Sulle nostre terre o sulle nostre coste si sono sentite le parole dei poeti,dei sapienti o dei filosofia «Via sulle navi, filosofi!, era alle soglie della modernità il perentorio invito a prendere il largo lanciato ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire», sollecitandoli a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori», assumendo sguardo vigile pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che accade. Uomini appunto oceanici, atlantici, questi nuovi eroi della conoscenza sono quegli «aerei naviganti dello spirito» che dalla Vecchia Europa sciamavano con la loro fantasia e i loro desideri come uccelli migratori, spiccando il volo alla volta di nuovi più ospitali lidi, pur sapendo che nessun terreno potrà essere da ora in poi sicura dimora, ma soltanto provvisorio punto d’appoggio, base per volare ancora più lontano. Nella Gaia scienza, col titolo Nell’orizzonte dell’infinito Nietzsche scrive :«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!».Siamo agli antipodi del ‘nóstos’ mediterraneo; il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero ‘éxodos’, un salpare senza ritorno nel cuore della crisi di tutto l’occidente europeo e freddo. D’altra parte, parliamo del filosofo che aveva dedicato una poesia a Cristoforo Colombo. Non più ‘póntos’, questo mare spinge piuttosto a tagliare tutti i ponti, a dimenticare perfino la terra ormai definitivamente alle spalle. La sua esperienza terminale a Napoli e sulle nostre spiagge doveva diventare fatale alla sua “eccitata e affaticata ragione”. Ora la nave diviene unica e precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua. Ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che batte rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimite e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli. Un horror vacui, uno sgomento di fronte al Niente potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di ‘nómos’. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, la nostalgia struggente per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con le sue leggi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Questa è la crisi epocale economica,finanziaria ,storica e culturale in cui siamo bandalzosamente imbarcati sospinti dai demoni del capitalismo dopo aver distrutto in noi stessi i demoni della utopia e nella storia gli orrori del totalitarismo egualitario e elitario. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una “dislocazione”, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica? Anche il nostro viaggio immaginario,onirico e reale a Cairano, a Nusco, a Bisaccia, a L’Aquilonia, a Rocca corrispondeva e corrisponde al nostro “costume” irpino di “ umanità precaria delle montagne” provvisoria e terrestre anche quando sogna.. Niente “Colonne d’ercole” , paradisi ed utopie ma un inizio di viaggio periferico, quotidiano,fragile e provvisorio alla ricerca non dei paradisi perduti profani o del Santo Graal divino ma “la grande vita nascosta nei piccoli paesi” delle nostre belle colline che muta di senso,di colori, di misteri, di storie e di espressione ogni giorno sempre ….nella forza della fragilità e nella sicurezza della provvisorietà. Il paese è il luogo del suo farsi male e più prova a scappare più lo agguanta. Qui la sua vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta”.F.Arminio, Circo dell’ipocondria.

Mauro Orlando



mercoledì 14 dicembre 2011

“L’essere consapevoli che la fragilità come esperienza necessaria, significa accogliere e rispettare la fragilità degli altri; senza disconoscerla e senza ferirla”

E. Borgna.



di mauro orlando

Nella nostra esperienza comunitaria ho messo in gioco , istruendo un processo d’amore (philìa), la stessa filosofia rea di pensare solo per conoscere invece di ricercare un modo e un senso del vivere per essere belli,buoni,giusti e felici. Una prassi quotidiana ed esistenziale non un lavoro di cervello. Partendo dalla categoria della fragilità più che della forza…della incompiutezza che della pienezza,della molteplicità più che dell’unità. Nella pratica,insomma, della felicità non cercata nelle teorie astratte ed eteronome ,logiche,etiche,metafisiche o religiose ma nelle autonome vie ,discipline,stili di vita che consentono di uscire indenni ed attivi dalle trappole e tagliole intriganti dell’esistenza. Ma una felicità che non è le tavole della legge mosaica o la legge morale kantiana dentro di noi ma….è “eudaimonia”…cura di sé come .ordine ed equilibrio dei vari demoni della nostra anima individuale e equilibri e giustizia della nostra vita in comune. Per cercare in sé stessi e nelle nostre piccole e grandi comunità un equilibirio ed una armonia capaci di difenderci e ricattarci dalla fragilità della paura ,del dolore e degli squilibri delle diversità e pluralità.La “paesologia” non come una sorta di nuova o vecchia pedagogia del senso,dell’intelletto e della ragione ma una sorta di “esercizio spirituale” attraverso cui ognuno di noi trovava la sua identità (equilibrio) personale e la sua (koinonìa) comunanza sociale con gli altri.Camminare, leggere, meditare, armonizzare la giungla dei propri sentimenti e passioni,ascoltare, fare silenzio, coltivare amicizie,dialogare nella vita concreta di tutti i giorni e nella realtà effettuale .”Scolpire la propria statua” come scriveva Plotino, non per ergerla su un nuovo e d originale piedistallo di potere ma per fare e praticare , come prescriveva la scultura greca e umanistica, opera di sottrazione,di alleggerimenti di scorie per successivi svelamenti.
Scappellando dal nostro marmo grezzo ed informe tutto ciò che è falso,superficiale ed inutile che ci si è attacato col tempo culturale al nostro corpo e anima e liberare l’essenziale armonico di quel che noi veramente e autenticamente siamo. Recuperare con questa esperienza anche il senso vero della filosofia non come attività puramente teorica e speculativa ma di recupero-svelamento (alethèia) dell’idea aurorale di filosofia come conversione umanistica,guarigione ,prassi di sanità-armonia mentale. ”Fare il proprio volo ogni giorno” senza abbandonare la nostra specificità di esseri umani terrestri,”..Almeno in momento che può essere breve, purchè sia inteso.Ogni giorno una esperienza umana e territoriale come un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimente migliorare.Uscire dalla durata. Sfozarsi di spogliarsi della proprie passioni,delle vanità, ,del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza.Deporre la pietà el’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta” (Pierre Hadot) .Le idee e i concetti di questo studioso del mondo greco mi hanno fatto pensare al senso che noi vogliamo dare alla parola “rivoluzione” nella nostra esperienza comunitaria e provvisoria: “ rendercene degni” oltre che “immergerci interamente nella politica militante,nella preparazione della rivoluzione sociale”.Fragilità e provvisorietà ci aiutano non solo a resistere ma soprattutto ad essere modernamente consapevoli ed attivi. E’ l’indifferenza il peggiore dei sentimenti freddi che ci costringe in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, creatrice che riscopre la semplicità ela bellezza, ama il silenzio non come rinuncia ma come ricchezza e non ci costringe all’isolamento..Nella indifferenza si inaridisce e si esaurisce una qualsiasi comunità provvisoria interpersonale o di destino che riuscirebbe per incanto anche a rendere vivibile e degno di pensiero…. una vita vissuta anche nella dolore, al margine, nella provvisorietà ,nell’angoscia ,nella sofferenza o nella disperazione per contrastare un nihilismo disperato verso un confortevole passato o un inquietante futuro.Una vita degna di essere vissuta per la sua naturale vitalità e che vede anche solo nel dono gratuito della amicizia (philìa) un possibile superamento dei labirinti consapevoli e inconsapevoli del nostro ego che ci possa far vivere anche il dolore e la sofforenza ,la fragilità, il morire e il nascere nostro ed altrui come qualcosa che ci interessa molto da vicino come un destino comune anche in cui siamo coinvolti anche noi.Una comunità del cuore che va oltre la comunità di cura o di lotta in cui siamo capaci di capire e convivere come nostra anche la fragilità, la difficoltà, la sofferenza degli altri. Un destino comune come esperienza complessa,difficile, affascinante ma anche inquietante. In questo senso mi inquietano e mi affascinano le parole profonde e sofferte della Elda e nel mio caso mi incitano a continuare con testardaggine e ripetitività a vederle necessariamente inserite nel percorso della nostra esperienza comunitaria in Irpinia anche a costo di testate di incomprensioni , dolorose e insopportabili. Per non cadere in un solipsismo nobile e degno che non ci costringe ad inventare,sognare e cercare vie di uscite dignitose in un mondo culturale e politico che ha perso il bandolo umanistico della suo essere vivibile.Ed ho pensato ad un riferimento umano e storico che mi confortasse non solo con bellissime e profonde parole ma con azioni e fatti storici che veramente hanno determinato situazioni e cambiamenti “rivoluzionari” interiori ed esteriori…..

mauro orlando

lunedì 5 dicembre 2011

Elisir d'amore per .....le parole


E noi le voci e le parole
e noi lontani dal rumore
e un libro ancora da sfogliare
e una coperta e il suo calore...
Così lontani dal rumore
che neanche il vento si sentiva
e il tempo, quello, ci sfiorava
ma poi una notte un viaggiatore...

r. vecchioni







Uomo, la mosca ha un volo più veloce del tuo occhio e una vita più breve del tuo dolore” Anonimo, VII secolo a.C.

“ Interrogammo i templi di Selinunte, il loro silenzio aveva più peso di tante parole”

J.P. Sartre e S. De Beauvoir

di mauro orlando

In questo spazio di sentimenti, idee e pensieri mi piace riscontrare un rispetto e una cura delle “parole”. La storia delle parole viene da lontano e dal profondo e scavare dentro di loro e come “cercare una rotta dentro di sé, della propria storia e della propria terra ”Quanti veli, sedimentazioni, polveri sottili la modernità tecnologica ha accumulato sopra di loro e noi …abbiamo perso tutte le sfumature. E con le sfumature i sentimenti che le accompagnano e le provocano.
Noi stiamo sentendo e praticando la “paesologia” scienza arresa ma esigente.” La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma. Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui” (Franco Arminio) .Noi in questo spazio ci sforziamo di voler bene alle parole e prendercene cura. E ci sforziamo di coltivare l’occhio del poeta per scoprire “la grande vita custodita gelosamente nei piccoli paesi”.
Solo i poeti, infatti, hanno avuto il coraggio sacerdotale di conservarne la forza (dunamis) visionaria e profetica frequentando “l’unica arte in cui la mediocrità è imperdonabile” ricordando sempre che “in Principio c’era la Parola, ma la Parola è stata tradita” (E. Pound).
Ma al di là di questo senso di perdita teologico-metafisica a noi interessa la perdita dei loro colori sentimentali e passionali che nei nostri racconti non riusciamo a vedere e trasmettere normalmente agli altri. Oggi si parla di “colori del buio” che il nihilismo filosofico postmoderno e un teologismo eteronomo e precettivo ha scaricato in dosi massicce sulle parole colorate dei sentimenti e delle passioni.
Andare al di là e dentro il tempo mobile e imprendibile della cultura e della storia e recuperare il sapore ei colori del tempo immobile dei bambini quando “..si giocava e immaginava , si immaginava e giocava. ”Un bambino non sa di poter essere altro, vive in un tempo fermo al presente e al futuro prossimo. E nelle parole ci sono normalità, regole, armonie che nemmeno noti tanto è scontato che ci siano. Oggi ’ l’eccezione, lo sconvolgimento del consueto che ti mette ansia, ti rizza i nervi, ti sbulina l’animo . La più grande bellezza e l’infinita bruttezza partecipano del mistero.
C’è negli antipodi, nel contrasto assurdo, nel diverso in natura come un filo che se lo tiri ti fa sentire vicino a una verità che le cose che le cose di tutti i giorni nemmeno sfiorano. C’è nel lampo e nel tuono una forza che manca alla giornata serena; c’è nella febbre ,nell’incubo notturno, perfino in una sbornia, un indefinibile atto di chiarezza, di certezza improvvisa.
Solo quando qualcosa sconvolge, provoca ci dice molto più di quel che siamo abituati a sentire. L’inspiegabile, l’unico, arriva come a scuoterti, svegliarti come da un sonno di ordinarie, concilianti abitudini.
L’uomo con le parole fredde della burocrazia e della tecnica televisiva ha livellato tutto, pur di far scorrere il suo sangue a quella precisa velocità, far battere il cuore a quel ritmo sempre uguale a se stesso e così vivere il più a lungo possibile, non importa come, non importa a costo di cosa, pur di vivere disegnando un linea dritta, tra immagini a specchi consueti.


venerdì 25 novembre 2011

Elisir d'amore per ......il "dono"


…se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato….
elda martino


di mauro orlando





«Nacqui a legami di amore non di odio» (Antigone, v. 523).

In un momento epocale del crollo dell’economia di mercato e del relativo modello di scambio sociale è opportuno e d’obbligo una ricerca e una pratica di “umanesimo delle montagne” come inizio di ripensamento di una conoscenza, di una politica e di una etica possibile. In tale considerazione si impone l’importanza delle tensioni emotive nella riflessione filosofica ed esistenziale della modernità, non solo ricostruendo la fitta rete di riflessioni che hanno impegnato assiduamente diversi pensatori riguardo i caratteri apparentemente più costanti della dimensione umana.
preliminare è “smentire la presunta razionalità dell’individuo moderno, avvalorata dalla tradizione liberale” , non solo per mettere in evidenza i limiti e le aporie del paradigma dell’homo economicus, quanto piuttosto di riconoscere nelle esperienze paesologiche nei piccoli paesi l’importanza e la persistenza delle passioni,dei sentimenti e dei sogni nella modernità. Si impone la scelta di un “sapere arreso” nella logica del “dono” che si pone in antitesi concettuale ed etico all’opposto della logica dell’ utile e del profitto. Richiamavo all’inizio le parole di Antigone non per connotare la categoria di dono come attributo naturale e di genere passivamente subito e portatore di rinuncia ed esclusione ma come strumento umanistico attivo di cura e definizione di sé e come soggetto eminentemente relazionale ed opitale. Una ospitalità ed una accoglienza non circoscritte e limitate alla sfera privata auto gratificante ma naturalmente razionalmente votate alla sfera pubblica e comunitaria. Una scelta di cura e di dono come autentico desiderio o passione come fedeltà e coerenza a se stessi in una ineludibile dipendenza dall’altro. Una scelta libera,consapevole e responsabile di un “io” plurale-comunitario autonomo nella dipendenza contro un individuo auto sufficiente e compiuto in se stesso, chiuso alla dimensione dell’alterità e della differenza.

Abbiamo scelto la poesia come strumento di “cura di sé” comunicativo e non come mezzo personale di un modello eroico-aristocratico dell’individuo che spinge ad abbandonare “vita, salute e quiete” a favore di una gloria che si rileva “puro desiderio di plauso e di approvazione altrui che rende gli uomini dipendenti dal giudizio della moltitudine e li fa agire unicamente in funzione della visibilità e del riconoscimento esteriore”. La poesia ha il privilegio e lo schermo di essere intellettualmente apolide e libera e non abita la contraddizione ” umana,troppo umana” della scelta tra l’ideale della Bellezza e del significato del Reale , tra la centralità dell’uomo o della sovranità di Dio. Il poeta vive l’esperienza della possibilità dell’estraneità o sudditanza dell’uomo alla Terra fidando e usando il potere del linguaggio e si permette di irridere la ragione quando si fà astratta ,universale ed autoritaria e di portare pur il silenzio della natura e della morte alla trasparenza della parola e al formalismo mortuario del significato. La poesia di oggi, resa esperta, dalla più recente storia, della catastrofe dell’umano e dallo scacco della ragione, cerca altro nelle macerie del linguaggio ,del sentimento,delle passioni e delle idee: non nuovi ‘significati’, ma un più antico suono,non l’armonia dell’universo ma il silenzio dello spirito e il respiro del corpo. Accostandosi premurosamente alla natura e driblando con estro la Verità astratta e consolatoria , questa poesia ridà alla parola significante il peso e l’umore della terra, delle erbe, delle pietre, degli animali e anche dell’uomo. Una “ragione poetante” , alleggerita dalla egemonia della logica pura , dello scientismo dissacrante e materialistico o delle metafisiche camuffate da fedi militanti, ha appreso, e ci ha appreso che, oltre lo stare-insieme nella ‘polis’, v’è, anche per l’uomo, la possibilità di un più aperto, ospitale stare-accanto nella ‘comunità’, anche nell’esperienza del sacro e non adagiarsi comodamente seduta su “sedie” immobili e ‘ferme’ o peggio “mute” e appese decorative come “quadri alle pareti” .“…….stare qui, animarsi, rianimare l’amore, la bellezza…. stare qui mentre nel mondo accadono tante cose…”
La condizione umana generalmente è saper stare al mondo e saperci stare bene …..da soli o in gruppi umani…per necessità o per caso poco importa…..ma stare al mondo è anche muoversi in esso,vivere in esso in uno spazio-tempo particolare , limitato, essendo figli e padri della sua e propria cultura .Noi vogliamo stare in questo modo nel nostro spazio-tempo che determina il territorio chiamato Irpinia ognuno con la propria disposizione percorrendo curiosi le vie che ci hanno tracciato gli altri e inventandone dubbiosi di nuove per inesplorati sentieri …nel presente che si radica continuamente e proviene dalle radici di un passato che fa fatica a passare e sempre per costruire un futuro che comunque inquieta ma carica il presente di dubbi,sospetti ma sopratutto di responsabilità……che sia questo un pensare e un donare “paesologico”? Il dono è capace di sviluppare una passione in grado di rinsaldare il legame sociale, in quanto non pura gratuità, a determinarlo non è tanto il modello dell’amore cristiano, l’agape, ma la philia, amicizia vicina al modello dell’eros come “desiderio dell’altro, del legame dell’altro in quanto fine a se stesso”. Il dono guadagna la dimensione di “evento simbolico che permea la realtà concreta degli individui”, in quanto “simbolo della incompiutezza dell’io” . Il legame sociale che ne risulta è condivisione della comune insufficienza, mozione della sfera affettiva e rottura dell’autosufficienza narcisistica dell’io.

Elisir d'amore per .......la paesologia come "sentinella del territorio"

Non per richiamare il saggio detto latino "qui custodies custodes" nella esperienza della Comunità provvisoria abbiamo chiaro il senso da dare alle “sentinelle del territorio”, al senso profondo d rispetto e i cura per la terra-carne e i costumi consolidati nel tempo, alle insidie burocratiche della necessità di delimitare in un “parco” sociale i confini ideali per un impegno operativo e concreto, ad un uso propulsivo e contemporaneo della ricerca storico-archeologica nella programmazione attuale del territorio,ad un modo diverso di praticare il turismo della cura ,della clemenza e della compassione come necessità di stile di vita personale ed autentico……insomma abbiamo cercato di rovesciare non solo le premesse del discorso classico sull'impegno politico nella cultura meridionalistica molto idealistica e autorefrenziale e poco praticabile ma sopratutto stiamo cercando di seminare i semi teoretici della "paesologia" non per puro esercizio intellettual-filosofico ma come elemento discrimante di cotraddizione e di "conflitto" con la intellettualità civile e politica che continua imperterrita a vivere ai margini compromissori con un organizzazione del potere locale,provinciale e regionale ai limiti della decenza etica e della civiltà politica e giuridica della modernità accettabile. Franco spesso ha parlato di "clamorosa assenza della opinione pubblica",giusto ,ma non basta. Io mi soffermerei maggiormente sui nostri necessari atteggiamenti di rilievo e di denuncia che siamo costretti a mettere in essere nella difesa dei diritti civili,economici,culturali e politici verso chicchessia del nostro territorio.Il nostro problema è la necessità di stare sulla "realtà effettuale" di marginalità incresciosa e deprimente che i responsabili amministrativi e politici ogni giorno ci propinano e nello stesso tempo marcare una distanza culturale e discriminante concreta rispetto alle classi dirigenti dei nostri territori. A noi non interessa coltivare l’isolamento nobile ed estetico né il gusto masochistico della semplice rituale denuncia di chi è contro “aprescindere” ma soprattutto promuovere o svelare contraddizioni e conflitti con atteggiamenti,scelte e idee che no sempre sono coerenti con esigenze di “ragionamenti che si risolvono sempre in ‘prediche’ di chi continua a razzolare male nella gestione e nell’uso del potere pubblico.
mauro orlando



di franco arminio






Sono molti anni che esco quasi ogni giorno e vado in giro in posti dove non va più nessuno, posti a cui non crede più nessuno. Vado a vedere come stanno le cose, vado a vederle da vicino. La mia scrittura è un modo per uscire da me o per convivere con il dolore, una scrittura che si forma intorno a ciò che ho dentro e al modo in cui questo mio “dentro” si incontra, si incrocia con il “fuori”. Un scrittura fatta con tutto il corpo, un corpo a corpo col paese. Nessun paese è un luogo inerte. Ognuno ha un suo umore. Non ce ne sono due uguali. L’atmosfera cambia da un posto all’altro. Ogni volta che entro in un paese nuovo, provo un’emozione vera. Bisogna avere un occhio trasversale per superare ciò che, a prima vista, sembra uguale. È con quest’occhio e con questo cuore che tutto, piano piano, diviene interessante, unico. Un’osservazione partecipe diventa un’osservazione terapeutica. In fondo non posso nascondere che per me la paesologia è una terapia. Uscire dalle case in cui per tanto tempo ci siamo rintanati, pensando di stare al sicuro, uscire dalla baracca mefitica del proprio io. La paesologia è una strada sul crinale, a metà tra una nuova forma di impegno e una cerimonia religiosa, a metà tra poesia ed etnologia, sempre però ben lontani dalla paesanologia e dalle sue sagre.Se c’è una sagra che mi interessa è quella del futuro. Questa disciplina, allo stesso tempo inesistente e indispensabile, sta tutta nell’attenzione ai paesi come sono adesso. Il mio è un dolore che combatte contro la distrazione e la cecità. I paesi non sono morti, ci sono ancora, sono malati, esattamente come è malato tutto il pianeta. C’è una parola che può riassumere tutto: desolazione. Si tratta di una malattia nuova per i paesi. Prima c’era la miseria, c’era il mondo mirabilmente descritto da Carlo Levi, c’era la lontananza e l’oppressione, c’era la comunità dei poveri, degli umili. Siamo passati dalla civiltà contadina, a volte crudele, perfino spietata, a questa cosa oscena che chiamo modernità incivile.Il mio ultimo libro, più degli altri, esprime la scelta di porre una serena obiezione al mondo. La desolazione per me non è un epilogo, ma un punto di partenza per un nuovo modo di abitare la terra, una nuova postura. Ciò che io invoco è una nuova etica, un umanesimo delle montagne. La mia visione parte dallo sgomento di stare in un pianeta pieno di merci, un pianeta in cui non sappiamo più farci compagnia e nel quale ognuno in cuor suo sembra aver dato addio a tutti gli altri. In Terracarne parlo di autismo corale, parlo della nostra incapacità di passare il tempo in compagnia e in lietezza. È qui la radice di tutta la mia scrittura. La posta in gioco è tollerare l’incertezza di ogni cosa. La paesologia è una “scienza” arresa, non è una “scienza” facile. Scrivo a oltranza di luoghi che perdono abitanti e di abitanti che hanno perso i loro luoghi. È un invito ad abbandonare le sicurezze dell’uomo attuale, a scendere in basso, ad avvicinarsi alla terra, al mondo per come è e per come potrebbe essere nostro malgrado. È un atto di ascolto riverente, è inginocchiarsi davanti all’altare del vento e dell’aria, della luce, delle pietre. La paesologia è prendere i propri occhi e modificarli, è svelare la bellezza di ciò che gli altri ci fanno credere brutto, insignificante. Un punto di vista che parte dall’interno, dai nostri organi, dai nostri sensi e che ci lega a ciò che vive, che sta nel mondo. Non è più il tempo del delirio per l’umanità, non è più il tempo per le smanie capricciose dell’ “io”. Bisogna uscire, andar fuori, imparare a usare il corpo come un’astronave, apprendere da tutto ciò che è piccolo, inerme, silenzioso, vinto. Pregare per la sua salvezza, che è poi anche la nostra. Una piccola apocalisse silenziosa è in corso sotto i nostri occhi. Possiamo fingere di non vederla, o possiamo chinarci e prestare nuova attenzione, donarle lo sguardo, darle una voce. I paesi non sono un problema, sono una possibile soluzione. Non sono un esperto di faccende economiche, la mia ossessione è la scrittura. La mia è un’esperienza di dedizione assoluta alla scrittura. Inutile lamentarsi per la perdita di attenzione nei confronti della letteratura. L’unica cosa che uno scrittore può fare è scrivere libri veri, onesti, infiammati dal coraggio, costruiti con puntiglio e rigore.La paesologia non è un’evasione dalla letteratura. Cerca lettori combattenti. Per stare al mondo senza ammalarsi di noia e di ingordigia, ci vuole uno slancio disumano, ci dobbiamo convincere che siamo terracarne. In ciò che scrivo l’indagine su me stesso è intrecciata all’osservazione di un lampione, di una macchina parcheggiata, di una vecchia che cammina per strada. I deliri della mente e quelli delle betoniere, tutto per me è oggetto della paesologia. C’è bisogno di includere, intrecciare. Viviamo in un’epoca irrimediabilmente mescolata, a cui è inutile portare il broncio. La realtà, a dispetto di ogni oltraggio, rimane colossale e merita di essere raccontata.

mercoledì 23 novembre 2011

Elisir d'amore per ....un amico dell'Irpinia

....ci osserva ma non ci parla......la divinità è gelosa della notra felicità....

"Viviamo un’agonia ciarliera, dove le parole non si capisce se sono un tentativo di guarigione o un ulteriore approfondimento dell’agonia." Mi piacciono molto le cose che scrivi ma spero molto nella tua capacità di usare ,abusare ma anche reprimere la forza delle parole a creare labirinti insopportabili di dolore o di solitudine sofferente.Io mi gioco la mia vita mentale con le sirene ammalianti della filosofia non gratificato dalla intuizione o convinzione che la natura umana non trova il proprio compimento in questo mondo ma soltanto nella visione beatifica, nella perfezione soprannaturale mediante la grazia nella morte come ossessivamente ti suggerisce un tuo "amico" rassicurato dalla sua fede in una vita che si potrà vivere e declinare solo nel futuro dell'eternità.
Il vero sapere per me non è sapersi raccontare o raccontare ma si risolve nel sapere interrogare e nel saper rispondere .Nessuno riuscirà mai a diventare sapiente nell’isolamento, ma solo nell’assidua frequentazione e nel quotidiano dialogo con i suoi concittadini : Socrate dice “io amo imparare, ma la campagna e gli alberi nulla mi insegnano,imparo invece dagli uomini della città”
Tutti i dialoghi di Platone sono dialoghi politici e vera scienza è solo la scienza politica.”
Dallo spirito profondo delle tue parole ,di un ‘buon e giusto amico’ che non persegue il fine filosofico di mettere ordine alla propria anima ma a dare alle parole letteralmente il meglio di sé,a saperle fra piangere,ridere.innammorare….. la vita anche quando è dolore e sofferenza. A noi il compito solo di assecondare o gustare un clima di perfetta ‘koinonìa’, ‘affinità elettiva’ e godere le parole nel loro compito insinuante e pervasivo di mezzi di comunicazione vera,autentica e sentita . Il resto viene tutto da sé con la spontaneità e la profondità del comunicare mitico-religioso dei momenti importanti e cruciali della propria vita mentale e spirituale.
E’ facile ricogliere l’intrigante fascino del 'conflitto' del ‘mitos’, e la presuntuosa pretesa del ‘logos’ di tutto conoscere ; la profondità mistica della cultura ‘oracolare’ e l’intrigata e accattivante malia della poesia.
Non si poteva chiedere di meglio ad un 'amico': ricreare situazione migliore per un vero e maieutico dialogo in vista della scienza vera e della autentica ‘fronesis’(saggezza).C'è vera amicizia e koinonia solo se si è capaci immediatamente, per incanto ricercare,ricreare le sfide del ‘labirinto’ e delle sue prove cognitive e di ‘vita’ ; il conflitto ‘tragico’ tra la poesia delle dionisiache ‘baccanti’ con gli apollinei rituali di noi uomini ordinati e formali, l’impegnativa ricostruzione del senso di un velato sapere oracolare, profetico, divinatorio e onirico quale quello di Cassandra,la sfida ‘tragica’ dell’enigma per Edipo, il pathos e il fascino del nascosto ,del mistero e dell’infinito, il recupero della ‘follia’ come fonte della sapienza, il piacere dell’agonismo nella retorica ...... ed in questo , sentire e conoscere il fascino e la riscoperta delle proprie profondi e originali radici culturali non senza un legittimo e recuperato orgoglio.Senza moralismi e fastidi di una razionalità troppo solida ma disumana anche quando si accoppia con la fede.
Io non so e non voglio cadere nella brutta abitudine di 'dare consigli' non richiesti.So solo dire ciò che penso per me .
“Merita il nome di scienza soltanto ciò che conferisce il giusto ordine all’anima e rende migliori e felice colui che essa si dedica”
Epistème,sophìa,frònesis ,'la vera scienza' è quella in virtù con la quale l’uomo si cura di sé”.
Filosofia per me è un modo possibile di vita ,anzi il modo migliore di vivere felice.
Grazie non solo per quello che scrivi ma soprattutto per quello che vivi e fai per noi della “Comunità” e per la nostra bella e verde Irpinia
mauro orlando

Elisir d'amore per ......pensare e fare politica


.......tanto per ristabilire le priorità paesologiche a noi interessa di più cercare di capire cosa passa per la testa semplice di questo vecchio ‘panchinaro’ che nella testa complessa e politcista dei vari capogruppi nel Parlamento italiano o in quella intellettuale e professionale del nostro Presidente del Consiglio e dei nuovi ministri che comunque controlliamo con rigorosa e critica attenzione……se pur nella stima della loro funzione democrtica……
di mauro orlando
L’esperienza di franco del “ nord di pianura” e le sue considerazioni emozionali , come le sue considerazioni sulle esperienze politiche nei riguardi del nuovo governo Monti….. hanno bisogno di essere meditate e discusse non in modo personale ma comunitario e non per gusto agonistico o per esercizio sofistico ma per l’importanza che rivestono nella nostra possibile esperienza comunitaria nei piccoli paesi di tutte le realtà periferiche ed appenniniche dell’Italia. ”La visione e conoscenza paesologica “ ha il il privilegio e il merito di sgomberare il campo dagli equivoci malevoli , pretestuosi e modernisti di un comunitarismo e territorialismo a rischio identitario e xenofobo. .Esso punta costitutivamente ad una soggettività –plurale consapevole ed attiva e non “una specie di moda elitaria per i cittadini meno granitici, un modo per assicurare alle loro coscienze una parte di assoluzione”. Non è la nuova ideologia per “spaesati” ,”terremotati” ,abbandonati e stressati dal postfordismo e dalla globalizzazione neo liberista e speculativa che nelle zone interne e nelle periferie metropolitane ha spazzato via anche il possibile mito industrialista e modernizzatore superficiale delle coscienze.Le nostre proposte dei “ pensieri lunghi” della speranza e dei sogni non sono la pilatesca scelta irresponsabile al confronto con le machiavelliche “realtà effettuli” né la ricerca ossesiva degli “arcana imperi” dei poteri strutturali forti nelle istituzioni o deboli delle infrastrutture nelle società.Il nostro occhio e la nostra intelligenza sono orientati nelle vene della società dove si vive un senso di spaesamento depressivo (autismo corale e/o individuale) in un cambiamento antropologico di una società che non vede pur con mezzi scarsi fini certi: lavoro a vita ,possibilità di benessere,scolarizzazione per i figli più acculturati dei padri ecc. Oggi pur con maggiori ed abbondanti mezzi i fini diventano sempre più incerti. Anche se all’apparenza si può percepire e pensare “… alle certezze che la vita di pianura offre a chi la conduce”. Oggi la globalizzazione ci impone teoreticamente ossimori come “reti corte” e “pensieri lunghi “ o “reti lunghe ” e “pensieri brevi”. “ Ora comprendo meglio la calma e la silenziosa operosità di questi luoghi. Qui non c’è mai lo squarcio, da qui si può arrivare ovunque e ritornare in fretta. Si può programmare il giorno suddividendolo in decine di cose da fare in luoghi differenti e si può fare la strada al contrario quasi senza intoppi” Vivere al Nord può dare queste impressioni ma esiste un sottofondo carsico e depressivo chimicamente sedato , tutto prepolitico,segno di uno spaesamento antropologico in una sorta di distacco e di apatia che la Lega ha saputo trasformare in energia propulsiva per macinare consenso elettorale. Noi stiamo cercando di ragionare in modo completamente originale e non regressivo sulle due parole chiave del nuovo discorso politico: comunità e territorio. Il territorio non è solo lo spazio del conflitto e delle scelte politiche che afffrontano anche i grandi nodi della modernità globale e locale ( trasformazione dei lavori,nuova immigrazione ,fabbrica diffusa , fonti energetiche naturali quali acqua,aria, terra e sole ).La dissolvenza delle comunità originarie o dei nativi in comunità del rancore ,della diffidenza o del rinserramento o quella falsamente identitaria nell’esclusione dell’altro da sé. Io mi sto sempre più convincendo ( anche da una lettura attenta e dilatata nel tempo di Terracarne non per averne una visione a volo d’aquila ma a muso di cane ) fuori dagli equivoci della possibilità di una costruzione delle “comunità di cura” .Fuori dai fraintendimenti possibili una comunità operosa dei cittadini attivi ,consapevoli,liberi e reponsabili che operano per la inclusione e per la difesa dei diritti fondamentali della persona ,tra cui includerei anche il diritto alla cura e alla salute. Dovremmo con più lungimiranza lavorare per una convergenza tra comunità operosa e comunità di cura come antitodo per ridurre la sindrome da comunità del rancore. A partire dalla natura plurale conflittuale del territorio per non cadere nel pericolo del populismo xenofobo dell’ “ognuno padrone a casa sua” dobbiamo pensare ad una politica del fare “nuova società e nuova cultura”. Paesologia e comunitarismo insomma .Esprimere un pensiero di tipo e respiro strategico sulla terra nel mondo da salvaguardare e da vivere profondamente oltre allo starci ed abitarlo. La paesologia è anche la presunzione e la capacità di sentire “ che la percezione delle distanze” ma sopratutto la forza di superare la “difficoltà a trovare il tono giusto per parlare a questi ragazzi di luoghi come l’Irpinia d’oriente, come l’altura, l’Appennino, la dorsale impervia e franosa che vivo e che mi attraversa da anni, da quando sono nato”. Noi sappiamo che costa fatica vivere giorno dopo giorno “ il posto per la crepa, la spaccatura” e che non rifiutiamo per snobismo intellettualistico e neoariitocratico la città dove “ non c’è lo spazio per la bruttura improvvisa, per il degrado, per lo sfregio”. Non ci convince e non ci basta più parlare “di urbanocentrismo, di policentrismo…del concetto di centro e di periferia del centro”. E le nostre esperienze comunitarie e paesologiche non sono “ visioni”, ma consapevolezze conoscitive non solo per pensare ma per vivere “i piccoli paesi” in un rapporto esistenziale alla riscoperta della “grande vita “ che si nasconde tra le pieghe delle brutture di una modernità senza anima e di uno sviluppo senza progresso. Forse un giorno ognuno di noi si sentirà orgoglioso e rivoluzionario di essere vissuto dagli urbanizzati per costrizione e necessità “una specie di indiano di una riserva, il buon selvaggio esposto alla curiosità dei cittadini civilizzati, una tigre del bengala costretta a stare nello zoo di Vienna. Insomma qualcosa di esotico”. E allora fuori dai dubbi e paura ….” la paesologia “ non sarà percepita come “ una scienza esotica, una specie di moda elitaria per i cittadini meno granitici, un modo per assicurare alle loro coscienze una parte di assoluzione. Come dire: vedo, conosco altri luoghi nei quali mai andrei a vivere e questo mi rende migliore. Solo questo” E allora anche sentirsi “….franoso, instabile, in bilico” diventerà un modo e una possibilità di rappresentare un dubbio o un sospetto che il “ loro ordine interiore che traspare nel linguaggio, forbitissimo e accorto, nelle osservazioni, nella postura” e la loro condanna ad una inconsapevole non libertà e che la loro vita ha perso di autenticità e di anima.Tutto questo non esclude che io cittadino italiano ritengo utile, necessaria e qualitativamente rivoluzionaria nel mio paese la funzione della “politikè teknè” di un governo di saggi ,professionali,competenti e onesti ministri non solo rispetto alle inadeguatezze e responsabilità dei passati ceti politici ripetto alla gravità delle degenerazioni politiche ed economiche.Noi resteremo comunque attenti nel controllo ma distanti nei tempi, nelle prospettive ,nei fini e nei mezzi per pensare e fare politica.
mauro orland
o

Elisir d'amore per .....l'amicizia


-Abbiamo perso l’amico, si dice in questo secolo.
-No, il nemico, dice una voce, sul finire di questo stesso secolo.
Ed entrambi parlano del politico, ecco quel che vorremmo ricordare

Il mio percorso filosofico ha sempre fatto il mio implicito riferimento alla pratica di un pensiero astratto e universale che non vuole dire nulla, ma il cui compito fondamentale resta non solo quello di decostruire e destrutturare nelle sue contraddizioni e conflitti. L’intera tradizione metafisica o onto-logica occidentale c si esprime in primo luogo nel rilievo accordato alla terza persona dell’indicativo presente del verbo essere, attraverso cui normalmente viene predicato il significato nascosto dietro le cose, a cui di volta in volta la metafisica ha dato nome di essenza, sostanza, esistenza, coscienza…: categorie filosofiche tutte caratterizzate dal forte rilievo che al loro interno assumono le nozioni di presenza e presente (implicite nell’”è”).Mi hanno interessato in questi ultimi tempi le “scienze arrese” ,le esperienze esistenziali plurali e comunitarie che non solo riuscissero a depotenziare la potenza e sovranità assoluta di un LOGOS che non fosse “umano troppo umano”.Per queste esigenze teoretiche ,esistenziali e …..politiche che ultimamente avevo sentito la necessità di parole (lògoi) di poesia per richiamare a me e agli altri le nostalgie di futuro e non di passato“….….non si possono fare poesie con tutte le disavventure che ci capitano:Avevamo inventatoil museo dell’aria.Niente da fare.Va bene l’aria ,non il museo.Volevamo dare occhi d’infanziaal paese.Niente da fare.Vanno bene gli occhi , ma devono essereciechi.Abbiamo creduto a una festaChe ci facesse leggere poesiein un cimitero.Niente da fare.Va bene il cimitero, non le poesie.Avevamo l’idea di non consumarela cultura ma di mischiarlaalle cicorie,agli intonaci dei muri.Niente da fare.Va bene la cultura , purchènon ci sia.Crediamo al silenzio, al vento, al buioAlla nascita provvisoria, alla morteSenza fine.Niente da fare.Hanno trafugato le roseButtando via le spine”
Avevamo assaporato la possibilità di “una rivoluzione sismica nel concetto politico dell’amicizia”. Sapevamo di aver contratto un debito da tempo con i temi della filosofia e della pratica politica che si richiamava e si finalizzava alla “rivoluzione” fatta dagli altri e da noi in situazioni culturalmente e socialmente privilegiate. Scriveva correttamente Derrida : “Ci sentiamo perciò, è vero, chiamati ‘in diretta’ a delle risposte o a delle responsabilità immediate. E’ anche vero che esse sembrano iscriversi più naturalmente nello spazio della filosofia politica. E’ vero, sarà sempre vero, e noi siamo a questo proposito sempre in difetto. Le nostre risposte e le nostre responsabilità non saranno mai adeguate e mai abbastanza dirette. Il debito è infinito”.Avevamo con generosità pensato all’amicizia come valore estensivo alle nostre esigenze sentimentali,affettive e passionali per un cambiamento radicale e autentico.Il tema e la pratica dell’amicizia avrebbe potuto essere affrontata da vari punti di vista, magari bordeggiando soltanto gli aspetti più propriamente politici per affrontare in primis quelli sociali, psicologici, affettivi e sentimentali, ma quel che ci interessava è la puntuale decostruzione e pratica critica , a partire dall’amicizia, di una precisa tradizione del politico, la nostra, che ha sempre espresso la precisa consapevolezza che suo compito è di creare il massimo di legame sociale,individuale e comunitario assieme. Fine della politica e della rivoluzione è quel “vivere bene” che si realizza compiutamente solo nel “vivere insieme”, e questo “non è niente di meno che l’amicizia in generale” . Tutto ciò che accade nella pòlis (per noi non tanto uno spazio chiuso ma un spazio nomade e mobile), come afferma Aristotele nel libro III della Politica, è opera dell’amicizia. E’ anche vero che tale tradizione ha scelto per secoli di modularsi sui principi di appartenenza,territorialità,etnicità e non su quello di fraternità o comunanza (koinonìa).Per questo e per tanto altro ancora mi sento vicino e in comunanza con le parole della Edda e ancora ho la speranza e la fiducia che possano trovare spazio e senso nelle esperienze che potremmo continuare nella Comunità provvisoria di ieri ,oggi edomani.Io resto un inguaribile pessimista con propensioni all’ottimismo.Grazie Edda continua a scriverci….
Con amicizia
mauro

lunedì 21 novembre 2011

Elisir d'amore per ......l'ascesi e la discesa.....

Tra esperienza mistica di Erri De Luca e la vita “paesologica” di Franco Arminio

Una lotta tra la terra che vuole smettere di attrarci nel vivere e il cielo che inizia nel miraggio del pensare. Tra il finito pensato e l’infinito sognato. Un infinito che avvolgendoti come vento ti arruffa i capelli…libera con le vertigini dell’altura la tua mente da tutte le zavorre e le polvere sottili della pianura evitando il rito mistico del girotondo dei dervisci. Sulle rupi e le vetti ti metti in ascolto del vento d’altura che allontana gli schiamazzi del mondo. Non si pensa all’origine del vento ma al suo suono che non è deviante come le sirene di Ulisse.Uno che va per i monti è un solitario,ascetico.mistico, uno che va per città è un vagabondo,un turista, un borderline,un emarginato…. uno che va per paesi è un viandante o pastore che vede lontano e in profondità perché non ha una meta ma un cammino da percorrere in avanti e all’indietro come gli animali selvatici che fiutano e percepiscono segni remoti e nascosti ai più. Il mistico cammina con la sua solitudine per lasciarsi alle spalle rumori di fondo e la babele dei non-luoghi. E a quelli che gli chiedono cosa aveva visto sulla vetta e sulla rupe risponde di aver sentito e pesato un senso di spaesamento e che non aveva parole per rispondere e usava le parole della poesia : un vuoto senza ali,una luce che si infiltra nel vento,la felicità di guadagnarsi il sole, un silenzio che si fa sinfonia, un ascolto dilatato del proprio cuore,un risentire il varco doloroso materno verso la luce della smemoratezza nel tuffo e nel vuoto della vita umana, e l’appoggiarsi delicatamente al bordo della rupe non per sperimentare il vuoto o il nulla ma per sentire dove finisce il mondo e comincia il tempo, sentire la tristezza dolorante e dolorosamente umana del getsemani dell’anima turbata dalla speranza per la resurrezione del corpo, il ricordo e la ricerca che lo stordivano, il cielo stellato sopra di noi che perdeva pezzetti di comete e non ti invogliava a cercare leggi morali dentro di te ma amare la solitudine spaziosa che non ti spaura ma alimenta la tua curiosa fantasia , il non andare a verificare se la terra smette e comincia il cielo o per riportare il cielo in terra, ma ad imparare a desiderare e apprezzare di abitare e vivere il dono della terra,lo sperimentare il precipizio nel vuoto che ci ricorda la solidità terrena della memoria, il vivere come la messa a fuoco tra la salita all’infinito e la discesa al finito senza fine di continuità. La discesa nel mondo dei “piccoli paesi dalla grande vita” non è la triste e forzata discesa tra gli uomini della esperienza solitaria di Zaratustra . Ciò che ognuno di noi ha vissuto, sentito,visto e pensato sulla rupe l’abbiamo chiamata “paesologia” come presupposto della ascesa mistica ma senza il miraggio della divinità . Paesologico è praticare la poesia che sa parlare della forza che hanno le stelle quando esplodono, le assurdità che passano per il mondo, il marciapiede su cui camminiamo, la sedia su cui stavamo seduti a cinque anni,il letto su cui dormiamo.,distinguere le emozioni delicatissime dalla vacua logorrea di calibratissmi congegni letterari e semplici eruzioni egotiche, evitare gli ipocriti, gli animali a sangue freddo, coccodrilli mummificati che all’improvviso si sciolgono e spalancano le loro fauci, gli estremisti parolai e moderati, il non farsi affliggere più di tanto dagli eroi dei luoghi comuni e della conservazione , il vivere la disponibilità di spazio e di terra sterilizzando i luoghi anche dalla puzza delle automobili, sapendo che siamo noi la cosa che manca e non risponde all’appello e alla sollecitazione,l’ imparare ad accudire con fervore e generosità il mondo e il luogo che ci ospita, mettersi al capezzale dei piccoli paesi , paesi della mancanza e del vento che scompiglia ed agita,il diffidare delle parole ma anche volergli bene per non farle assomigliare ad una truffa,lo smascherare i devoti del conformismo, i luminari dell’ipocrisia, i professionisti del calcolo costi/benefici,l’andare fuori a prendere aria e cercare instancabilmente spiragli,crepe e fessura come via di fuga per una esperienza autentica,l’ educarci agli sguardi lunghi e alle passioni e sentimenti caldi,lo scegliere di lasciare dietro di noi i miraggi e le distorsioni della modernità nella nostra risalita sul meteorita che guarda simbolicamente tutta l’Irpinia per far germogliare pensieri intorno all’altura degli appennini come luogo di transito che allontanano tutte le visioni statiche e separatiste, il vivere la penuria e la lentezza come occasione per guardarsi intorno e per guardarsi dentro, il fantasticare e immaginare un museo dell’aria senza arredi e custodi, senza cartelli segnaletici o guide sulla nuca del meteorita che spunta nella valle dell’Ofanto,tra il Formicoso e la Sella di Conza, anche nell’equivoco di chi vuole pensare a un Dio come l’aria e non come lògos, un Dio ha tanti fedeli inconsapevoli e tante chiese, una per ogni polmone, per ogni acquasantiera del respiro. Questo una volta il viaggio esistenziale verso Cairano 7X che si è voluto dividere nel tempo e nello spazio non nello spirito del sogno tra ascesi mistica e esperienza ‘paesologica’.
Mauro orlando

domenica 20 novembre 2011

elisir d'amore per ....le speranze dentro di noi




“una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia”.


di elda martino


Gentili amici,oggi ho riaperto il pc con una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia.In questi giorni ho pensato e ripensato all’ esperienza nascente delle comunità provvisorie ( nome orribile, me lo si permetta…sembra una cosa da saldi di fine stagione…, in più, perdonatemi, la parola communitas non ha un plurale, è già un nome collettivo, pluralizzarlo significa tradirlo due volte, nel significato e nella forma).Ho riflettuto a lungo e bene, ne ho avuto modo anche data la mia situazione di inoperosità forzata.Queste righe di seguito specificano meglio ciò che ho brevemente sintetizzato in quello che, sic stantibus rebus, sarà il mio unico commento sul nuovo blog. Prendetele come le riflessioni assolutamente amichevoli di un’inattuale, Nietzsche mi perdonerà per questo spostamento di genere……….
1) non considero né posso considerare le persone ( così come tutti gli esseri viventi) come dei mattoncini sostituibili con altri diversi, né posso pensare che un trauma come la fine di un’esperienza in cui avevo creduto possa essere risolto con leggerezza o con superficialità. L’autismo attinge proprio da questi principi, l’idea che la persona, l’uomo o la donna non siano unici ma semplici oggetti dell’Utile assurto a legge e, quindi, consumatori, fruitori di ciò che si produce, chi siano e come siano non conta, l’importante è che ci siano. Scusatemi, ma che questa operazione rischi di andare a finire lungo una linea del genere mi pare più che evidente.
1bis) la paesologia è condizione necessaria ma non sufficiente per la fondazione di una comunità, essa, in quanto scienza arresa- splendida definizione- non ha fondamenta stabili, di conseguenza i “pilastri” di questa eventuale vicenda vanno ben individuati e riconosciuti prima di esporsi pubblicamente. Bisognerebbe guardarci in faccia e dirci tutto quello che c’è da dire, senza finzioni e senza retropensieri e senza atteggiamenti fasulli. Alla base di questa esperienza dovrebbe esserci la verità, la pietas e la constatazione dell’inesorabilità e l’irreparabilità del mondo così com’è ora.
1ter) fare comunità è compiere un esodo irrevocabile, senza più presupposti né condizioni di appartenenza o di individualità, essere sì, ma essere quodlibet, essere qualunque, singolare ma senza identità; fare comunità è la costruzione collettiva di un corpo comunicabile.
2) quando qualcosa finisce c’è bisogno di un periodo di elaborazione e di silenzio anche. Se questo “fermo” non c’è, non viene naturale, non scatena anche dispiaceri e sconforti, allora forse vuol dire che ciò che è finito non era veramente sentito e che ciò che verrà partirà da presupposti di scarso amore, di ancor più scarsa attenzione. L’usa e getta è uno dei tipici automatismi dell’autismo corale. non possiamo fare come gli struzzi, i lutti vanno elaborati e non scotomizzati.
2bis)non si tratta di sostituire una macchina vecchia con una nuova, si tratta di fondare ( e vedete che dico fondare e non ri-fondare) una comunita’, una communitas, un luogo di scambi reciproci, di reciproci riconoscimenti. Si tratta di metterci in dubbio, di guardare oltre l’orlo, di andare “fuori” e non di creare semplicemente un nuovo “brand”. Ho trascorso gli ultimi due anni nella cp a dire che c’era bisogno di un “mutamento nel cuore”, voi cosa ne pensate? Basta cambiare logo e luogo per essere diversi? Ho i miei dubbi.
2ter)non rischiamo di fare errori già commessi? Io non ho mai creduto alla teoria del chiodo scaccia chiodo e le modalità con cui questa nuova creatura sta nascendo mi sembrano da discutere e da analizzare in profondità. Tutta questa fretta ossessiva di dire “Ehi! Ci siamo! Non siamo spariti…” , ma perché? E a quale scopo, a quale scopo “comunitario”?L’esposizione è urtare contro un limite e toccarlo, l’esposizione è rischiare di ferirsi anche, di farsi male, non comunicare banalmente la propria presenza al mondo dell’Utile.
2quater) l’idea di attrarre altre esperienze quando ancora non abbiamo capito COME vogliamo essere noi è solo un modo per annacquare e allontanare la vera questione, una questione che da mesi ci stavamo e ci stiamo trascinando dietro.
3) ci sono fra noi persone che tanto hanno dato e fatto, persone che si sono spese davvero, franco prima di tutti, ma anche altri, coi loro modi e il loro modo di essere, il loro quodlibet. Non è molto corretto nei riguardi di tali amici ripartire senza un cambiamento sensibilmente reale e tangibile, a cominciare dalla modalità, dalla lingua, dai pensieri, dalle visioni e dai rapporti tra noi, senza avere la massima cura di una vera nuova considerazione, un modo nuovo di guardare l’altro da sé.
3bis) Fondare un “luogo” comunitario significa mutare prima di tutto se stessi, senza certezze, senza l’idea di essere migliori o di essere diversi a priori. Siamo disposti a partire dalle nostre singolarità, ad annullarle in un singolare senza identità? Altrimenti qual è la differenza? qual è la differenza tra i convegni fiume e le scampagnate e questo nuovo modello?
4) vogliamo essere una comunità o un posto come tanti altri? vogliamo essere persone che si incontrano occasionalmente o vogliamo fare parte di un’esperienza veramente innovativa? veramente “rivoluzionaria” e utopica? vogliamo essere folli o vogliamo semplicemente farci vedere, esporre le nostre mercanzie e farci dire quanto siamo bravi e quanto siamo buoni rispetto ai cattivi che stanno dall’altra parte?è questo quello che vogliamo o vogliamo provare a “volare”?
4bis) se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato. abbandoniamo i ben noti provincialismi che ci portano a dare più valore a chi è estraneo o nuovo e facciamo i conti con chi c’è, c’è stato e c’era già, poi apriamoci agli altri, ma non come si apre un supermercato, bensì come si può tenere aperta una porticina minuscola nella quale, per entrare, bisogna faticare e insistere
5) punto , forse, più importante di tutti: il problema non è l’essere ma il COME, il come essere. e su questo io non ho visto ancora nessuna vera apertura per un dibattito, a parte le considerazioni di Salvatore d’Angelo e alcuni contatti che ho avuto con Sergio Pagliarulo e Mauro Orlando, per uno scambio che faccia tremare sul serio le fondamenta di certezze stratificate dal tempo, dalle abitudini di ciascuno di noi e dalla vita.
spero di non avervi annoiati con le mie riflessioni e auguro a questa creatura una lunga vita e buona fortuna.
vi saluto e abbraccio con affetto chi sa abbracciare, chi sa avvertire la gioia e il dolore del Mondo, quello vero, quello con la EMME maiuscola…elda
Cara Elda ,per quanto tempo mi sono speso ed addolorato nel tentativo di “scavare nelle parole” incerca della luce,della fragranza,della musica,della voce di chi le scriveva per non far perdere il ricordo di sè.Le tue parole scritte mi hanno emozionato e sconvolto ma hanno dato senso ai miei dolori e alle mie gioie della nostra bella avventura comunitaria.Le tue parole ,credimi , hanno senso eccome almeno per me che mi hanno educato a imprigionarle nella logica e nel realismo più rigido.Comunque io ancora credo nella parola perchè credo negli altri non indiscriminatamente ora….e per ringraziarti voglio farti dono delle parole di una “donna” che ho molto amata e cercata che cantava il suo struggimento d’ amore con queste parole “….i vezzi di leggiadre corolle…./ e l’olio da re ,forte di fiori/ che la tua mano lisciava/ sulla lucida pelle;/ e i molti letti/ dove alle tenere fanciulle ioniche/ nasceva amore delle tua bellezza/ “. Leggere le tue parole mi hanno creato un tale disaggio e senso di inadeguatezza che per commentarle prendo in uso le parole di un commntatore delle poesia-canto di Saffo ” C’è una qualità sottile, una quasi struggente parentela tra tutti quelli che un istinto misterioso chiama avivere e ad esprimere la verità profonda del proprio essere: e che paradossalmente li guida, nello stesso istante in cui dedicano ogni forza acercare una comunicazione totale con gli altri, ad avvertire i limiti insuperabili che fanno inestricabile parte della loro impresa bella ed angosciosa.I poeti e il loro impegno di esistere:cercare di dire tutto e tutto il vero, e scoprirsi isolati in una sfera di indicibile – nonostante la sapienza del dire- esperienza interiore.Lei come struggente persistenza vitale, di carne di sangue. Accesa dal balenare delle dolcezze che erano, che fino alla fine continueranno ad essere, il tutto: il condiviso tutto che possiamo, al più e al massimo, avere su questa terra” (G. Mascioni ,Lo specchio greco, Mondadori) Sono parole che ho sentito mie e che sentivo ti riguardassero mentre leggevo il tuo scritto ed ho capito che non possiamo ulteriormente sprecarle in spazi comunicativi che non recuperino il senso , l’amore (koinonìa) per il bello che circolava come incenso nelle comunità dei “thiasi”e delle “eterie” della nostra civiltà ellenica……ma le più belle parole che ho letto in questi scambi epistolari sono: Elda ti vogliamo tanto bene e non farci mancare le tue parole e la tua persona..con un affetto immenso e inesprimibilemauro






“una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia”.
…….ricordo a tutti gli amici che questo non è e non vuole essere un blog letterario.siamo qui per cercare nuovi modi di stare insieme, nel reale e nel virtuale……franco arminio di elda martino





Gentili amici,oggi ho riaperto il pc con una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia.In questi giorni ho pensato e ripensato all’ esperienza nascente delle comunità provvisorie ( nome orribile, me lo si permetta…sembra una cosa da saldi di fine stagione…, in più, perdonatemi, la parola communitas non ha un plurale, è già un nome collettivo, pluralizzarlo significa tradirlo due volte, nel significato e nella forma).Ho riflettuto a lungo e bene, ne ho avuto modo anche data la mia situazione di inoperosità forzata.Queste righe di seguito specificano meglio ciò che ho brevemente sintetizzato in quello che, sic stantibus rebus, sarà il mio unico commento sul nuovo blog. Prendetele come le riflessioni assolutamente amichevoli di un’inattuale, Nietzsche mi perdonerà per questo spostamento di genere……….
1) non considero né posso considerare le persone ( così come tutti gli esseri viventi) come dei mattoncini sostituibili con altri diversi, né posso pensare che un trauma come la fine di un’esperienza in cui avevo creduto possa essere risolto con leggerezza o con superficialità. L’autismo attinge proprio da questi principi, l’idea che la persona, l’uomo o la donna non siano unici ma semplici oggetti dell’Utile assurto a legge e, quindi, consumatori, fruitori di ciò che si produce, chi siano e come siano non conta, l’importante è che ci siano. Scusatemi, ma che questa operazione rischi di andare a finire lungo una linea del genere mi pare più che evidente.
1bis) la paesologia è condizione necessaria ma non sufficiente per la fondazione di una comunità, essa, in quanto scienza arresa- splendida definizione- non ha fondamenta stabili, di conseguenza i “pilastri” di questa eventuale vicenda vanno ben individuati e riconosciuti prima di esporsi pubblicamente. Bisognerebbe guardarci in faccia e dirci tutto quello che c’è da dire, senza finzioni e senza retropensieri e senza atteggiamenti fasulli. Alla base di questa esperienza dovrebbe esserci la verità, la pietas e la constatazione dell’inesorabilità e l’irreparabilità del mondo così com’è ora.
1ter) fare comunità è compiere un esodo irrevocabile, senza più presupposti né condizioni di appartenenza o di individualità, essere sì, ma essere quodlibet, essere qualunque, singolare ma senza identità; fare comunità è la costruzione collettiva di un corpo comunicabile.
2) quando qualcosa finisce c’è bisogno di un periodo di elaborazione e di silenzio anche. Se questo “fermo” non c’è, non viene naturale, non scatena anche dispiaceri e sconforti, allora forse vuol dire che ciò che è finito non era veramente sentito e che ciò che verrà partirà da presupposti di scarso amore, di ancor più scarsa attenzione. L’usa e getta è uno dei tipici automatismi dell’autismo corale. non possiamo fare come gli struzzi, i lutti vanno elaborati e non scotomizzati.
2bis)non si tratta di sostituire una macchina vecchia con una nuova, si tratta di fondare ( e vedete che dico fondare e non ri-fondare) una comunita’, una communitas, un luogo di scambi reciproci, di reciproci riconoscimenti. Si tratta di metterci in dubbio, di guardare oltre l’orlo, di andare “fuori” e non di creare semplicemente un nuovo “brand”. Ho trascorso gli ultimi due anni nella cp a dire che c’era bisogno di un “mutamento nel cuore”, voi cosa ne pensate? Basta cambiare logo e luogo per essere diversi? Ho i miei dubbi.
2ter)non rischiamo di fare errori già commessi? Io non ho mai creduto alla teoria del chiodo scaccia chiodo e le modalità con cui questa nuova creatura sta nascendo mi sembrano da discutere e da analizzare in profondità. Tutta questa fretta ossessiva di dire “Ehi! Ci siamo! Non siamo spariti…” , ma perché? E a quale scopo, a quale scopo “comunitario”?L’esposizione è urtare contro un limite e toccarlo, l’esposizione è rischiare di ferirsi anche, di farsi male, non comunicare banalmente la propria presenza al mondo dell’Utile.
2quater) l’idea di attrarre altre esperienze quando ancora non abbiamo capito COME vogliamo essere noi è solo un modo per annacquare e allontanare la vera questione, una questione che da mesi ci stavamo e ci stiamo trascinando dietro.
3) ci sono fra noi persone che tanto hanno dato e fatto, persone che si sono spese davvero, franco prima di tutti, ma anche altri, coi loro modi e il loro modo di essere, il loro quodlibet. Non è molto corretto nei riguardi di tali amici ripartire senza un cambiamento sensibilmente reale e tangibile, a cominciare dalla modalità, dalla lingua, dai pensieri, dalle visioni e dai rapporti tra noi, senza avere la massima cura di una vera nuova considerazione, un modo nuovo di guardare l’altro da sé.
3bis) Fondare un “luogo” comunitario significa mutare prima di tutto se stessi, senza certezze, senza l’idea di essere migliori o di essere diversi a priori. Siamo disposti a partire dalle nostre singolarità, ad annullarle in un singolare senza identità? Altrimenti qual è la differenza? qual è la differenza tra i convegni fiume e le scampagnate e questo nuovo modello?
4) vogliamo essere una comunità o un posto come tanti altri? vogliamo essere persone che si incontrano occasionalmente o vogliamo fare parte di un’esperienza veramente innovativa? veramente “rivoluzionaria” e utopica? vogliamo essere folli o vogliamo semplicemente farci vedere, esporre le nostre mercanzie e farci dire quanto siamo bravi e quanto siamo buoni rispetto ai cattivi che stanno dall’altra parte?è questo quello che vogliamo o vogliamo provare a “volare”?
4bis) se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato. abbandoniamo i ben noti provincialismi che ci portano a dare più valore a chi è estraneo o nuovo e facciamo i conti con chi c’è, c’è stato e c’era già, poi apriamoci agli altri, ma non come si apre un supermercato, bensì come si può tenere aperta una porticina minuscola nella quale, per entrare, bisogna faticare e insistere
5) punto , forse, più importante di tutti: il problema non è l’essere ma il COME, il come essere. e su questo io non ho visto ancora nessuna vera apertura per un dibattito, a parte le considerazioni di Salvatore d’Angelo e alcuni contatti che ho avuto con Sergio Pagliarulo e Mauro Orlando, per uno scambio che faccia tremare sul serio le fondamenta di certezze stratificate dal tempo, dalle abitudini di ciascuno di noi e dalla vita.
spero di non avervi annoiati con le mie riflessioni e auguro a questa creatura una lunga vita e buona fortuna.
vi saluto e abbraccio con affetto chi sa abbracciare, chi sa avvertire la gioia e il dolore del Mondo, quello vero, quello con la EMME maiuscola…elda
Cara Elda ,per quanto tempo mi sono speso ed addolorato nel tentativo di “scavare nelle parole” incerca della luce,della fragranza,della musica,della voce di chi le scriveva per non far perdere il ricordo di sè.Le tue parole scritte mi hanno emozionato e sconvolto ma hanno dato senso ai miei dolori e alle mie gioie della nostra bella avventura comunitaria.Le tue parole ,credimi , hanno senso eccome almeno per me che mi hanno educato a imprigionarle nella logica e nel realismo più rigido.Comunque io ancora credo nella parola perchè credo negli altri non indiscriminatamente ora….e per ringraziarti voglio farti dono delle parole di una “donna” che ho molto amata e cercata che cantava il suo struggimento d’ amore con queste parole “….i vezzi di leggiadre corolle…./ e l’olio da re ,forte di fiori/ che la tua mano lisciava/ sulla lucida pelle;/ e i molti letti/ dove alle tenere fanciulle ioniche/ nasceva amore delle tua bellezza/ “. Leggere le tue parole mi hanno creato un tale disaggio e senso di inadeguatezza che per commentarle prendo in uso le parole di un commntatore delle poesia-canto di Saffo ” C’è una qualità sottile, una quasi struggente parentela tra tutti quelli che un istinto misterioso chiama avivere e ad esprimere la verità profonda del proprio essere: e che paradossalmente li guida, nello stesso istante in cui dedicano ogni forza acercare una comunicazione totale con gli altri, ad avvertire i limiti insuperabili che fanno inestricabile parte della loro impresa bella ed angosciosa.I poeti e il loro impegno di esistere:cercare di dire tutto e tutto il vero, e scoprirsi isolati in una sfera di indicibile – nonostante la sapienza del dire- esperienza interiore.Lei come struggente persistenza vitale, di carne di sangue. Accesa dal balenare delle dolcezze che erano, che fino alla fine continueranno ad essere, il tutto: il condiviso tutto che possiamo, al più e al massimo, avere su questa terra” (G. Mascioni ,Lo specchio greco, Mondadori) Sono parole che ho sentito mie e che sentivo ti riguardassero mentre leggevo il tuo scritto ed ho capito che non possiamo ulteriormente sprecarle in spazi comunicativi che non recuperino il senso , l’amore (koinonìa) per il bello che circolava come incenso nelle comunità dei “thiasi”e delle “eterie” della nostra civiltà ellenica……ma le più belle parole che ho letto in questi scambi epistolari sono: Elda ti vogliamo tanto bene e non farci mancare le tue parole e la tua persona..con un affetto immenso e inesprimibilemauro

venerdì 4 novembre 2011

Elisir d'amore per ......."Terracarne"

perchè amo "terracarne" ...viaggio onirico nella mia anima irpina......

.


Ottima idea da persegire e definire per i scritto.Ma io l’ho gia letto nei tuoi testi, nelle teu poesia ,nelle tue certoline.Certo è opportuno farne sintesi per i più distratti ,sordi,dubbiosi,inadeguati e …malevoli . La pesologia ha il vezzo di chiamrsi arresa,provvisoria ….ora appartata ma per pochi è un continuo pugno allo stomaco mentale e sentimentale.E ci sono ancora stomaci liberi e responsabili che non sono sedati dai vari “malox” della psicologia e intellettualità…..Io sto meditando il tuo ultimo e primo libro “terracarne” ed ho bisogno di tempo,di sedimantazione, di piacere cenetllinato della mente e del cuore.Le cose che ti cambiano in continuazione hanno bisogno di libertà e aria rarefatta….di monasteri immaginari e autogeni…… Alla paesologia non interessano i “non luoghi”degli spazi metropolitani privi di identità e di memoria ma soprattutto scarsi di relazioni. Dove vive una “collettività senza festa” e si soffre la “solitudine senza l’isolamento”. Si vive in un epoca del “tempo veloce, accelerato”.Il futuro è sempre più alle nostre spalle, in soggezione ad un presente che ci sommerge e ci virtualizza .E persino la storia è diventata un fatto mediatico.Il futuro non solo sembra senza senso e fine ma ci carica sopratutto di ‘paure’ e nel suo orizzonte esclude le categorie di ‘progetto’ e ‘speranza’.Paure economiche, sociali,ecologiche e perfino “metafisiche e religiose”.L’avvenire è rubato soprattutto ai più giovani. Una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica toglie potere e crea esclusione in quelli che non si ritrovano in questi poli. La rivoluzione informatica aiuta e favorisce i meglio tecnologizzati e i già informati o i ‘giàformati’.
.Il nostro “io” occidentale e moderno svuotato di senso è costretto a cimentarsi con i pieni dei poteri economici e culturali a cui ci eravamo abituati dall’Illuminismo in poi. C’è oggi la necessità di coltivare una ragione che si fa “luce” e si fà ‘compassionevole’ e ‘fraterna’ in un colloquio doloroso e difficile con le “ombre”, con l’assenza, col mistero, con il sacro, con gli esclusi , gli sconfitti con i luoghi abbandonati economicamente e terremotati interiormente o lontani dai centri decisionali dei poteri. Il suo compito precipuo e costruttivo è non solo capire e dare un nome alle cose e alle persone ma di suggerire altro.Creare aspettative e possibilità è già costruire presente e precostituire futuro. Ripropone una caratura politica molto complicata,complessa e sottile che va al di là del sociologismo astratto e il meridionalismo politologico e di maniera se pur nobile.E’ una richiesta di superamento ,filosofico direi, dell’Illuminismo non ideologico e dottrinale dove il rifiuto delle “magnifiche sorti e progressive”, delle utopie astratte e ideologiche e delle speranze universali e necessarie nel futuro ci impone una idea più che di recupero o di salvezza delle persone ,delle cose e della natura, di amore di esse ma non più per indicare il loro possibile futuro ma per la vivibilità del loro presente reale e per un rispetto per il passato che non passa e non ritorna nello stesso tempo. Punta soprattutto a far crescere una capacità personale di guardare e conoscere le cose e amarle disinteressatamente in sè stesse e per sé stesse. Una riproposizione esistenziale ,vitale e attiva della ’modernità’ non necessariamente contrapposta alla ‘antichità’ ma nella sua capacità intellettuale ed umana di vivere l’antico, il tradizionale, il periferico,l’emarginato, l’escluso,l’altro da sé insomma come un possibile “inizio”,curando una massima consonanza,intimità con i luoghi, le cose e le persone insieme orlando alla massima lontananza e alterità…………….e il viaggio continua………
mauro orlando

domenica 21 agosto 2011

Elisir d'amore per .......un nihilismo dolce ed attivo....

NIHILISMO.......




........Quale espressione di tentativi artistici,letterari e filosofici volti a sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze ,esso ha portato in superficie il malessere profondo che fende come una crepa l’autocomprensione del nostro tempo. “ il più inquietante tra tutti gli ospiti”




...................................................i "labirinti policromi" della mia nipotina Valentina

Odissea in fondo al pozzo
di franco arminio

Forse i paesi non c’entrano niente. Forse non ci sono mai stato, non andrò mai da nessuna parte veramente. Sento che il punto della testa che mi duole è il punto verso cui premo per uscire. Dalla bocca esce fiato, dal culo esce la merda. Quello che serve è bucare il cranio, uscire fuori da sé come un filo d’erba spunta dall’asfalto. Ho sempre vagheggiato di vivere con persone che non si accontentano della realtà, persone che pensano al mondo. Ieri ho scritto questi versi: Anche oggi niente felicità / e soffro perché non mi rassegno / alla realtà, sono continuamente / proteso a rovesciarla. / Invece il mondo mi va bene, / trovo che sia meraviglioso. / Niente da eccepire / a parte la regola troppo stretta / del nascere e morire.
Questa poesia oggi non mi serve a niente. Sento che la faccenda non è questa. È dentro la creatura che preme adesso sotto il lato sinistro del mio cranio. Non è questione di trovare le parole, è di trovare il buco, bucare l’osso e uscire, scappare fuori dalla vita e dunque anche fuori dalla morte. Scappare o non entrarvi mai. In ogni caso io adesso sono pura insofferenza per il fatto che non so godermi niente, a parte la mia insofferenza.
La paesologia non è una cosa che riguarda solo il fuori, la paesologia riguarda quello che sta sopra l’osso e quello che sta sotto. Io sono la punta di me stesso che scrive per bucare, per sporgersi altrove. La vita è essenzialmente una trivella. Vivere è provare a fare un foro. Provare a passare da un’altra parte perché in qualunque posto ci troviamo siamo sempre nel posto sbagliato, sia esso un paese o una città. E dobbiamo essere sempre disposti a buttare a mare il gingillo retorico con cui andiamo avanti. Può essere la rassegnazione o la lotta, può essere fare il bene o fare il male. Noi non siamo reperibili da nessuno e non siamo reperibili prima di tutto da noi stessi. I pensieri e le parole con cui arrediamo la nostra vita possono avere la massima precisione, comunque il bersaglio non viene mai centrato. Forse solo la morte coglie nel segno, nel senso che lo interrompe. Solo allora smettiamo di proliferare sogni e scuse, gesti di clemenza e di arroganza, allora siamo ridotti al niente che ci costituisce.
Quello che possiamo dire veramente è che siamo qua e che sembriamo essere qualcosa, appariamo a noi stessi e agli altri. La paesologia è fondata su un’inquietudine radicale, è un’Odissea in fondo al pozzo. Non vi riguarda, non mi riguarda veramente. Ed è questa la sua forza.


sabato 20 agosto 2011

Elisir d'amore per ......i parlamenti comunitari

" Ho scoperto che la terra è fragile,e il mare leggero: ho imparato che lingua e metafora non bastano più a dare luogo aun luogo" M. Darwish








di mauro orlando

parlamenti comunitari.....

Quante scene simili abbiamo vissuto in questi due anni: uomini e donne riuniti sotto un tiglio,tra i reperti di un castello restaurato, per le vie di borghi abbandonati, in luoghi solitari “musei dell’aria….della luce ,del silenzio e quant’altro,nelle abazie della sacralità e del buon recupero…. e qualcuno che racconta .Non si sa se sia una assemblea di un popolo , di una orda , di una tribu.Ma tutti ascoltano con silenzioso coinvolgimento il medesimo racconto e lo sentono e fanno proprio senza difficoltà.Non importa sapere se colui che racconta sia uno straniero o uno di loro ma si sentiva che è investito da un diritto-dovere di raccontare delle proprie radici,della propria terra , di sé stesso,del proprio pensiero ,lavoro,sentimento ….sogno anche per conto nostro. Non costituivano una comunità prima del racconto…. è la narrazione che li riunisce e li unisce.Prima erano separati da vite diverse, vocabolari diversi, diverse esperienze culturali professionali…questo il racconto talvolta narra e mette a confronto.Si stava seduti a fianco .si coopera vasi passeggiava assieme in silenzio,si mangiava assieme , ci si ‘annusava’ e si affrontava nelle discussioni senza la necessità di riconoscersi. Ma un giorno ,a caso un poeta….un pazzo,un sognatore pratico, un clown, un viaggiatore della malinconia e del silenzio o che so io ha incominciato a raccontarci un suo sogno di una terra comune e delle sue origini,dei suoi uomini e delle sue donne con intransigente amore ma anche rabbia. Facendo nomi e cognomi .Ci ha parlato dei loro difetti legati al riscatto attraverso il potere e delle loro semplici bellezze nei rapporti affettivi ed umani. E ci raccontava della sua esigenza di costituire assemblee o parlamenti comunitari o Comunità provvisorie e della necessita di nuovi racconti nel rispetto dei vecchi dei nuovi aggettivi da aggiungere a l sostantivo “Comunità”. Nessuno ha chiesto al narratore chi gli ha raccontato questo sogno e come e perchè egli ha il dono ,il diritto o il dovere di raccontarlo. Si sente in modo naturale ed immediato che la sua lingua e il suo racconto servono a metter insieme dei “diversi” e a fare di questo un racconto mai compiuto ma sempre da scrivere .Che la lingua non è dello scambio ma di un qualcosa di sacro e di una sorta di giuramento che si ripete nel tempo ogni qualvolta che uomini di diverse esperienze ma di comune sensibilità si ritrovano su un territorio o una ‘pòlis’ intorno a un fuoco acceso o una tavola imbandita , in un viaggio reale o immaginifico ad ascoltare mai appagati un poeta o un aedo che canta o racconta le gesta, i sentimenti, le idee, i sogni per costruire e pensare nuove esperienze che possono crescere senza la necessità di celebrare sacrifici a qualsivoglia autorità divina o umana. Il racconto spesso è crudele,spietato,a volte fa ridere o sorridere .Ognuno si sente coinvolto e sente che si parla anche di sé ,del suo passato ma soprattutto del possibile senso del proprio futuro immediato e prossimo.Sentiamo che le nostre credenze,le nostre poesie, i nostri sogni , i nostri saperi vengono da questo racconto che è ‘mito’,simbolo,invenzione, narrazione,trasmissione ……vita a patto che non ci faccia più vivere con lo sguardo rivolto al passato ma nemmeno a un futuro troppo lontano.Ad ascoltare e raccontare ci sono persone vecchie e nuove ma sempre gravide di sogni,speranze,utopie per le terre che abitano e amano.Oggi sentiamo che i nostri racconti si stavano ingrigendo non per mancanza di argomenti e differenze ma reclamando una loro praticabilità (i pragmata dei greci) , ma perché non si sentono sufficientemente coinvolti e ispirati dallo spirito dell “inizio” com’è nella natura degli uomini e delle cose di questo mondo.Sentiamo la necessità e l’urgenza di riaprire una fase costituente compassionevole e generosa per uno “stato nascente” in cui ognuno di noi si sente responsabilmente e liberamente coinvolto ,consapevole e geloso delle proprie idee ,aspettive ,sentimenti,passioni e progetti ma in un sentire plurale ma comune non con l e spalle rivolte al passato ma con gli occhi,le parole ,il cuore lanciato verso il futuro……