sabato 19 gennaio 2019


"……E subito riprendo
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare"

“Troppo da dire, e oggi non ne ho la forza….”. nell’aria  c’è il segno che la mia generazione  finisce. In questi ultimi tempi  avevo scelto di essere  “ un pensatore dell’avvenimento …non dell’attimo fuggente “. Una  differenza sempre nomade, anarchica e in eccesso, la folgorazione prodotta  da una parola, da due occhi di donna….una carezza non richiesta  e  ….si apriva la possibilità di un nuovo pensiero , una curiosità …un filo di nuove Arianne . Avevo maestri “genealogisti nietzschiano”…”adoratori heideggeriani”….”delusi   felici”.nelle  refrattarietà e diffidenze spesso mostrate dalla filosofia accademica, in particolare italiana, che invece di approfittare di quella “perversione del buon senso” inaugurata da “pensatori di riporto” che arrivavano dalla Francia :Deluze, Guattari, Foucault.... ha preferito in molti casi adoperarne la lezione come un quadro eccentrico e difficilmente sistemabile. I contributi disseminati e inaggirabili al pensiero di Spinoza, Leibniz, Kant, Nietzsche, Freud, Bergson, tra gli altri, corrispondono a una pratica da coltivare ancora con convinzione e generosità.Abbiamo con fatica trovato risposte sempre provvisorie  alle tante domande inevase  nei “labirinti illogici” del Novecento.Abbiamo scelto   non “la fuga e il suo elogio” dichiarandoci  “innocenti fino a prova contraria”  o  “i meno colpevoli” per il fatto di fare filosofia, come “vita activa” perché lo spazio frequentato è stato della massima ampiezza e occasione  di banalizzazione  e perdita. Dalla scienza al cinema e la letteratura, dalla psicoanalisi all’arte, la dirompenza  di un pensiero leggero …liquido  al massimo ci costringeva  a un ripensamento e a un’invenzione …per prova ed errori …di alcune categorie critiche con continui “ tagli” nella storia delle idee.Gli anni ’80  come residui ideologici dei “magnifici anni ‘70’ oltre la molteplicità sovversiva negli anni feroci e vitali dei movimenti, lo schizo e la macchina desiderante, e ancora il divenire stesso di «corpi senza organi», si puntellano di deterritorializzazioni e paradossi cercando  ossessivamente “una logica del senso”  come possibile risposta  allo scardinamento stesso della dialettica formale  e materiale  per assumere nuove coppie concettuali, radicali forme di rovesciamento simultaneo del senso comune. E restava sempre inevasa  la domanda “Che cos’è la filosofia?”  avendo anche esaurito la domanda “a cosa serve la filosofia ?”.  La filosofia  infatti  come “l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti”  non bastava neanche se  le risposte si limitassero ad accogliere la domanda; era necessario anche che essa stabilisse un’ora, un’occasione, le circostanze, i paesaggi e i personaggi, le condizioni e le incognite della questione”. Alla fine  risultava sempre  un po’ stravagante porsi un quesito simile dopo anni di pratica filosofica  e arrivare alla conclusione  che che questo “mestiere  del pensare” poteva essere utile  solo quando la vecchiaia dona non un’eterna giovinezza ma al contrario “una libertà sovrana”, quando cioè si manifesta lo stato di grazia tra la vita e la morte.E alla fine …stravaganza delle stravaganze …. Abbiamo cominciato anche il “gioco” del “penultimo”  per non affrontare  il gioco dell’ “ultimo”  reale  che ci incalzava con “i suoi occhi cattivi”  e non riuscivamo neanche  a  richiedere una “ultima partita a scacchi” nelle fredde notti nordiche  di Bergman  o delle “poesie sapienziali “  sugli “inizi”  troppo lontani nel tempo che si stava esaurendo . E allora accettare  la realtà  tragica  di Edipo a Colono  con lo stato d’animo dell’Épuisè-esausto  che non è la fuga,la rinuncia, l’ipostasi e quant’altro. Una postura  per “Il viaggio finale” non ultimo in cui tempo e spazio si creano, si contraggono e si erodono.Una stanchezza di vivere …in cui l’esausto non può più realizzare ma  possibilizzare. Non una nuova maschera  ma una figura dell’esausto come ulteriore trama, affettiva e di significati, per un protagonismo   con un’andatura simile a una minuziosa macchina desiderante  in cui “tutto si divide, ma in se stesso”.E’ nell’esausto, in questa forma in cui ad esaurirsi non sono solo le forze ma il possibile, che si attraversa la penultima sovversione, quella per cui le idee, le cose, le immagini, non smettono di estenuarsi. Per arrivare ai corpi, alla chiusura di ogni immaginazione del possibile che è la propria morte. Si è stati stanchi di qualcosa, oggi invece,  è il presente a raccontarci che si è esausti di niente. Come durante una notte insonne, quando “le due mani e la testa fanno un mucchietto” per dire che forse non va bene eppure si resta così, insopportabilmente seduti “a spiare il colpo che ci raddrizzerà per l’ultima volta e ci stenderà per sempre”….come un personaggio di Samuel Beckett nel “penultimo spettacolo” della propria vita  nel reale…..
mauro orlando


mercoledì 16 gennaio 2019


...è la democrazia, bellezza!
Democrazia è “nòmos” e "lògos"

 Nel gioco del “polemos”
“politeia” e “agon”
spesso "teknè"
con pensieri corti e freddi...
si intrufola furtiva...
trale  lacrime e sangue

Degli “arcana imperi”
nelle comunità ordinarie e provvisorie  
di persone ..soggetti..individui
che si ritrovan nel rito poetico 
"tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero"
comuni rustici

piccoli paesi  
e comunità provvisorie.....

dalla grande vita 
non distratte e in  altre faccende affaccendate
riescono per incanto o per magia
a contestare la rappresentanza sovrana

del Leviatano di terra e di mare
il nomos della terra 
ad uso ed abuso
dell’autorità… del comando  e del dominio
come legittimità sovrana 
delegata alla sottomissione di sudditi 
belanti e con  orecchie  incerate

contro sogni e utopie
delle sierene arcaiche
una libertà 
pattuita con criteri di comando e obbedienza
non discutibili statuti costituiti

... universali e necessari
in apriori formali

trascendentali 
in carte non ottriate...
a caso o per incuria
spesso con scelta subdola
si fa effettuale e machiavellica 
oligarchia..olocrazia  e plutocrazia
potere economico  del denaro ….

macroeconomico locale 
che “non olet”
e infine priapismo pornografico
e ….gerontocrazia
...potere dell'età...
….androcrazia...
..potere del sesso maschile
…..epistemocrazia.....
potere delle idee e della tecnica ....
.....teocrazia....
potere dell’ispirazione divina del Sinai

 o della tradizione religiosa….del Golgota
...perfino aristocrazia....
....potere dell’ottimo  sapere ,
...delle virtù umane e teologali 
e della custodia della tradizione della comunità....

nel “mito-rito-logo”
perfino etnocrazia
potere di un popolo eletto...

da un Dio che non parla 
o di una razza pura...

di un apriori pratico  kantiano 
ogni tanto si fa .....democrazia
potere del popolo sovrano
libero e consapevole...

degenerazione  populissta  e sovranista
in barba al “popolosovrano”
mondialista e locale
guidate sul cavallo
delle nuove elites asinine
mosche cocchiere inconsapevoli e cretine
che confondono il dito con la luna….


martedì 15 gennaio 2019

Ogni tanto dobbiamo educare l'occhio al "bello" ...un corpo di donna è il "bello" che inganna, seduce, attira, repulsa o piuttosto è qualche cos’altro? Magari qualcosa che un tempo illuminava le nostre vite e oggi invece le oscura, le copre, le vela.
Mi viene agli occhi questa immagine perfetta nella luce e le ombre che mi ha fulminato in una ora di "arte" con un bravo insegnante un pò imbarazzato per mostrare "un nudo" in un liceo classico "somasco".per adoloscenti "cattolici tridentini ". Da allora è l’eco ricorrente del sonno appena interrotto: un corvo nero che galleggia sopra il ghiaccio,bianco...lucente ... in attesa di spiccare il volo. Non è morto, ma neppure vola via. Se ne sta lì, in mezzo al freddo oceano, mi guarda con occhi
non cattivi ,come se non volesse più volare ma nello stesso tempo non potesse nemmeno annegare in un oceano infinito solido . È il mio sistema onirico.che riempie le mie notti è vivo e... vitale. Non posso permettermi di dare a quest’immagine una soluzione poetica, simbolizzandola in un linguaggio letterario e pietrificandola negli archivi della bellezza parlato, raccontata ...cantata forse.
Il corvo nero fermo nel ghiaccio bianco luminoso non è una visione poetica e neanche il simbolo di inibite emozioni sessuali ,furiose, dolci ...adolescenziali: ma nutre il pensiero poetico in lotta con il pensiero poetante o con la bianca colomba delle religioni dissacrate e apocalittiche . Il corvo nell’oceano ghiacciato indica la strada: non volare e non morire, non perdersi negli spazi e non soffocare nell’acqua....solida .Stare in una via mediana – dormire ma non chiudere gli occhi –, dormire solo quel tanto che serve per passare i giorni da sveglio.E allora oggi cerco in me "il fanciullino - poeta" che si emozioni al "suono delle campane di Barca" o nel ricordo dolce di quel primo bacio , vorrebbe dimenticare la funzione-sonno e vivere la vita nella "forma o evento " del bello nella "lingua" del dio dell'ebbrezza calda Dioniso e dell'ordine freddo Apollo..

lunedì 14 gennaio 2019



                                   ..........il silenzio

Il termine postmoderno è stato  superato dai tempi. Zygmunt Bauman parla di «società liquida», considerando il prefisso «post» come una negazione, un’opposizione,invece che una continuità .Non  condivido l’idea di società liquida, perché si tratta di un’immagine metaforica, non sostanziale. Tuttavia preferisco parlare di postmodernità, dato che l’epoca moderna è finita. A ben vedere, la parola “epoca” significa in greco "parentesi", qualcosa che è destinato a finire. Le grandi categorie elaborate dalla modernità nei tre secoli precedenti: progressismo, razionalismo, individualismo sono di fatto superate e quindi  inutiulizzabili.Chi insiste e persiste  lo fa con un’ambiguità di fondo:non vogliuono fare i conti conti col al modernità…in fondo  ne sono affascinati e la  vogliono salvare anche senza  difenderla, inserendola in diverse locuzioni che tradiscono questa volontà: ipermodernità, seconda modernità, modernità tardiva o liquida. Invece parliamo di un’altra epoca, per questo  è “post”.È comunque  difficile liberarsi di una definizione che ha avuto”grande fortuna”.Già  Baudelaire ha usato il termine modernità ma solo nel 1848, prima di allora si parlava di post-medievalità. Fra cento anni si deciderà come chiamare il presente, ma per il momento mi sembra giusto definirlo post, qualcosa che viene dopo la modernità.Nei momenti di difficoltà la realtà  che chiamiamo “tramonto” ,”crisi” diviene sfuggente per  il coro dei ben pensanti districarsi  nella complessità del sociale accettando l’uso improprio  e facile  degli “universali “  astratti e razionali o dei kantiani apriori o trascendentali. Oggi la strada non solo psicologica ma epistemologica  ci obbliga    riconciliarsi  con “la tabula rasa cognitiva”  e con “il silenzio” abbandonato alla curiosità e  al mistero. Le parole della filosofia e della scienza  non sono in grado di cogliere il reale, perché esso è fatto della potenza dei sogni, di fantasmagorie, di fantasie. Il reale è sfuggente, ineffabile e giunge a conoscibilità solamente quando prende corpo negli oggetti del quotidiano, nel "divino sociale" o nella “aletheia-verità” nascoste e da svelare . Ma  tentare  di comprendere il ritorno del "sacrale" attraverso l’analisi razionale o logica non basta  a soddisfare  il bisogno collettivo di una comunione emozionale, di una  condivisione e di un riconsoscimento e  scomparsa nell'  “altro”: l'altro della comunità, del cosmo, della deità.Il “ silenzio” , come scelta consapevole  e libera  e non come imposizione ,favorisce la rinascita della dimensione spirituale che una “certa modernità” ha soffocato sotto la spinta del razionalismo della “res cogitans”  piuttosto che “la raison du coeur “ pascaliana .Noi viviamo “le rovine della modernità” con l’occhio archeologico e politico che guarda alle vie d’uscite  e al  futuro possibile e effettuale . I segni di questo passaggio d’epoca non sono evidenti, chiari e certi . E il “conune”,il “sacro”, “il “sentimento”, l”emozione e passione “non meccanicamente sostituiranno l’individuo prometeico, materialista e razionale.”Dopo il rumore e la furia caratteristici dell’epoca moderna, in quella che chiamo la società ufficiosa traspare un desiderio crescente per il silenzio. Esso è il veicolo per tornare ai principi fondamentali di esistenza” Maffessoli.Il postmoderno  a questo punto è la disponibilità a superare  la visione monolitica e solida di un  materialismo ideologico  e antiumanistico che ripropone  il potere dello spirito contro l’economicismo dominante. E la ricerca e un inizio di “silenzio” potrà essere un tratto non definitivo della nuova epoca. “Questa tendenza la ritroviamo in molte pratiche giovanili oggi sempre più diffuse come il ritiro, i pellegrinaggi di vario genere, la preferenza per letture religiose e filosofiche” Maffessoli.Il “mondo nuovo” è stato l’epoca della velocità, frenesia, delle macchine che coprivano di rumori i momenti del raccoglimento e del silenzio.Il silenzio si libera dalle catene  della sua “emarginazione” che Max Weber aveva considerato come momento di “razionalizzazione generalizzata dell’esistenza” come “disincanti del mondo”.La realtà sottomessa alla ragione e  ogni cosa doveva dare la propria ragione d’essere. Insomma tutto poteva essere detto e niente doveva restare immerso nel mistero non come forza innegabile di conoscenze autentiche . Dopo l’abbuffata  razionalista in agenda resta la voglia e il senso  di cogliere il reale nella sua interezza e la lingua primaditutto  esige ripensare attraverso la lingua della poesia  ad una realtà rachitica e superficiale promossa dall’economia,dalla tecnica ,  dalla politica, dal sociale. La ricerca e l’esigenza dell Essere  della filosofia  crea equivoci e fughe verso nuove metafisiche  come scienza.Ricominciamo  a sostituire nei nostri stili di pensare, sentire e vivere questa realtà impoverita con un “reale” gravido di miti, di simboli e degli aspetti misteriosi ed emotivi dell’esistenza umana.Nel nostro reale vitale, esistenziale ed attivo bisogna ritrovare primaditutto  le parole che conducono alla parola fondatrice, che nella tradizione è il “logos-verbum” nella sua dimensione ricca e dinamica di “potenza e evento” che non si fanno necessariamente “ atto, forma ”.Ogni occasione di ritrovarsi in “comunità provvisorie” pone il problema organizzativo  che promuove “ liturgia, ruoli e gerarchie”come  importanza del rituale che non ha bisogno necessariamente di essere compreso e ipostatizzato  ma vissuto come esperienza  di “cura di sé e degli altri”. Una nuova e rinnovata “ritualità” come una sorta di drammaturgia dei corpi individuali che sentono la necessità entropica e koinonica di sentirsi  incastonati nel corpo collettivo non in modo definito e solido.E questo senso che la parola “liturgia”,  torna al suo senso non solo etimologico ma naturale  di “azione del popolo” , che la teologia delle origini  chiama corpo mistico…nel senso di “sacro”  non solo come prfigurazione della “fine dei tempi” ma  ma del “profondo auitentico dei tempi” come “l’aura” nella poesia.L’armonia tra  silenzio,mistero,sacro nella esperienza comunitaria  comunitario è un legame fondante e non separazione autistica individuale ecoreale .Il mito, il mistero, il sacro  è ciò che unisce tra loro ogni esperienza  di “iniziati”  che tendono alla comunità e al cenobio .In queste esperienze  non è necessario che l’unione, la koinonia, l’armonia , l’empatia, la comunione  si esprima con le parole anche poetiche e percettive , ma con un vissuto condiviso anche provvisoriamente . Il silenzio è uno degli elementi strutturanti l’amore e dunque anche il legame comunitario.”C’è comunione a partire da ciò che non si dice ma che si vive insieme- scrive Maffessoli- La tradizione monastica ne è un esempio” . E’ proprio dell’Ordo amoris  medioevale che bisogna ripartire per ricreare  stati cominitari  nel postmoderno che ci piace. Il nostro desiderio anche smodato di sentirci legati agli altri nel senso che assume l’origine di ogni religione come esigenza  di legare e legarsi agli altri in una provvisoria continuità che non necessariamente  si dà forma, statuto, regole e organizzazione  fissa.Con la fine del moderno il legame con gli altri diventa costitutivo della persona che prenderà il posto dell’individuo moderno proprietario e autistico.Viviamo non più le grandi utopie del 900 finite nei “totalitarismi politici” avendo abbandonato la “visionarietà dei sogni” oggi non ci resta  che ripartire dai margini, dagli abbandoni, dalle crepe, dalle frane  del moderno per superare l’allontanamento dal futuro e un vissuto tutto incenttrato in un presente senza prospettive o vie di fuga o di uscite certe.Siamo costretti a vivere le “ varie ed eventuali “utopie interstiziali” che non riguardano il tempo lontano,desiderato o pensato, ma se consumano , bene o male , nel presente politico, artistico, musicale, sportivo ,religioso.Il futuro è diventato così incerto e deviante  che conviene neanche pensarlo ma dimenticarlo.Ogni  epoca, come anche la nostra, deve compiere il suo ciclo , e noi dobbiamo viverla in modo attivo e consapevole nelle sue pause e nei suoi silenzi  più che nelle babele delle sue parole.Non rispondiamo alle parole rumorose e i pensieri corti di Salvini, di Maio o Trump e sovrapporre le nostre alle loro voci inautentiche.Mi chiedo spesso come esercizio consolatorio come chiameremo anche noi , trascorso il tempo della nostra scelta di  silenzio paesologico , il tempo successivo a questo attuale. In fondo Baudelaire aveva, nel 1848, inaugurato la modernità da cui si attendevano grandi prodigi e l’alba di una nuova civiltà. Noi la nostra l’abbiamo bruciata in meno di un secolo e mezzo!Il silenzio- quelle che non siamo e non vogliamo-  permette di non pronunciare azzardi che possono compromettere la realtà concreta e la nostra effettiva vita personale e comunitaria nel suo svolgersi . Le parole invece sanno essere violente e creare relazioni tutt’altro che pacifiche.E noi per cautelarci e darci un senso abbiamo privilegiato le parole della “poesia” anche rispetto alla “filosofia” e alla “teologia” politiche. Viviamo il concreto presente come “sognatori pratici” ma  in una dimensione guardinga,dubbiosa e sospettosa  privilegiando gli aspetti emozionali anzichè razionali.
Forse questo ci permetterà di ritrovare lo spazio del “sacro” in una vita  che non vuole  essere mistica o ascetica  ma attiva e sacra però al di fuori dalle chiese e dai precetti, che ci aiuti a reinterpretare i rapporti umani ed a ritrovare la nostra perduta sensibilità solidale.
di mauro orlando

sabato 12 gennaio 2019

     Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro”.Franco Arminio,appunti di “paesologia”
 La questione di base è come abitare la terra. E l’analisi del “come”, della “terra” e delle “abitare” è quanto c’è di più interessante e impegnarsi  in un  lavoro anche teorico o filosofico oltre che un approccio esistenziale o politico .. La radice di abitare è quella del verbo avere. Avere la terra. Possedere la terra. Dominare la terra. Padroneggiare la terra. Controllare la terra. Tenere la terra. Prendere la terra. Occupare la terra. Appropriarsi della terra. Ognuno s’accorge di questo. Di fatto bisogna riconoscere che  l’ordine sociale espelle la natura in cui esso originariamente si è costituito. Il  trionfo dell’artificio e della tecnica può coincidere con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata sugli enti intramondani,uomini,natura e cose?  La filosofia e il pensiero umano o la politica come agire umano   hanno ancora il compito precipuo  di  espandersi nel tempo e nello spazio che agiscono sulla terra? La contemporaneità con gli inevitabili strascici del moderno e la tirannia del postmoderno tecnologico con gli echi mai sopiti del classico ci impone  un orizzonte del pensiero,dove gli strumenti della ragione sono coniugati assieme quelli della passione. Perchè come ricorda la poetessa Marina Cveteva, “ Il pensiero è una freccia. Il sentimento –un cerchio”. Queste solo alcune delle domande che l’importante primo incontro sulla “paesologia” che si terrà il 9 gennaio per l’intera giornata nel Castello d’Aquino di Grottaminarda organizzato dalla “Comunità provvisoria”.Una idea e non solo nata dalle intuizioni , dagli scritti e dagli impegni del poeta Franco Arminio  per poterci predisporre a vivere e pensare  una esperienza originale e autentica di irpini stanziali e della diaspora nel nostro possibile rapporto con il nostro territorio  e non solo. Un percorso rivolto alle  persone  disponibili  a giocare la loro personale vita  mentale e concreta  nella possibile declinazione di due categorie apparentemente contrastanti ,locale e globale che tanto ci inquietano e ci disorientano. Ognuno di noi partendo dal proprio sapere e dalle proprie competenze ha l’obbligo intellettuale  di  delineare non solo la grammatica e il lessico rinnovato per una possibile nuova esperienza culturale ma assieme sentire la necessità  di ristabilire un rapporto di tipo nuovo con una realtà meridionale sociologicamente e psicologicamente immutata in un contesto di modernizzazione “con sviluppo e senza progresso” e una mondializzazione  non solo economica ma soprattutto antropologica. La “paesologia” come intuizione da definire e sviluppare potrebbe essere uno strumento conoscitivo originale e nuovo. Una persona che ha intenzione di continuare a vivere e pensare un  territorio del sud ha la necessità  di rivendicare alla base  della sua ricerca di funzionalità intellettuale e esistenziale   non solo retaggi e ricchezze  culturali pregresse in modo  consolatorio o di orgoglio identitario.Oggi bisogna rivendicare  la categoria della “marginalità” e “fragilità”come capacità e possibilità  di autenticità e originalità  di stare e vivere contemporaneamente  il mondo  nel suo piccolo e nel suo grande. Si può vivere non con il vecchio schema della schizofrenia o delle “lamentationes” una bella esperienza emotiva e culturale a Castelbaronia e il giorno dopo visitare  una importante mostra alla Tate Gallery di Londra e una settimana dopo partecipare ad un convegno a Bombay sulle nuove tecnologie informatiche e il futuro delle economia mondiale e non solo in internet .Lo spazio concettuale libero e liquido tra centro-margine-periferia si è aperto incondizionatamente e  ci permette di verificare nei fatti e non solo nella volontà le idee ma soprattutto la nostra disponibilità e capacità di  attivare volontà e strumenti per condividere “comunitariamente” anche le nostre individuali solitudini, introversioni, umori caldi e freddi, inquietudini e sogni .Non  in una sorta di sopravvalutazione con  ‘sovrappesi’ culturali e professionali di sé stessi che ci costringe a costruire muri e barriere intolleranti  non solo psicologiche  per rifiutare  o accettare gli ‘altri’. Sapendo che stare insieme può essere anche una sofferenza ,un esercizio faticoso di ridurre frammentazioni e chiusure e alleggerire  pesantezze conoscitive e rigidità dottrinarie .Per iniziare questo nuovo viaggio di prospettiva necessita anche un viaggio nelle nostre storie mentali  costruite su un eccesso di sviluppo accumulativi di saperi e un eccesso di  ‘criticismo’ sedimentato o ossifificato nelle nostre diaspore  migratorie. “Siamo emigrati male  e spesso ritorniamo peggio”. Ci siamo costruiti intellettualmente e professionalmente  con una idea di acculturazione e sapere  come possibile strumento per acquisire potere   e riscatto  su un diffidenza  e non fiducia verso gli altri in termini sociali e politico. Cultura e sapere non è acquisire potere  ma proprio una possibile  possibilità  di depotenziamento del potere e del sapere stesso. Con una tale idea  di acquisizione di conoscenze,abilità, sapere  come strumento di possibili poteri  e riscatti anche la categoria  economica e sociale di ‘disoccupazione’ nei piccoli e grandi paesi dei  “sud e del nord “ del mondo può acquisire slancio progressivo e ideativo e riscatto individuale nella propria  vita  mentale e politica  nei luoghi che ci è dato vivere hic et nunc. Dato per acquisito che la  politica politicista oggi  non più produttrice di “ragionamenti” o di ceto politico riscattato socialmente ,va dunque sempre  sospettata e criticata nella sua rigidità e illiberalità  costitutiva e istituzionale. Ma soprattutto  perché per la nostra prospettiva “progettuale” ,educa a coltivare pensieri corti e relazioni corte. Abbiamo la necessità per motivi conoscitivi, esistenziali e politici di  ricostruire una “società civile” di nuovo conio e funzione non seguendo i canoni e le categorie politologiche  classiche e moderne  che la mettono necessariamente e unicamente in una sorta di separatezza e superiorità solo  concettuale con la “società politica”. La differenza tra società civile e società politica è che una obbliga a pensieri lunghi e di prospettiva  la seconda educa a pensieri corti  e regressivi ingessati nelle istituzioni. Noi abbiamo bisogno di  mettere in campo con modestia e presunzione “pensieri e relazioni lunghe sapendo però che vivere insieme agli altri e confrontarsi non è mai stato perfetto,idilliaco,edenico. Bisogna diffidare chi ci ripropone “paradisi perduti” e chi ci lusinga con utopie di comunità utopiche e mitiche. Bisogna accettare le complessità e difficoltà nei possibili spazi di amori ,di sogni, di odi,di controversie, di rancori, di rimorsi   , sempre disposti  al rischio ma  con “gesti eroici”ed autentici anche di intelligenze confuse ,provvisorie o smarrite mai  dogmatiche e prescrittive.  Massima vitalità anche in possibili massime disperazioni.
Mauro Orlando

Non sono un filosofo, non sono uno che produce concetti. Non sono un politico, uno che dovrebbe risolvere problemi. Sono uno che scrive, produco visioni senza l’obbligo che siano coerenti, senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana. Sono costantemente sospeso tra ritiri autistici e slanci comunitari. E forse proietto questa mia condizione anche sui luoghi che vado a vedere o a filmare nel mio lavoro che definisco di paesologo. La mia terra è una terracarne che mi appare a volte come segno del pericolo e altre volte come segno dell’opportunità. In certi giorni sento che in qualche modo forse stiamo già guarendo, che il mondo è bene accordato e che qui forse la vita ha ancora un senso proprio perché persiste nostro malgrado una trama comunitaria. Basta un soffio e mi ritrovo in un’altra percezione. Mi pare che anche qui l’autismo corale abbiamo steso i suoi teloni, sia la serra in cui stiamo appesi a maturare le nostre indifferenze, la nostra mancanza di compassione. 
Sono nato nel 1960. Ho vissuto dentro la comunità del paese e dentro la comunità dell’osteria di famiglia. Quella casa era un luogo del paese, ma allo stesso tempo un luogo dell’altrove. Mi sono fatto l’idea che oggi nei luoghi in cui vivo sia accaduta una cosa molto complicata da spiegare. Mi pare che comunità e autismo corale stiano qui in  una forma rassegnata di infelice compresenza. Sono, come il nastro di Moebius, facce in cui non è dato distinguere l’interno e l’esterno.
Non mi fido delle astrazioni e non mi fido delle scienze umane in generale, per il semplice fatto che sono appunto umane e mi pare che risentano dello sfinimento morale e cognitivo della creatura che le ha prodotte. E allora invoco altre posture, invoco un sentimento del mondo che parta da riflessi più semplici. Per me la scrittura è un riflesso semplice, è un esercizio percettivo in cui la vecchia cassa con gli attrezzi servita fin qui per indagare il mondo mi pare piuttosto inutile. Abbiamo un martello che non batte, una pinza che non stringe, un giravite che non avvita niente. 
A me pare che il discorso sull’esistenza o meno della comunità sia inficiato dal fatto che alla fine noi pensiamo sempre a un individuo con uno statuto forte, un muro di cemento che guarda il mondo come una grande palla di cemento. Con questa ottica nessuna comunità tiene, anzi lo stare insieme, la comunità diventano l’autostrada per arrivare in modo più diretto all’autismo corale. Il rischio drammatico che corriamo, che forse abbiamo già corso è quello che un volto di una donna, un albero, un telefonino, ormai siano sullo stesso piano, appartengano allo stesso ordine di cose e possano farci compagnia o darci solitudine, possano darci perplessità più che certezze.
Ma il problema non è il nostro singolo cuore e la costruzione di un cuore comune, è la capacità di accettarci come creature sgretolate in un mondo che si sgretola. La nostra esperienza delle cose consiste nel loro perenne svenimento. Nel primo bacio sentiamo l’ultimo. Nella parola che diciamo sentiamo l’agguato di altre parole che diremo o che diranno altri. Non c’è tempo, non c’è salvezza se non accettiamo questa nostra radicale disappartenenza. Siamo estranei alla comunità paesi, ma siamo in qualche modo estranei anche alla comunità di organi che costituisce il nostro corpo. Il cuore e la mente si parlano, il fegato e lo stomaco si parlano, ma noi dove siamo, dov’è questa fantomatica creatura che chiamiamo io? Dovremmo essere capaci di accettare questa nostra radicale contumacia, questa impossibilità di incontrare noi stessi. Soltanto possiamo disporci verso l’esterno, come un lenzuolo al vento. È necessario depensare se stessi e il mondo, è necessario in qualche modo depennarsi dal mondo, dimettersi dal commercio quotidiano in cui il nostro io ogni giorno firma assegni in bianco che non può onorare. La comunità, la vera comunità è possibile solo nella morte. Lì si è in un regno senza soprusi, dove nessuno ruba il fiato ad altri. In attesa di accedere a quella comunità perfetta e se non vogliamo marcire nell’inferno dell’autismo corale, dobbiamo disporci ad accogliere forme di comunità provvisorie. 
Questo punto morto della postmodernità forse richiede di affidarsi a  comunità provvisorie per sfuggire ai pericoli dell’autismo corale o a nostalgie regressive di comunità basate su ripiegamenti localistici. Per comunità provvisorie intendo la costruzione di luoghi, reali più che virtuali, in cui le persone si incontrano esponendosi agli altri generosamente e cercando di fare delle cose insieme agli altri, azioni che possono essere di svago o di contestazione, di riflessione intellettuale o di produzione artistica, ma sempre con l’intenzione di tenere vivo un intreccio di umori e di gesti in cui sia riconoscibile allo stesso tempo la matrice individuale e la tensione corale. È  inutile arroventarsi, aggrovigliarsi. Bisogna distendersi, arrendersi al tempo che passa. 
La vita dell’individuo in lotta con tutti gli altri non ha senso, ma non ha senso neppure la vita dell’individuo inquadrato rigidamente nel corpo sociale. È un tempo che ci offre la possibilità di oscillare, di muoversi in diverse direzioni, non per predare il mondo un po’ qui un po’ là, ma per cercare nuovi  modi di sentire
Le comunità provvisorie sono necessariamente pionieristiche e rivoluzionarie, non hanno un modello di società da raggiungere, né un ideale di uomo da compiere. Anzi, si parte proprio dal ridimensionare il ruolo dell’umano nel mondo, dal considerarci non la specie intorno a cui tutto ruota, ma una specie un po’ goffa che ha riempito il pianeta coi suoi figli e con le sue merci ed ora sente il petto oppresso da tanto peso. 
Le comunità provvisorie non vanno al mercato delle idee e delle opinioni e si abbigliano delle vesti più consone al contingente. Si preferisce l’inattualità, si preferisce il margine non battuto, il luogo non illuminato. Si abitano gli spigoli più che il centro, si sta nei territori che fanno resistenza all’omologazione produttivistica, nei paesaggi che segnalano il ritiro dell’umano piuttosto che il suo trionfo. La comunità che ci viene da un muro, da una busta che oscilla al vento, da una macchina parcheggiata, da un cane a cui diamo un pezzo del nostro panino, dal vecchio che ci guarda sulla panchina vicina alla nostra. Quello che propongo è semplicemente l’idea di congedarci dalla comunità fatta di umani, cioè di un insieme di io, ma di considerare una nuova alleanza tra noi e le cose che produciamo e la natura che ci accoglie. Bisogna prendere atto dell’inutilità di sé non in un’ottica nichilista e distruttiva, ma al contrario, considerando questo l’unico modo possibile per stare nel mondo, in tutto il mondo, nei suoi atomi, nelle sue parti.
La soggettività è il risultato di un processo di produzione che serve a controllare l’uomo, a tenerlo a bada, a dargli, dosando bene, paura e diffidenza verso l’esterno, che non è l’altro uomo, ma l’altro in generale.
La comunità non è mai esistita davvero, perché, quando c’era, era comunque escludente e esclusiva, la donne ne erano escluse, ne erano esclusi i cani, i bambini.
La comunità non è ancora nata. Tutta la storia dell’uomo è stato un processo di immunizzazione che ha portato a quello che adesso possiamo chiamare autismo corale. Un processo che ci dà la sensazione che non ce la facciamo a tenerci insieme vivamente e mitemente. Viviamo un’agonia ciarliera, dove le parole non si capisce se sono un tentativo di guarigione o un ulteriore approfondimento dell’agonia. Ed è piuttosto penosa la sensazione che la guarigione e l’aggravamento della malattia sembrano intercambiabili, come se ci trovassimo di fronte a una biforcazione formale, come se la sostanza fosse perduta, volatilizzata. Parlo della sostanza della nostra vita. In questo senso più che di fine della storia si deve parlare di fine di una certa idea di umanità e suo avvicendamento con una moltitudine di esseri viventi (o più precisamente esseri esigenti). 
Adesso il principio non è la speranza né la disperazione, il principio è un vago sfinimento, una sommatoria di destinazioni senza destino. Lo sfinimento non riguarda le nostre speculazioni teoriche, non arriva al culmine dell’esperienza religiosa, filosofica o letteraria, arriva ogni tanto, quasi casualmente, quasi distrattamente, mentre parliamo al telefono, mentre camminiamo per strada, mentre ancora proviamo a innamorarci o a combattere. Arriva e ci porta via senza curarsi della nostra noia, della nostra gioia
Le altre nazioni hanno il Mediterraneo sull’orlo. Noi ci stiamo in mezzo, solo noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale che è il nostro Appennino. Da qui può partire un nuovo modo di vivere i luoghi, radicalmente ecologico, improntato a un’idea di comunità inclusiva del respiro degli uomini e dell’ambiente. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne. La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma.

Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui.

Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura."



venerdì 4 gennaio 2019

https://www.facebook.com/nywolforg/videos/755043238183526/?t=12

giovedì 3 gennaio 2019

Le lingue sono anime senza confini e senza delimitazioni, sono riflessi dell'infinito. Sopravvivono quando tutti quelli che l’hanno parlata sono morti, sopravvivono scritte. Ma a volte, come capita  all'aborigeno nel film “Dove sognano le formiche verdi” che rimane l’unico che parla la sua lingua – e dunque pur parlando, di fatto è muto. Una lingua esiste se esiste un popolo che la parla. Esiste nel dialogo. La lingua italiana, poi, ha una storia a parte, tra le tante:  è stata praticamente inventata dai poeti (dai chierici e dai notai, ma tutti erano anche poeti).
Ma i poeti hanno un difetto: parlano dando voce all’Io. Ed è rimasta, la lingua, una faccenda di pochi, ma quei pochi nella lingua della poesia hanno trovato sempre una seconda patria e chiunque la praticasse era accolto, perché la lingua non ha confini.


Nella lingua della poesia troviamo una seconda patria
 “non siamo più in società”. . Che siamo? Monade, sciame. Se la lingua italiana come s’è composta nei secoli, nei libri per lo più, era un fuoco, era però una lingua artificiale e seppure risciacquata (da un milanese nelle acque di fiorentine, ma sempre artificiale era) fatta ad arte dalla nostra grande arte, da Dante a Manzoni a Gadda – e giù per i rami. E s’era un foco, le scintille perse di un fuoco estinto è inutile rincorrerle, se non per il naufragio dolce di un endecasillabo o nel canto d’osteria –  sia inteso: essendo questi due, altissimi patrimoni dell’umanità italiana.

Quel che dobbiamo riconquistare invece è la fatica della “fàtica”  ovvero ciò che ognuno  fa quando non è scrivente, quando non è ufficialmente poeta ma lo è davvero, mettere le basi della lingua ovvero rifare società, comunità seppure inconfessabile, quella istintiva del movimento di massa o quello a due dell’amore: in ogni caso, agire, costruire, incontrare, dialogare, mettere assieme persone, a volte in un coro, alcolico quanto basta. Prima delle parole dell’amore – per quelle ci hanno pensato in nove secoli i poeti, e dell’amore non sappiamo nulla) ci serve,  ”la lingua di chi trema per amore”, e dove rintracciarla è difficile saperlo. Non in Tv, non sulla Rete, non nei fluenti social, che nella “elle” che chiude la parola, in questa consonante alveolare, è la lingua che blocca il fono a dire che da lì esce ben poco.
Invece la lingua vera , alla fine, sta sempre nello stesso posto, sulle labbra, dove nasce la langue e la parole di chi trema per amore: sono i suoi sospiri; pneuma, parola antichissima che sta appunto per respiro, il soffio, che ha ben altra apertura che i social, perché nella “effe” invece vola via, va in faccia all’altro, anche quando l’altro è un muro, un muto – e lo sgretola, dicendo, nel finale di soffio, la vocale del richiamo, col fono, lo chiama a due: “o”. Vocale fàtica. Fatidica. Che precede la nascita della lingua, la cui prima parola fondante è: “tu”.

mercoledì 2 gennaio 2019




LETTERA AGLI STRONZI

Cari stronzi,
siete tanti e questo vi dà coraggio.
Girate col cartellino in tasca:
ammonire è il vostro passatempo.
Non avete faccende importanti
nella vostra vita,
date la caccia alle miserie degli altri
per dimenticare le vostre.
Io vi riconosco appena aprite la bocca,
vi sento anche quando non vi vedo,
siete registi falliti, creativi che non hanno mai creato niente, poeti
della cenere, fotografi dello sbadiglio,
militanti della purezza immaginaria.
Il vostro tempo è scaduto,
la fiamma della vostra candela
si allunga perché è alla fine.
Sta per venire il tempo dei silenziosi
dei gentili. Il rancore è un ferro vecchio,
Dio è tornato a farci compagnia,
e noi porteremo sulla punta delle dita
il suo chiarore.



Proprio l’esperienza  paesologica  più che  a una possibile e veritiera ermeneutica  mi ha fatto capire quanto sono differenti i due mondi che la hanno  determinata e la condizionata.Faccio riferimento comunque a  quello della cultura tout court  e quello della politica. In altri ambiti più strettamente teoretici  è necessario riconoscere  che  hanno bisogno l’uno dell’altro anche se  operano secondo logiche non sovrapponibili se non in minima parte. Il recupero di un certo “preconcetto o sospetto ” platonico verso la poesia e soprattutto “il linguaggio poetico” come strumento di racconto e analisi della realtà concreta e effettuale in alternativa della “sophia” e della “politeia” è avvenuto proprio nei confronti e dialoghi vissuti  nei “parlamenti comunitari” se pur provvisori e mai prescrittivi. Questa comprensione, accettazione e piacere  è stata un’opera di disincanto che mi ha arricchito non solo a livello personale  ma soprattutto nell’esercizio comunitario della condivisione e il riconoscimento dell’altro da sé . Ne esco più lucido emotivamente  e consapevole anche scientificamente. Oggi ,ad esempio,  sono persuaso  che la lingua della “poiesis” e la lingua di “sophia” non sono di “sorelle nemiche “ ma di “sorelle diverse” e possono incontrarsi  nella “vita activa” , non solo  per comprendersi  ma soprattutto per aprire un dialogo  e una azione comune  nella realtà effettuale materiale e spirituale. I linguaggi diventano “il lievito magro” di qualsiasi esperienza comunitaria che  in genere  nel “sapere” tradizionale divergono condizionando  anche le finalità degli attori. Il “philosofos”  teoretico vuole arrivare alla radicalità e alla nettezza dei concetti, delle opinioni e delle idee e dei loro movimenti, mentre quello “politikes”  smussa gli angoli ,i conflitti e le asperità perché il linguaggio gli serve per operare, per cercare consenso, non solo  per capire e costruire la sua “turris eburnea”  senza porte e finestre. La “poiesis” dal suo canto non ha vocazione elitaria e verticale e prefigura  “saperi arresi” che amano la parola come espressione  delle cose, degli uomini e della natura per rapporti di condivisioni comunitarie autentiche e vere. Le nostre esperienze riflessive e consapevoli nel mondo nel suo complesso e del mondo sociale organizzata dal pensare politico hanno esercitato e esibito impegno politico, e qualche analisi intelligente, fino agli anni Settanta. La grande trasformazione neoliberista ci  ha colti di sorpresa e non l’abbiamo capita per tempo scegliendo di  guardare  come spettatori  “il naufragio” dalle rive del mare  o immergendosi nella tempesta senza i mezzi necessari e le finalità chiare e condivise. Abbiamo rifiutato con leggerezza e superficialità e  rinunciato al pensiero critico e responsabile rifugiandosi semmai, in certi casi, in compiaciuti sofismi, ideologismi retrogradi  e di non avere contrastato l’ingresso del neoliberismo  nella cultura  popolare e  specializzata con sensi di colpa  non richiesti e ritenuti irrilevanti. I cittadini non si riconoscono più in ciò che avviene all’interno delle stanze della politica e neanche  di quelle che si  praticano a tentoni tra  le pieghe della cosiddetta società civile ,pura e incontaminata . Il risultato di questo fenomeno è comunque una crisi della democrazia rappresentativa ( il bambino della famosa acqua sporca) a cui tutti in vario modo abbiamo contribuito  senza neanche il tentativo o la fantasia di  avanzare  proposte alternative nella teoria o nella pratica della esperienza. E intanto la  “politica” continua a prendere decisioni nonostante la mancanza di appoggio, o il disinteresse, dell’elettorato. La diretta conseguenza di tale condizione è il populismo e il sovranismo nostrano e strapaesano ?Il  fallimento del vecchio sistema  di potere politico  lascia un enorme scontento presso strati sempre più larghi delle popolazioni. A questo scontento si dà il nome di “populismo ” e di “antipolitica”, e qualcuno  è portata dalla disaffezione e dalla confusione  a pensare che si possa trattare di esperienze  che possono anche  aiutare o provocare spinte politiche reali che potrebbero aiutare la stessa  democrazia. E’ paradossalmente  vero  che una forma di coinvolgimento  c’è stato e d è ancora  potenzialmente in atto. Tutti i movimenti di protesta e di resistenza che nascono nella società in risposta al peggioramento della qualità della vita indotta dal neoliberismo sono il loro reale e concreto crogiuolo. Oggi spesso  sono spontanei, eterogenei  e scomposti,  e spesso fuori bersaglio. Aspetto importante è  che sono nel complesso minoritari,marginali e inattuali  perché il grosso dello scontento, dell’anomia, si rifugia nella disperazione, nella passività, nell’individualismo proprietario subalterno  di un paese in sviluppo senza progresso complessivo. I partiti sono nel marasma, nel disagio   e nella confusione mentale  senza alcun principio di elaborazione e progetto di  nessuna forma politica alternativa o di  possibile continuità democratica.  Così c’è il rischio che la residua energia politica circolante nella società vada semplicemente sprecata. È evidente che la sfida del presente è re-inventare pensiero, esperienze  e azioni  perché realizzino istituzioni e stili di pensare e soprattutto di vivere  che sappiano tradurre  i conflitti ad armonia sociale e a rapporti umani a  comunitari piuttosto che immunitari.
Mauro Orlando

“Merita il nome di sapere soltanto ciò che conferisce il giusto ordine all’anima” Sandro Biral 

“NOSTALGIA”

La “nostalgia” è di diritto, una qualità o uno stato d’animo benvenuto nel viaggio immaginifico alla ricerca del nostro “io”….classico e moderno” .E come essa non è uno stato patologico ed eccezionale,una malattia del corpo e dello spirito, non la si definisce solo per “mancanza” .
Non è un “ospite inquietante” della nostra vita quotidiana ma ne rappresenta la parte più intima, nascosta, appartata e meditativa.
Come la malinconia non è asociale ma ha con la società un rapporto selettivo,biunivoco ed aristocratico anche se possono sembrare fattualmente e concettualmente incompatibili.
La nostra vita ha bisogno come l’aria che respira di questi momenti appartati, meditativi e silenziosi per scoprire la profondità del suo essere un insieme di “io” singolari-plurali lontano dai rumori di fondo della superficialità insidiosa e omologante della società .E’ “ lo scarto originario che separa l’esistenza della comunità dalla sua essenza”.
E’ un limite che la nostra vita a vocazione comunitaria si pone da non dover varcare per non perdersi .La malinconia ci aiuta a tenere assieme con dolore e sofferenza l’essere e il niente della nostra esistenza individuale che mina dall’interno l’appartenenza e la condivisione ad una comunità né riduttiva né semplificata.
La malinconia da sempre ci insegna in questa nostra esigenza di comunità che il limite non è eliminabile e che la comunità non è identificabile con se stessa , con tutta se stessa o se stessa come un tutto, con il rischio di una forma di tipo totalitaria come ideologicamente abbiamo sperimentato per tutto il Novecento.

Dobbiamo evitare alla comunità di annientarsi nel tentativo di preservarsi o di liberarsi dal suo ‘niente’ ma aiutarla a scoprire in questi momenti di intimità che l’assale il suo carattere costitutivamente e costituzionalmente malinconico. Il nostro pensare non può liberarsi mai del tutto dalle sue sue tonalità malinconiche pena la sua immobilità e afasia .Ha la necessità di riconoscere la sua duplice declinazione – quella , negativa , della ‘tristizia’, dell’acedia e quella ,positiva, della consapevolezza profonda della finitezza, situandole una nella sfera dello “inautentico” , dell’improprio e l’altra in quella dell’esistenza ‘autentica e propria’.

Recuperare ed attivare al sua esigenza e il suo senso di “quiete”, “silenzio”, “gioia” di assumere e riconoscere il limite , la finitezza come la nostra condizione più propria anche se nella sofferenza e nel dolore.
Scriveva Heidegger“ ogni agire creativo ha luogo nella malinconia….” .questo ci porta a pensare che l’incompiutezza e la finitezza non è il limite del pensare comunitario ma esattamente il suo senso, essendo “l’essere-solo un modo difettivo “ delle esistenza umana.
La comunità non è né un origine ,né un fine né una fine, né un presupposto, né una destinazione, ma la condizione, insieme singolare e plurale, della nostra esistenza finita. Non è solo un spazio liminare e definito da subire,da preservare o da allargare ma un luogo comune che ci è destinato e ci accomuna.
E il pensiero della malinconia tocca il punto aldilà del quale non sappiamo e non dobbiamo andare ma anche lo spazio vitale in cui vivere nella “gioa e nel dolore” la nostra esistenza autentica. La malinconia permette all’essere di esserci è un momento autentico, fortemente individuale che pone l’essere in relazione con se stesso e il mondo.
Heidegger parla della relazione fenomenologica come cura:”nel rapporto tra l’uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, così il rapporto tra l’uomo e gli altri è un avere cura degli altri.”
Quando si riflette su se stessi e sulle cose del mondo inizia forse, quel barlume di comprensione umana.

Mauro Orlando