lunedì 20 giugno 2011

Elisir d'amore per ........gli orizzonti verticali





di mauro orlando

Per quanto avverto , come irpino costretto a vivere sulle sponde di un lago, il richiamo del sole e del mare Mediterraneo sulle cui rive amo trascorrere gli inverni, mi sono abituato da terra a capire la sfida del mare aperto e compreso il ruolo dell’Oceano.Sono un uomo dell’appennino abituato agli orizzonti corti verso l’alto o in orizzontale sul lago.Noi irpini non siamo “santi, eroi” ma neppure “navigatori”. I nostri modelli mistici sono umani troppo umani. I nostri viaggi sono legati al nomadismo conoscitivo e fantastico della transumanza….Siamo “pastori erranti” dal “vagar breve”. E non inseguiamo “il corso immortale “ della luna se non nei sogni del dovuto riposo al massimo a fantasticare …..Forse s'avess'io l'ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei”…….Ma al risveglio con sogni belli o brutti riprendiamo comunque il viaggio che è anche lavoro. Pur amando i filosofi del tempo presente e dell’avvenire non avvertiamo più neppure la cogenza del Termine imposto al nostro viaggio. Da molto tempo per noi sono ormai abbattute nel loro valore simbolico le Colonne d’Ercole, guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. «Via sulle navi, filosofi!, era alle soglie della modernità il perentorio invito a prendere il largo lanciato ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire», sollecitandoli a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori», assumendo sguardo vigile pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che accade. Uomini appunto oceanici, atlantici, questi nuovi eroi della conoscenza sono quegli «aerei naviganti dello spirito» che dalla Vecchia Europa sciamava nono con la loro fantasia e i loro desideri come uccelli migratori, spiccando il volo alla volta di nuovi più ospitali lidi, pur sapendo che nessun terreno potrà essere da ora in poi sicura dimora, ma soltanto provvisorio punto d’appoggio, base per volare ancora più lontano.
Nella Gaia scienza, col titolo Nell’orizzonte dell’infinito Nietzsche scrive :«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!».
Siamo agli antipodi del nóstos; il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero éxodos, un salpare senza ritorno. D’altra parte, parliamo del filosofo che aveva dedicato una poesia a Cristoforo Colombo. Non più póntos, questo mare spinge piuttosto a tagliare tutti i ponti, a dimenticare perfino la terra ormai definitivamente alle spalle. Ora la nave diviene unica e precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua. Ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che batte rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimite e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli.
Un horror vacui, uno sgomento di fronte al Niente potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di nómos. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, la nostalgia struggente per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con le sue leggi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una “dislocazione”, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica? Anche il nostro viaggio immaginario,onirico e reale a Cairano corrisponde al nostro “costume” irpino di “ umanità delle montagne” provvisoria e terrestre anche quando sogna.. Niente “Colonne d’ercole” , paradisi ed utopie ma “la grande vita nascosta nei piccoli paesi” che muta di senso e di espressione ogni giorno….

Il paese è il luogo del suo farsi male e più prova a scappare più lo agguanta. Qui la sua vita è sempre stata questa, una vibrante vita mesta.
Arminio, Circo dell’ipocondria