venerdì 24 dicembre 2010

Elisir d'amore per .....auguri da lontano....

....non so se me la sentirò di essere in Irpinia per queste feste. Lo spirito è forte ...il corpo un pò meno.Sento però ancora parole dure ,vecchie,biforcute e di corto respiro che cadono non come "pietre rotolanti" come annunci e segni e intendi di cambiamneti comunitari e provvisori primaditutto nell'animo,nella mente e nel cuore.Penso che la mia ricaduta infuenzale sia stata salutare per evitarmi un ulteriore dolore di veder perdere nei labirinti delle "parole false" "la bella compagnia" cheavevamo sognato e non solo......facciamo gli auguri di buone feste ricordandoci con le facce sorridenti e sognanti dia quanto almeno ci volevamo bene ...."Che bei tempi e che bella compagnia!!!!

A U G U R I A U G U R I A U G U R I AUG U R I AI C O M U N I T A R I D I B U O N A V O L O N T A'

sabato 18 dicembre 2010

Elisi d'amore .....per l'amore.


Io amo le propensioni ad essere esposto

Che orrendo se la vita e il mondo fossero un viaggio in un bosco privo di sentieri,segnavie o radure !


La mia coscienza indecisa mi porta a costruire mentalmente ipostasi di coscienze definite,composte,
ordinate,unitarie a cui aggrappare il mio immaginario intellettuale senza viaggio e senza meta.

Oggi il mio orologio non è né avanti né indietro.E sono disorientato.






di franco arminio
Questa è un’epoca che ha disperatamente bisogno del nostro amore, della nostra speranza, ma anche del coraggio di opporsi, di lottare contro la meschinità imperante. Il segreto per una giornata lietamente rivoluzionaria è vedere che le montagne sono ancora piene di alberi e ci sono cuori clementi agli angoli delle strade e ci sono albe e tramonti e c’è il grano che cresce e c’è l’acqua del mare. Questa affezione per il mondo va sempre incrociata con una fortissima allergia al compromesso, all’intrallazzo. Bisogna unire la capacità di percepire la bellezza del mondo e di lottare contro chi ogni giorno impoverisce questa bellezza. È ora di tenere insieme la tensione politica e quella poetica, la contemplazione e il conflitto. I luminari del rancore ci vorrebbero rassegnati alle misere finzioni della vita sociale oppure chiusi nei loculi del nostro io. Invece questa è un’epoca da attraversare ad occhi aperti, con sguardi spericolati, mossi in ogni direzione. Il rancore alla lunga rende sterili, ci allena alla conservazione di ciò che non abbiamo. I rancorosi non conoscono la cordialità, la mitezza, non conoscono la clemenza. Sono tutti infervorati nelle loro accidie, nelle loro pretese. Hanno interiorizzato il disagio, la disaffezione. La loro postura è fatta per claudicare, non per il passo spedito, il gesto aperto. Sono obliqui, ruvidi, rugosi. La loro giornata è tutta trapuntata di inadempienze, di incomprensioni. Ognuno è scambiato per un altro, e in genere lo scambio avviene al ribasso. La vita dei rancorosi consiste in una perenne edificazioni di muri, di cancelli. La loro poetica è stare lontani dagli stati estremi, accucciati a scambiarsi una pappina psichica che non serve a niente. Hanno realizzato un sistema per immunizzarsi da se stessi e dal mondo. Vivono non per vivere, ma per tenersi al riparo dalla vita. Non credono al futuro e neppure alla forza del passato. Rimangono contratti, sospettosi, come se l’universo fosse un cane che li punta e sta per morderli da un momento all’altro. L’imperativo è vivere al piccolo trotto, in un traccheggio prolungato. Prevalgono le posizioni difensive, gli slanci millimetrati. Spendere il proprio tempo per gli altri è considerato quasi un segno di malattia. L’importante è stare dove stanno tutti, in uno spogliatoio di lamentosi che passano il tempo senza mai salire sul campo di gioco. Si lamentano per conformismo, per appartenere al gregge e pure per fingersi pastori. Il sud cambierà se saprà mettere questa gente con le spalle al muro, se saprà amare i bizzarri, gli inventori, gli estrosi, i poeti e i cuori affamati di amore.

venerdì 17 dicembre 2010

Elisir d'amore.....per la "terra"





Sul voltare le spalle alla terra


Viviamo nell’epoca dell’impotenza. Nessuno sembra poter fare molto per la propria vita e per quella degli altri. È una condizione di tutto il pianeta. Forse è vero che qui in Irpinia abbiamo più problemi che altrove, ma è altrettanto vero che le opportunità qui ci sono, a cominciare, per esempio, dalla grande disponibilità di spazio e di terra. Il guaio è che nessuno ci insegna a vederle. Mia suocera ha quasi novant’anni e quando arriva il mese di aprile ricomincia a prendere la via della campagna per rimettere in vita il suo orto. Il clima di Bisaccia non consente grandi raccolti, ma il suo conforto sta nel fatto che la terra non si perda. In Irpinia gli orti spariscono via via che muoiono gli anziani. I ragazzi se ne occupano, piantano zucchine e cipolle, ma soltanto nel mondo virtuale. Ogni volta che vedo un ragazzo fare l’ortolano davanti al computer ho la misura esatta della bancarotta antropologica causata dal delirio modernizzatore che ha colpito le nostre contrade. Nei supermercati si incontrano normalmente persone che comprano l’insalata nelle buste, pronta per l’uso. Per i ragazzi la campagna esiste due giorni all’anno: il giorno di Pasquetta e quello di Ferragosto. Sono anche i giorni in cui si aprono molte delle case che abbiamo disseminato lontano dai centri. In molti paesi dove c’erano orti fiorenti, penso a Gesualdo, per fare un esempio, togli le antiche masserie in pietra sono state abbattute per far posto a penose villette in cemento, grandi e sgraziate. Abbiamo tanta terra, abbiamo prodotti straordinari, ma di agricoltura si parla pochissimo. La parola contadino è vissuta con vergogna e quando si parla dello sviluppo dell’Irpinia si parla di tutto, mai della campagna. Adesso nei paesi è impossibile trovare un uovo fresco. Se qualcuno tiene le galline immediatamente parte un ricorso dei vicini. Una volta c’era un maiale davanti a ogni porta. Adesso gli unici animali che si vedono in giro sono i cani randagi. E la gente non vuole vedere neanche quelli. C’è questa idea di sterilizzare i luoghi, di sentire soltanto la puzza delle automobili. Mi chiedo a cosa serva un paese senza mucche, senza pecore, senza galline. Mi chiedo a cosa serva vivere in un paese se non si ha voglia di coltivare un orto. Nei miei giri quando vedo qualcuno nei campi è sempre una persona anziana. Non ci sono piani strategici che possano funzionare se voltiamo le spalle alla terra. Un paese in cui nessuno sa potare un albero o fare un caciocavallo non è un paese moderno, è semplicemente un paese perduto. Non ho nessuna nostalgia per la civiltà contadina. Grandi fatiche e pochi piaceri, risse, miseria, grettezza. Se quel mondo è morto non si può non vedere che è la civiltà consumista quella che ci sta uccidendo. E allora, in attesa che nel mondo maturi un’altra via, riprendiamo i nostri sentieri, torniamo nelle nostre campagne. Non ci consentiranno di comprarci la macchina nuova o di andare in vacanza ai tropici, ma almeno avremo qualcosa di buono da mangiare. Vino, olio, castagne, nocciole, pane, formaggio, broccoli, insalata, noci, mele, ciliegie, non ci manca niente. Siamo noi la cosa che manca, è la nostra stupida pretesa di essere altro da quel che siamo.

arminio17@gmail.com

martedì 14 dicembre 2010

Elisir d'amore ...per "le cartoline dai morti"






Uscendo dal bar ho sbagliato strada. Il vento era fortissimo e nevicava. Il cuore si è gelato sotto il cappotto.





Scriveva La Rochefoucauld “ chi vive senza follie ,non è così savio quanto crede”. Sacrosanta verità per demarcare un confine tra vita normale subita e vita impegnata per scelta a saper affrontare “venti fortissimi e nevicate”. Un lento e inconsapevole morire per un “un cuore gelato sotto il cappotto” parla di noi quando accettiamo supinamente di smarrire il gusto e il senso di una esperienza comunitaria rassegnati alla insensibilità del senso comune, alla rassegnazione del “così va il mondo”, alla connivenza con l’insensatezza della banalità, alla ingenua o consapevole disponibilità a farsi complice di qualunque cosa a qualunque prezzo. Uno spettro inquietante si aggira come un “venticello” per le nostre terre sopraffacendo la nobilitata e propulsiva “ipocondria” arminiana : il cinismo. Il cinico contemporaneo non ha come punto di arrivo la classica botte di Diogene ma una ordinata e riconosciuta carriera spesso segnata da frustrazione,rassegnazione e avvilimento morale. Il ‘cinicus’ antico era una forma estrema di affermazione della dignità, una riproposizione coerente di distanza dalle pochezze umane e dai pressappochismi e interessi pratici, della cura di una estrema padronanza e sovranità su se stesso e i propri difetti pubblici e attivazione del governo dei propri demoni interiori negativi come la “razionale auriga” platonica. Il neocinico cura e ostenta una “falsa coscienza illuminata” con un discreto vocabolario polimorfo e una forma malcelata di “disincanto” che li rende molto efficienti e accettati sul piano pratico. Qualcuno autorevolmente in modo cattivo ha scritto che il neocinico è “ un caso limite di melanconico che riesce a controllare i suoi sintomi depressivi conservando una certa capacità di lavorare” che mal sopporta “avvisi ai naviganti” disinteressati o venati di ironia e peggio di benevole commiserazione perché “intellettuali e …quindi inutili”. Bisognerebbe imparare dal “cinismo classico “ dei morti di Franco che ci regalano una morale fatta di libertà ed autonomia e non “coperte di linus” come alibi pseudopsicologici ma soprattutto con il compito “etico” di riscaldare quotidianamente,profondamente e continuamente il nostro “cuore” infreddolito e debole. Nella “pòlis” greca il primo atto cinico contro la costruzione di “una comunità” libera e consapevole, avvenne con un atto violento formalmente e simbolicamente reale e tragico .La restaurata democrazia ateniese aveva bisogno della condanna a morte di Socrate nel 399 a.c. e la promozione sul campo degli “Antistene,Diogene di Sinope,Cratete e Ipparchia” come fatto consequenziale , illuminante e normalizzante. Con quell’atto si condannava la ragione, il sogno, il sentimento,la fantasia,la democrazia che presume farsi “comunità” di un sapere non commerciale e commerciabile che ha solo il compito di difendersi per smascherare,responsabilità, inadempienze , ostilità,rancori latenti e combattere quelle palesi e praticate. Le ragioni del cuore non possono mai entrare in un orizzonte limitato che gli è estraneo per statuto. Non vive di pensieri corti, di i rapporti di forza, della pratica o l’ aspirazione dei poteri a tutti i livelli. Ritornando in metafora : “sbagliare strada” affrontare un ”vento fortissimo e una nevicata” è ancora parte possibile e integrante del vivere umano. Ma evitare sempre e comunque ”Il cuore gelato sotto il cappotto” che è il vero e tragico morire sia personale che e comunitario anche della limitata vita umana troppo umana …..
mercuzio

venerdì 3 dicembre 2010

Elisir d'amore per .......una "vecchia locomotiva"

Un viaggio rinnovato e provvisorio
“…Ma i veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili a palloncini,non si allontano mai dal proprio destino e senza sapere perché, dicono ogni volta:“Andiamo”!Sono quelli i cui desideri hanno la forma di nuvole,quelli che sognano, come fa la recluta con il cannone,piaceri immensi, mutevoli, sconosciuti,di cui l’animo umano non ha mai conosciuto il nome!”
Charles Baudelaire – le fleurs du mal
La comunità provvisoria ha intrapreso il suo viaggio due anni fa! In questo nostro rinnovato e provvisorio viaggio come Comunità , in una sorta di ritorno identitario non nell’inferno conradiano di una contemporanea “Apocalypse now” dei nostri moderni ‘demoni’ cattivi ma nel gioco “leggero e piano” della ricerca dell’ “io” della nostalgia ,della bellezza,della mitezza ,del silenzio e delle malinconia. Il viaggio come metafora generale della nostra esperienza individuale-comunitaria. Il nostro viaggio comunitario è il classico “viaggio eterno” dove convivono a loro perfetto agio i profondi e doloranti sconforti di Franco con le argomentazioni più eterogenee dei cultori del logos,della doxa, dei sogni, della fantasia, dei professionisti delle tèkne e delle arti primarie e secondarie……non dei santi,navigatori ed eroi in cerchi di isole o paradisi perduti.Scegliamo di viaggiare senza i confini e i pericoli della formalizzazione burocratica…di andare avanti in “ una cornice provvisoria che si allarga e si restringe, in cui si va e si viene liberamente”. Vogliamo inventare anche un nuovo modo di fare un viaggio. Con uno spirito multiforme e misteriosa guidato assieme da Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggono con una natura molteplice e versatile. Può assumere tutte le forme, prendere tutte le strade, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua natura è ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. E’ artificioso come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e di voli solari e segnata da costellazioni luminose, velato e misterioso come la rotta dei pirati dei ladri, dei trovatori , dei mercanti e degli amanti. Non abbiamo-ripeto- isole felici da raggiungere ma vogliamo vivere felici nella isola che ci è stata donata dai nostri padri con fatica e anche con gioia. Non abbiamo mondi da scoprire o da indicare ma vogliamo conoscere profondamente e far conoscere il territorio in cui siamo nati e vissuti non sempre con la comprensione e il rispetto di chi lo ha governato e sfruttato. Amiamo il viaggio per amore del viaggio come Gulliver e Robinson non con la malinconia lacerata di Amleto ma con la versatilità operosa di Ulisse. Abbiamo conoscenza delle insidie della malinconia e della nostalgia .Ma sappiamo per esperienza umana troppo umana che sono sentimenti che non si possono temere o tacere ma vivere nella loro diversità. La malinconia è insidiosa e la nostalgia è diversa, perché la nostalgia è un sentimento di assenza, cioè fondamentalmente di assenza ma che può essere recuperata con la memoria ,il ricordo e sopratutto con il ritorno a casa e al proprio passato nei limiti del tempo possibile e della terra ridotta e curata dei padri. A patto che in questo nostro viaggio sia la nostalgia che la malinconia diventino sentimenti belli e attivi che ci costringono a superare la pigrizia, la noia , i rancori e le tristezze stimolando la voglia di intraprendere sempre nuovi viaggi dentro di noi e dentro la terra che ci è toccato di vivere..Queste le motivazioni più alte che in questi anni hanno impegnati allo spasimo alcuni comunitari per ripristinare la mitica linea ferroviaria Avellino – Rocchetta sfidando sordità e incomprensioni,disattenzioni e motivazioni strettamente tecnico-economiche. Questa è la strada ferrata che porta noi ,i nostri amici,ospiti e turisti al cuore del nostro sogno attraverso il meglio autentico e naturale della nostra bella e verde Irpinia e “i piccoli paesi dalla grande vita”.La ferrovia è lo strumento,il mezzo che noi offriamo ai nostri amici “vicini e lontani” per entrare nel corpo e nell’anima della nostra terra. Noi comunitari usiamo tutti i nostri artifici e magiche rie per amore dell’Irpinia .Il vecchio e rumoroso treno per noi equivale a un libro o una poesia di Franco Arminio, un racconto intrigante di Andrea Di Consolo, una magica canzone di Vinicio Caposele, uno struggente blues di Pasquale Innarello, le sonorità arcaiche e poetiche di Gaetano Calabrese ….si può entrare nell’anima dell’Irpinia facendosi trasportare in bella e allegra compagnia tra gli stridenti rumori ferrieri di una vecchia e vitale locomotiva .Una locomotiva poco pretenziosa scrivere Storia come nella canzone di Guccini ma vecchie e “piccole storie ignobili” di contadini e pastori nei viaggi tra paesi,campagna e città. Un locomotiva che ispirava i sogni e le paure dei bambini e “…. sembrava fosse un mostro strano -che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano: ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite, -sembrava avesse dentro un potere tremendo…..” Mi piace infine ripetere la citazione di Paolo Rumiz che interpreta l’eventuale dolore e l’ulteriore crepa nella dolorante e terremotata terra d’Irpinia come scongiuro ad una eventualità della sua soppressione .Egli così ce la ricorda: “ Cactus, cicale.- scrive nel suo romanzo “Italia in seconda classe”- Il treno si ferma in stazioncine deserte senza capostazione, senza biglietteria. Alcune sono murate, altre distrutte dai vandali. Sempre i banditi? No, la globalizzazione. Sono i rami secchi, potati dai governatori dei flussi. In burocratese si chiamano stazioni “impresenziate”, astuto eufemismo per mascherare lo smantellamento. La fine dei territori comincia così, col bar e la panetteria che chiude, poi con le stazioni del silenzio. Sento che comincia il viaggio in uno straordinario patrimonio dilapidato. ”
mauro orlando

domenica 28 novembre 2010

Elisir d'amore .....per una nostalgia paesologica.

Poserò la testa sulla tua spalla

Solo alla fine del mio viaggio

e farò,inventerò un sogno di mare con orizzonti lunghi

come le idee che cerco

ma poi torno ai sogni verticali di collina

e ai domani con un fuoco di legna,

e pane caldo e profumato di sole

perché l'aria azzurra diventi casa comune

con amici che amano raccontare

di sé e dei piccoli uomini

con le unghie conficcate nella terre e nell’anima

Chi sarà a raccontare?

Chi sarà?

Sarà solo chi rimane........

o le porte saranno spalancate all'aria

e a tutti i pellegrini

alla perenne ricerca di un Dio

che ama nascondersi dentro di sé

e non negli uomini e le cose

.....per tutti i naviganti di sogni

e i nomadi e viandanti delle speranze

delle transumanze umane ed ideali……..

io ....seguirò questo migrare,

seguirò questa corrente di ali.




Se uno ,con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso” Platone.

L’amicizia è ancora un sentimento fondativo ed essenziale della esperienza esistenziale e culturale della nostra vita affettiva,culturale e sociale?E’ dissolta,nascosta o momentaneamente accantonata per i tempi migliori? Forse siamo vittime inconsapevoli degli ultimi sviluppi tecnologici delle società di massa che incollandoci davanti a un computer a consumare le nostre bulimie affettive per esorcizzare la solitudine,lo sradicamento , il silenzio,le offese e le amnesie delle identità. Sempre più l’amicizia non praticata diventa difficile,impraticabile nello schema e nella funzione della ‘fiction’.La pratica praticata intorno a noi delle conoscenze utili e degli scambi di favori che aiutano le relazioni ipocrite e convenzionali che possono diventare vantaggiose…..non ci aiuta .La nostra grammatica sentimentale e sociale ci obbliga oggi a ragionare al ‘singolare’ o al ‘plurale’.Nel singolare coniughiamo la solitudine dell’anima che progetta e vagheggia mondi ideali o ancestrali, eden e paradisi perduti, radici nobili che la società ha corrotto ,dimenticato o deviate,ideazioni e sogni che non possono essere declinate in pubblico o nei rapporti comunitari. Al singolare possiamo vivere il dolore e il morire con dignità e autenticità e al massimo ci permette di avere il coraggio di esporci nelle nostre piccole comunità. Al plurale siamo costretti sempre a dare prova di sano realismo, apertura,tolleranza e pluralismo, di stare ai fatti, di controllare le emozioni, le rabbie, i sogni ,le speranze, a dare risposte agli altri e contenere e controllare le domande per essere accettati,riconosciuti,identificati e in qualche caso applauditi. L’amicizia può permettersi di coniugare il singolare al plurale ….e non è un gioco di parola. I nostri antenati greci ( spero di non offendere altre convinzioni) avevano in uso il ‘duale’ come forma verbale che esprimesse la valenza simbolica del linguaggio quando doveva esprimere i momenti e i furori sentimentali dell’innamoramento come “stato nascente” in cui non si riesce a pensare a se stessi senza l’altro. L’amicizia comunitaria come l’amore abita e vive al duale rifiutando l’anonimato e l’ipocrisia nel pubblico e la solitudine e l’afonia in privato. Ecco perché la scelta comunitaria e paesologica e altruista e rivoluzionaria e l’amicizia in più ci permette di comprendere tutte le eccedenze di senso che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia ,di idealismo,romanticismo ma in privato una possibilità di ascolto accogliente e generoso delle nostre intime verità e sentimenti. Per questo anche nella nostra vita comune e quotidiana si possono auspicare molte amicizie che possono corrispondere alle sfaccettature delle nostre anime che non possono essere svelate alla legittimità di custodire intimi segreti che altri segretamente custodiscono. Le nostre azioni pubbliche e comunitarie non devono necessariamente cercare consenso, conforto o confidenze ma sviluppare la necessità di alterità e apertura nei ritmi intimi della propria anima che non hanno voglia perdersi nella solitudine dolorosa o nei rumori assordanti e omologanti del mondo. Per questo io sono per sviluppare e non mortificare nella nostra esperienza comunitaria il sentimento e lo stato dell’amicizia per derimere e combattere la falsa alternativa tra l’anonimato o l’adeguamento nel pubblico e la solitudine dolorosa o gloriosa nel privato. Nelle caotiche e anonime società del nord e nell’isolamento delle società dei piccoli paesi e delle colline l’esperienza politica deve sempre più ricreare,favorire o promuovere primaditutto l’incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso e vedere in un amico lo sguardo accogliente che ci invita a fare un viaggio assieme per scoprire le proprie radici per poter continuare i propri racconti personali ad altri a cui hanno mortificato la coscienza , vietato le storie ma sopartutto gli hanno tolto le parole per raccontarle e continuare a viverle amichevolmente e politicamente insieme agli altri.

mauro orlando

domenica 14 novembre 2010

Elisir d'amore per .....la poesia amica.





“io non voglio languire in questa sonnolenza,
voglio crepare e far crepare la mia ansia,
voglio uscire dal mondo senza uccidermi
e senza morire, voglio uscire adesso,
adesso che è quasi mezzanotte,
e non c’è nessuno al mondo,
tutti uccisi dal sonno e dalla televisione,
sono l’ultimo che è rimasto in questo paese,
non c’è nessun altro,
non ci sono nemmeno i morti al cimitero,
non ci sono gli alberi e le panchine,
non ci sono nemmeno i muri delle case
e le nuvole e i fanali delle macchine,
sono rimasto talmente solo
che fuori di me l’universo
è più leggero di un ago
e questa ago è il mio cavallo, il mio aereo,
la mia nave, il tappeto volante
con cui voglio viaggiare.”
franco arminio
Le poesie di franco arminio , mi emozianano….e le emozioni hanno un effetto di stimolo alla mia sensibilità filosofica scoperta. Egli scrive,,,,,”adesso gli unici che servono a qualcosa
sono quelli che sono partiti,
quelli che sanno sparire, quelli che sanno liberarsi
e andare via, via dai paesi e dalle città, via dai partiti
e dalle chiese, dalle moglie e dai mariti, via dagli amici
via da ogni cosa vecchia e via da ogni cosa nuova,
semplicemente via, via dalla banalità
e anche dalla poesia.”
Non è così ,ovvero non è semplicemente così. I poeti,( a diffrenza dei filosofi che partono come Platone per fondare pòlis ideali o che scappano dalle loro responsabilità ),hanno la capacità di disporsi in uno spazio aperto illimitato, e «all’interno di un ‘nòmos’ nomade, senza proprietà, confini o misura» (Deleuze), di stimolare la vita nella sua erranza infinita al di fuori dei canoni precostituiti e dagli spazi e i tempi definiti e reali. L’essenza della lirica come racconto dell’ “io” ha portato alla moltiplicazione di voci che devono essere ascoltate sulla questione del senso dell’essere, della verità in direzione della trasparenza e dell’intelligibilità della vita. Non sono più le parole a contare, ma la questione del senso, e in questa ricerca l’incontro, come a un viandante disperso in un bosco (la selva delle voci), dell’evento che rifugge da ogni prevedibilità, del chiarore che lascia apparire la profondità della vita, delle «vere presenze».o delle presenze “inutili” come “… il sindaco …
il vicesindaco pure e tutti gli assessori
e tutti i consiglieri dell’opposizione,
e gli impiegati e la posta e i mastri della scuola,
e i bidelli e i contadini,
non serve a niente chi si ubriaca nei bar
e chi vede la televisione,
e chi passeggia in piazza
e chi compra il giornale…..”
Concludo con una breve poesia di Emily Dickinson, in cui, come nella celebre Ode a un’urna greca di Keats, i concetti di bellezza e di verità sono strettamente uniti………per un poeta e forse anche per un fiosofo non del tutto pentito……
Morii per la bellezza, ma ero appena
composta nella tomba
che un altro, morto per la verità,
fu disteso nello spazio accanto.
Mi chiese sottovoce perché ero morta
gli risposi «Per la Bellezza»,
«E io per la Verità, le due cose sono
una sola. Siamo fratelli» disse.
Così come parenti che si ritrovano
di notte parlammo da una stanza all’altra
finché il muschio raggiunse le labbra
e coprì i nostri nomi.

martedì 9 novembre 2010

Elisir d'amore per ....i sentimenti comunitari.....

....Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio nel contado di Agobbio appari un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini, in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s'appressava alla città, e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s'eglino andassono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e' vennono a tanto, che nessuno era ardito d'uscire fuori della terra.

Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano.......







LA DONAZIONE DEGLI ORGANI.

pubblicata da Elda Martino il giorno martedì 9 novembre 2010

E’ l’autunno più piovoso che ricordo. L’acqua è entrata dappertutto, la nebbia si è infilata nei vestiti, prima, poi ha penetrato gli organi, il cuore, gli occhi. Camminano i miei simili tutti affannati. Vanno sempre di corsa. Le donne sono quelle più agitate. Quando ti fermano ti parlano per interminabili minuti dei loro problemi. Il -come stai- iniziale serve solo da introduzione ai loro discorsi, monologhi sul precariato, i figli, i soldi. Penso spesso che non capisco più il mio sesso. Ho amiche che si sono trasformate in animali da riproduzione, nell’arco di pochi anni sono diventate mucche da latte. No, peggio delle mucche, quelle sono generose, il loro latte lo danno a noi, agli altri. Le mie amiche mamme sono furenti come tigri e spente come mozziconi di sigaretta nei tombini. Stiamo assistendo ad una sorta di delirio collettivo. Tutto il mondo deve girare intorno a due o tre cose al massimo che, a loro volta, sono una nostra superfetazione, i figli, il lavoro, la vita, la nostra vita, s’intende. Esco e piove. Da sempre, da che mi ricordo, ho sempre pensato ai cani quando piove. Mi immagino i loro rifugi, me li trovo davanti, bagnati che camminano sotto la pioggia, e penso a dove andranno a ripararsi, dove troveranno un posto per dormire. Mi piace pensare che riusciranno a entrare in una delle decine di case in costruzione, scatole di cemento inerti, vuote, e che così solo così quelle case serviranno davvero a qualcosa, prima di diventare un’altra prigione, un altro nido dove intrappolare altre menti, altri cuori in inverno.

Adesso c’è un cane cieco, non ha più l’iride, gli è diventata tutta bianca, sta in una casa vecchia che tra poco verrà abbattuta, sta lì tra i copertoni, la plastica. Gli portano da mangiare ogni giorno. Lui non vede, ma riconosce le voci e cerca anche di fare festa a modo suo. Un cane randagio me lo portai a casa anni fa, i vicini avevano già chiamato l’ASL per farlo portare al canile. Un altro l’ho salvato a Cairano quest’estate. Poveri stupidi esseri minuscoli gli uomini, hanno paura per i loro mostriciattoli a due zampe. Non accarezzare i cani che mordono, non li toccare ti portano le malattie, non ti avvicinare sono pericolosi. Siete voi quelli da cui stare lontani, voi, merda secca buona nemmeno per concimare la terra, fatta com’è dalle schifezze di cui vi ingozzate. Voi dovreste dormire sui calcinacci. Voi e non loro. Voi dovreste stare appesi a Pasqua con un gancio nella gola esposti come macchinine a sgocciolare il vostro sporco sangue che non donate mai a nessuno, che tamponate appena viene fuori, invece di salassarvi continuamente. La mia regione è quella con una delle più basse percentuali di donazioni di organi. La morte celebrale non esiste, gridano alcuni, ci si può sempre svegliare dal coma. Ma non lo vedete che state già vivendo in un costante coma? Che le vostre esistenze reggono solo per quella finzione di respiro che credete di emettere, per i gas che producete, per l’acqua che consumate? Non li donate i vostri occhi, il vostro cuore, non lo fate mentre ancora state in piedi, portateveli nelle tombe e fateli trasformare in qualcosa di utile dai vermi, dalle mosche. Siete così concentrati su di voi da non accorgervi che non esistete o che esistete solo se ve lo dicono gli altri. Tu che scrivi tutto il tempo dannandoti perché siamo mortali, perché oggi o forse domai si potrebbe morire, tu che tremi per un mal di testa, per una fitta allo sterno, tu non lo dare il tuo cuore. Non te lo strappare dal petto come in un antico sacrificio azteco e non lo mettere nelle mani di qualcuno. Tienitelo ben stretto il tuo cuoricino pulsante e tremulo, accarezzalo, fallo stare tranquillo, non lo sfiorare nemmeno con una piuma. Voi che abitate le vostre case, che le tenete pulite come specchi, che non fate entrare le persone dalla porta principale per non rovinare i pavimenti, e voi che guidate a centottanta chilometri in autostrada per correre chissà dove e chissà perché e che, quando vi fermate, subito avete il cellulare da impugnare, lunghi discorsi da affrontare con persone che nemmeno sapete se esistono, che, forse, sono solo voci, altre voci come voi. Tu che per anni hai spedito le tue innocenze a mani inesperte e pronte a ghermirti a insultare il tuo splendore, che hai piegato la tua natura alle paure altrui, alle bassezze ti sei umiliato, alla meschinità ti sei inchinato. Hai detto scusa quando ti hanno offeso e per favore e ti prego. Tu che hai detto -ti bacio- al mondo intero e non hai mai baciato veramente nessuno, tu che di attenzioni ne hai ricevute al prezzo di svendere la tua arte, ora che farai?Io ti dico che è venuto il momento di prendere un aratro e di colmare la frana, o di scivolare pattinando sulle argille. Alzala quella benedetta testa e guarda oltre la polvere, oltre questo trascorso secolo che ha seminato solo morte e perfidia nei nostri cuori. Torna indietro, viaggia nel tempo, offri il tuo sacrificio alla natura, alla vita e alla morte. Dona i tuoi organi da vivo e, poi, da morto. Calati morbidamente sulle ginocchia e prega con queste parole. Oppure cercane di nuove e falle vibrare, fai tremare il mondo degli umani con la forza che ti nascondi dentro, riconosci i tuoi simili e disprezza apertamente i vili, gli ipocriti, i servili. Combatti la tua guerra e offri petto e viso al nemico. Guardati allo specchio e digli: sei mio, ti ho vinto.

(e.m.)

martedì 2 novembre 2010

Elisir d'amore per .....la comunità....





Comunità e moltitudine

Nella morsa delle categorie interpretative di “comunità e moltitudine” ricerche territoriali sul malessere del Nord si esercitano sempre più su una “questione settentrionale” che non coinvolge minimamente la vecchia e residuale “questione meridionale”. Finalmente superato d’amblais tre secoli di “magnifiche sorti progressive”, cominciati con le utopie della Rivoluzione francese e dell’illuminismo europeo nelle parole “libertè,egalitè fraternitè”. Nella abitudine rottamatoria sono finite le parole classe, Stato, nazione, comunità e territorio lasciando una possibile e attardata “questione meridionale” agli storiografi di riporto o a sconclusionate improbabili derive politiche o antipolitche “leghe” borboniche, sanfediste, massoniche e quant’altro. Quali le conseguenze nella cultura politica e antropologica per la società civile e politica del sud con “il trionfo della moltitudine” come fenomenologia di una massa priva di coscienza di sém rappresentanza e rappresentazione e la liquefazione dei ceti medi e della neoborghesia non più proprietaria dei mezzi di produzione ma dei flussi globali? Nelle dinamiche sociologiche e culturali sempre più le distanze dei ruoli e delle funzioni delle classi dirigenti meridionali si sta facendo drammaticamente seria e conseguente. Mentre al Nord si discutono le parole del Novecento con neologismi ricchi di problematiche nominalistiche e di prospettive politiche al sud ci si mortifica o ci si attarda su sensi di colpa e improbabili e cervellotiche riscoperte identitarie fuori luogo e fuori tempo. Che ne è al Sud del “proletariato della diaspora”, dei “creativi messi al lavoro nella società dello spettacolo”, del “General Intellect”, della “neoborghesia dei flussi”? Accettiamo supinamente e senza sospetto la fine del conflitto fecondo tra economia e società e in nome di una ‘neutralizzazione’ indolore della funzione dello Stato come regolatore e redistributore di interessi e diritti senza alternative e futuro possibile C’è anche al sud una agenda politica seria ed articolata che riveda e rilegga criticamente ma concretamente la ridefinizione del potere politico e della statualità o ci affidiamo agli “spiriti animali” di un neofandamentalismo provinciale e comunque di fatto gregario ai populismi antipolitici elitari e governativi del Nord e delle sue classi dirigenti . Incanalando improvvidamente gli scontenti , i conflitti e le fibrillazioni sociali e territoriali in progetti e decisioni che si prendono elitariamente dall’alto a Milano, capitale della postmodernità politica, finanziarie ed economica e dal basso tra le “moltitudini” leghiste nella valli bergamasche delle medie imprese,del capitalismo molecolare e dei distretti economici e nelle Banche a vocazione locale e poteri territoriali. Il tutto declinato nella postdemocarzia amorale o extramorale del tramonto berlusconiano che cerca palcoscenici epigonali e farseschi nella tradizione peggiore della “commedia dell’arte napoletana” tra “immondizie,discariche e termovalorizzatori” salvifici in palese offesa, sottolineatura e denuncia della inadeguatezza e irresponsabilità delle classi dirigenti economiche, politiche ed amministrative meridionali in concorso di fatto con la società malavitosa. Tutto questo nella “coscienza infelice” della vecchia e nuova diaspora della migrazione meridionale interna che dalle residenze ovattate del Nord vede montare un soffuso, diffuso e metastatico “razzismo di Stato” e una ridiscussione continua della “identità nazionale” e su improbabili e riscoperte del tema del conflitto tra ‘etnie’ in base al principio di “sangue e di suolo” a discapito di un recupero fattivo del tema della ‘cittadinanza’ e di ‘responsabilità’ da sempre in agenda delle migliori democrazie europee ed occidentali. Di fronte alla selvaggia globalizzazione finanziaria e alle non regolate moltitudini migranti tutte le categorie antropologiche e politiche risultano insufficienti al governo dal Nord ma soprattutto diventano esplosive e distruttive per la società economica, civile e politica nelle realtà meridionali con tutti i ritardi e le contraddizioni che tutta la storia unitaria ha prodotto e alimentato nel corso del tempo tra denunce analitiche e irresponsabilità politiche varie ed eventuali che non aiutano comunque a trovare vie d’uscite non salvifiche e soluzioni concretamente possibili e governabili.
mauro orlando

lunedì 1 novembre 2010

Elisir d'amore per .... i defunti del cimitero di Grottaminarda

......Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita, me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena trascritto i nomi......





un attimo di bene

metto qui un pezzo di Franco Arminio uscito oggi sul manifesto

Oggi niente paese, niente casa, niente libri, niente piccoli giri in bicicletta, niente computer. Un giro nei paesi, ma non quelli lontani, un giro vicino, sempre a mezz’ora da casa.
Pensavo di fermarmi a Guardia e invece scendo sull’Ufita e poi mi allungo fino a Grottaminarda. C’è traffico, è il paese coi commerci, con l’autostrada e il suo indotto. Fa anche caldo. Mi viene l’idea di andare al cimitero. Ci sono passato tante volte e non ci sono mai entrato. La scritta in latino è molto bella: ti sia lieve la terra, dice. È una frase esemplare che i vivi possono dire ai morti. E forse c’è una frase che i morti possono dire ai vivi. Forse è per ascoltarla che entro nel cimitero, è una frase che non può avere parole, è un qualcosa che ti entra dentro senza la furia che hanno i vivi. La faccia di un morto su una lapide è come un albero, come un gatto. È qualcosa di irrimediabilmente innocente, qualcosa che ha dismesso la fosca battaglia per stare in mezzo agli altri. Ho voglia di vedere facce. Un cimitero è anche una grande mostra fotografica. Qui a Grotta non c’è nessun visitatore. Il parcheggio era affollato, ma sono andati tutti al mercato. Mi segno nomi e date, guardo specialmente quelli che sono nati dopo il sessanta. Camminando nel cimitero sento che il cuore si è rimesso a battere con precisione, prima sembrava disordinato, impaurito. Adesso cammino e faccio attenzione a quello che vedo. Il cimitero di Grottaminarda non ha marmi scintillanti e lapidi di forme strambe, non somiglia per niente all’orrenda piazza da poco realizzata. Insomma, c’è molto più ordine di quello che c’è fuori.
Adesso che sono qui a casa, adesso che sono passate molte ore, non so dire di preciso come mi sentivo stamattina, non so dire come la morte educava i miei passi e i miei pensieri. La nostra testa è fatta di lampi deboli e lontani oppure di un cielo basso e grigio e inerte. Basta poco e non sappiamo dove siamo, cosa pensiamo. E allora arrivano le parole da cui sfiliamo altre parole e altre ancora per non trovarci di fronte all’esatta insensatezza di appartenere a una specie che ha perso il filo del suo viaggio nel mondo. Stamattina non pensavo alle cose che sto scrivendo. Pensavo solo di mettere sul computer i nomi e le date che andavo trascrivendo sul taccuino. Villanova Antonio (1963-1998), De Paolo Concettina (1965- 2005), Michele Iacoviello (1972-2009)Palumbo Pasqualantonio (1958-1995), Maurizio Grillo (1970-1994) Romano Generoso (1962-1991), Romano Massimo (1970-1991), Carla Formato (1947.1997), Del Viscovo Michele (1960-1992), Dario Bottino (1963-1984), Amalia Minichiello (1984-2001), Blasi Guido (1968-1983), Di Vito Giulio (1977-1996). Stamattina ognuna di queste persone mi ha consegnato una sua frase, ognuna delle loro facce mi ha fatto compagnia per qualche attimo. Di più non è possibile.
Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita, me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena trascritto i nomi.
Uscito dal cimitero sono andato verso l’alto,verso la sobria bellezza di Frigento. La via panoramica chiamata Limiti era mossa da un vento senza fiamme. Poca gente in giro e tanta terra davanti a me. Contento di essere lì, sicuro di avere fatto bene ad andarci, contento di stare seduto senza far niente su uno scalino all’ombra.
È nuovamente tempo di scendere, vicino c’è un altro posto con una sua intensità. Vado alla Mefite. Un pozza di acqua e fango che ribolle può essere poco. Oggi è molto, il vento muove le canne, si sente che il luogo ha avuto una sua storia e io sento che è bello stare qui a bocca aperta, farsi entrare nel petto quest’aria che può sembrare l’alito di angeli ubriachi.
Vado verso Villamaina. So che c’è un boschetto con alberi poco fitti. Scendo a fare una foto e vedo una mamma di cinghiale con sei cuccioli. Non se ne scappano e non me ne scappo nemmeno io. Loro si avvicinano e mi avvicino pure io. Faccio tranquillamente le mie foto. Io sono un cacciatore di desolazione e non di animali. Li guardo con allegria, mi sento felice del fatto che non faccio paura, che questi animali smuovono la terra vicina ai miei piedi senza alzare lo sguardo verso di me. Forse hanno capito che vago nel mondo da disarmato. Li lascio a malincuore, ma questo bosco ormai è un altro luogo che mi appartiene, un luogo sacro come tutte le cose che ho visto oggi.
La giornata volge al tramonto. Passo per Gesualdo. Anche questa è una bella Irpinia. Mi basta vedere il castello da lontano e sono felice. Il mio passaggio dura poco più di una stretta di mano. Sento amicizia per questo luogo, mi basta averlo visto, gli voglio bene, voglio bene alle sue pietre. Oggi ho visto i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, ho viste tante cose , tutte bagnate in questa Irpinia d’agosto che non è né vuota né concitata. Un’Irpinia che sarebbe bello se avesse questi abitanti anche d’inverno.
Sono nuovamente a Grotta. I morti sono al loro posto e le macchine fanno i soliti giri. È ora di tornare a casa. Ci torno per scrivere, per onorare la bellezza semplice e appartata delle cose osservate.

Ho voglia di scrivere senza la lingua sporca che uso quando parlo con le persone. A parte qualche mezza frase che viene ogni tanto, il mio eloquio è vanamente concitato. Parlo e sento che non dovrei parlare. Dovrei soltanto far suonare il mio corpo. Scendere a picco sulle cose e risalire in verticale. Basta coi giri obliqui, tutti questi giri che mi hanno fatto impallidire. Voglio tornare a essere secco e delirante, voglio portare gli altri davanti al mio furore o alla mia calma e non sempre davanti a questa poltiglia di stati d’animo che cambiano aspetto appena li smuovi, appena ti ci muovi dentro. Voglio essere come le cose che ho visto oggi: i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, i cinghiali del bosco, le pietre di Gesualdo. In alcuni giorni, in alcuni minuti c’è un attimo di bene che vaga per il mondo. È il caso di riconoscerlo e nominarlo.

armin



Elisir d'amore per .......il Circo dell'ipocondria.....


Corpo e paesaggio
di Franco Arminio , Circo dell’ipocondria, postfazione di Valerio Magrelli



.........Sono le cinque del mattino, ancora non si capisce che cielo avrà la giornata. Oggi il cielo ci sarà sicuramente, noi non lo sappiamo in quale luogo saremo, nel luogo della vita timorosi di morire o morti come sempre in cerca della vita.

In principio c’era un luogo in cui dovunque ti trovavi eri sempre allo stesso punto, questo luogo era il paradiso e dunque il luogo era Dio. Poi è comparso un albero e un albero è già una cosa sola, una cosa divisa, se stai sotto la sua ombra sei in un luogo preciso, nessun albero dà la stessa ombra di un altro. Dal momento che siamo usciti dal paradiso abbiamo cominciato a costruire un nostro luogo, esiliati in cerca di casa. I poeti sono esiliati come gli altri, semplicemente non riescono a vedere riparo in alcuna casa. Il poeta più che la casa cerca il giardino. Ogni giardino, dal più umile al più sontuoso, forse dice di questo tentativo di rifare sulla terra il paradiso, cioè il luogo felice, cioè Dio. Una rosa non è un fiore ma una prova di forza teologica, una prova sempre fallita perché, come dice Caproni, non riusciremo mai a dire cos’è nella sua essenza una rosa. La questione non è il paradiso che c’era, ma quello che non c’è mai, quello a cui tendiamo indefinitamente senza mai raggiungerlo. Fare un giardino significa fare un luogo buono, un luogo etico prima ancora che estetico, un luogo che sta da una parte e non da un’altra e quindi fuori dal divino. Fare un giardino significa lavorare la terra, questo grembo fecondo e irrimediabilmente chiuso, terra come recinto in cui moriremo col nostro corpo che è il luogo più drammatico della terra, il luogo in cui la forza della vita e quella della morte si danno quotidiana battaglia.

E questa battaglia coinvolge anche il paesaggio, perché pure il paesaggio è un corpo. E il mio paesaggio è un corpo martoriato: penso alla lunga emorragia dell’emigrazione e poi agli improvvisi ribollimenti del cratere, alle faglie che lo attraversano. Dal giardino al paesaggio, dal paesaggio al paese, grembo che marcisce senza farmi uscire. Il paese come utero inverso, luogo da cui non si esce, né in forma umana, né come rivolo di sangue. Utero, ossario, recinto dell’apprensione dove una siepe spinosa di pensieri infelici ogni tanto vira e stringe verso l’imbuto dell’angoscia. Abitare il mio paese e abitare il mio corpo a un certo punto sono diventati una cosa sola, un solo abisso. A un certo punto ho capito che scrivere è annusare la rosa che non c’è, che non ci sarà mai. Scrivere era tentare di fare sulla pagina il giardino, partendo da un costone d’argilla e cianuro. Al mio paese c’è sempre il vento, ma come se non bastasse questo movimento aereo, ce n’è un altro, viscido, sotterraneo. Il paese è appoggiato su una zolla di terra che scivola, si spacca e porta in superficie le sue fenditure. Come si fa a non temere la morte in un paesaggio così malato? Come si fa a non temere la morte quando il corpo del paese e il nostro corpo sono una cosa sola? Quello che chiamiamo io è una prova, un tentativo di interrompere questa congiunzione mortale. Ho abitato il mio paese più di quanto abbia abitato il mio corpo. E qui il fegato è diventato un campo da semina. E’ stato ed è tutto un lavoro nell’amaro. Il fegato è vero, il fegato è nostro. L’io è una protesi, un arnese che appartiene a un’invenzione dei nostri primi giorni in questo mondo, un modo per accomodarsi nello sgomento o per uscirne. E la scrittura, in quanto strumentazione dell’io, è protesi di una protesi, artificio a oltranza e come tale esposta a logoramento. La scrittura non può essere una guaina che ti riveste completamente, che ti evita l’abrasione dall’interno e dall’esterno. Se la guaina funziona verso il nemico interno non può riparati da quello esterno e viceversa.

Forse anche per questo da un po’ di tempo scrivo meno e ho preso a usare un’altra protesi, la videocamera. Quando esco ho sempre qualcosa da filmare. Sono uscito anche stamattina, alle sei. Al paese nuovo i primi ambulanti si preparavano al mercato del sabato. Sono andato a vedere se si vedeva il Gargano, è quella la misura della luce. Se non si vede il Gargano non c’è la luce giusta per andare sull’altura e allora sono sceso in piazza. Il barista puliva davanti al marciapiede. Un manovale scapolo della mia età alzava la saracinesca di un bar che non è suo. Uno dei due Giuseppe che sta sempre in piazza prima fumava seduto poi si è messo a camminare per dare sfogo ai suoi nervi. A un certo punto è comparso il falegname che porta il mio stesso cognome e che pare avviato a una sobria vecchiaia dopo una giovinezza da alcolista. Ho filmato il loggiato del castello, la facciata di una casa, il rosso di un divieto di accesso, un uccello che passeggiava per strada e un cane che faceva uno strano lamento mentre suonavano le campane. L’ultima apparizione è stata Vito, quello che lavora alla forestale e che non smette di abbrutirsi e io non smetto di riprenderlo perché nelle sue espressioni trovo un sapore che tante facce non hanno. C’era un vento fresco stamattina a ricordarmi che neppure a giugno qui c’è pace. Però tutte le cose erano ben presenti e il semplice arrivo di un pullman mi ha dato una sottile esultanza per il fatto di poter vedere le infinite scene del mondo. Dovunque sei, il paesaggio non manca mai, non manca di niente. Siamo noi l’unica cosa che manca al paesaggio, quella che non riusciremo mai a filmare.

(pag. 101 – 104)

Elisir d'amore per ......."il dolore del mondo"

.......Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata..........






Il dolore del mondo di elda martino
Il punto in cui mi trovo è definitivo. Sento chiaramente la morte, la morte del mondo e degli umani. La specie che ha creduto di poter dominare la terra, corpo celeste,è moribonda. Non ha risposte, non sa dove andare, è smarrita senza riuscire a vedere il suo smarrimento, è sfinita senza avvertire la sua condizione.
Ci siamo presi troppa cura di noi stessi, e per troppo tempo. Ognuno per sé, e poi, ognuno per il suo nucleo, la famiglia,il paese, la nazione, la specie. Nuclei sempre più piccoli, sguardi miopi.
Possiamo agitarci quanto ci pare, l’unica vera via è ripensare, ripensarci come parte di un tutto molto più importante e grande di noi.
Giorno dopo giorno le speranze si affievoliscono e le possibilità di rifondare l’umano si fanno vane. Rifondare l’umano, ripensandolo.
Io non so dire, ora, come fare, non ho indicazioni, scelte, istruzioni per l’uso. E credo giusto che sia così. Poiché l’umano, per ripensare se stesso, deve prima rinunciare a se stesso. Deve oggettivizzarsi, guardarsi dall’esterno, sciogliendo ogni legame con gli schemi dell’antropocentrismo falsamente razionale che lo hanno condotto a questo.
Quando dico oggettivizzarsi intendo proprio l’azione di distrazione dal proprio io, la possibilità di iniziare a considerarsi come una cosa, una qualsiasi, di questo mondo. Una pietra, una formica, un albero.
Le tentazioni new age sono dietro l’angolo, ma non mi sfiorano, poiché, nel mio rimandare a un estraniamento dell’io da sé, non vado conseguentemente verso un annullamento dello stesso. È un processo più complesso e singolare, ossia singolarmente vissuto.
Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata.
Lo scontro, quindi, non è, come sempre si è detto, tra fùsis e lògos, non c’è scontro. Lo scontro è tra singolarità, ego, e collettività, altro. E questo altro, questo altro da sé non può più essere inteso nella semplicistica accezione di umano.
Qui si tratta di creare una nuova umanità, che comprenda ogni singolo atomo di questo universo, che riduca l’uomo solo a una minuscola parte di esso, che lo conduca a una visione più grande, illimitata, ma capace di indicargli, poi, i suoi confini, i confini dell’intelligenza e della ragione.
La strada passa prima di tutto per il dolore, per l’avvertimento del dolore e per la lacerazione. Oggettivizzarsi significa aprirsi, squartarsi, esporsi. Mettere il proprio corpo, prima ancora che la mente, se davvero sono divisi, sul campo. E abbandonare le categorie di specie, di genere, di razza. In questo ordine. La specie va negata come tale. La scienza continuerà ad occuparsene e a studiarla, ma questo non deve implicare più una ricaduta etica in senso negativo, nel senso di un giudizio di merito di superiorità. Lo specismo va minato dalle basi.
E il dolore del mondo va ascoltato, pure quando diviene insopportabile per la sua enormità.
Se vogliamo sentire di nuovo la vita, aspirare alla felicità non come condizione contingente, ma come stato, dobbiamo passare per il dolore, il dolore della distruzione di noi stessi, e il dolore per la distruzione che abbiamo, invece, imposto all’altro. A tutto ciò che, da sempre, abbiamo considerato indegno di sentimenti, di sofferenza, di anima (e uso questo termine in modo del tutto laico).
So bene che non siamo pronti per tutto questo, perché è più semplice chiudersi nelle celle sempre più ristrette di una personalità egotica che non sente e non vede nulla, se non la propria immagine, riflessa nello schermo del pc, ora, negli specchi , prima.
Ma io non posso più tacere di fronte allo strazio che sento, lo strazio che infliggiamo e per il quale non veniamo puniti da nessuna forza soprannaturale, poiché essa non esiste, se non come ente da noi stessi creato per assolverci dal male che produciamo.
Il male vero, il più grande è quello che portiamo al mondo, è l’indifferenza verso ciò che non è, non riteniamo umano. Il male che facciamo agli altri uomini è innato, esso nasce con noi, ce lo portiamo dentro, e non c’è piacere più grande per l'uomo che quello di vincere sugli altri annullandoli.
La differenza sta in questo. Pure se dovessimo abolire il male “umano”, noi non saremmo mai innocenti, non lo saremo mai fino a quando non usciremo da queste prigioni che sono i nostri corpi, fino a quando non diventeremo ciò che, in fondo, siamo: terra, acqua, sangue, carne, aria. Proprio come tutto il resto, come tutto ciò che da sempre ci guarda e ci teme.

e.m.


sabato 30 ottobre 2010

Elisir d'amore per .....le "cartoline dei morti" di F. Arminio

Si dice che l’ora piú frequente in cui si muore è prima dell’alba. Io per anni mi sono svegliato alle quattro del mattino e ho aspettato in piedi che passasse l’ora brutta. Mi mettevo a leggere o guardavo la televisione. Qualche volta uscivo in strada. Sono morto alle sette di sera e non è stata una cosa cosí speciale.... Quel vago fastidio che era sempre stato il mondo, quel vago fastidio di essere al mondo è finito all’improvviso.


"Pensare e scrivere la morte" non può essere lasciata ai mistici , ai filosofi , ai religiosi...Forse i poeti sono quelli meglio attrezzati a raccontarci della morte o meglio del 'morire' perchè visionari e folli a racconatarci questo attimo assillante e sospeso nel vuoto di un attimo impensabile ma concreto.Noi mortali non conosciamo questa esperienza se non nella dolorante mancanza di tutti quelli che nel tempo ci hanno lasciato senza un racconto adeguato ed istruttivo per noi.

lunedì 25 ottobre 2010

Elisir d'amore per la .......bellezza.

Sul fondo e dall’alto
è così importante apparire?
anche la persona più insospettabile, con un microfono in mano, o una tastiera e un blog, è capace di lanciarsi in lunghissime dissertazioni piene di certezze, di dogmi.
il risultato è che non siamo in grado di riconoscere la grandezza altrui, lo splendore silenzioso di cose piccolissime o grandissime e di inchinarci di fronte a loro.
forse abbiamo tutti paura, paura di scomparire, di non essere “nessuno” di apparire gregari, accompagnatori, gregge.
ma questa paura è tipica di chi non nutre vera passione per gli altri, per la vita, per il mondo, non solo quello umano.
lunedì mattina, prima di andare via, ho raccolto a cairano un cane randagio quasi moribondo, me lo sono portato via per provare a salvarlo, perché per me equivaleva a fare un po’ di bene, di bene vero, immediato.
rivolgersi a un paese a un paesaggio è operazione che ha bisogno di grande mitezza, di gesti semplici, di menti pulite, poche parole, pochissimi concetti, molti, moltissimi dubbi.
è il dubbio, la frammentarietà, la crepa ad alimentare la nostra vita se vogliamo ancora dirci umani.non dovremmo mai dimenticare di essere il frutto di un caso, e non dovremmo dare al lògos più importanza di quanta non ne abbia.
cosa ce ne dobbiamo fare ancora dei profeti del “cosìsifa”, non abbiamo già subito, nel corso di trecentomila e più anni, già troppe colonizzazioni, troppi percorsi obbligati stabiliti da altri?
io da diverso tempo sto provando a percorrere altre strade. è un po’ come se, per andare a cairano o a monteverde, si sceglie di fare le strade interne invece che l’autostrada o l’ofantina…ma vuoi mettere?
quanti di noi lo fanno?pochi, pochissimi, perché molti sostengono di “non avere tempo”.
io a chi mi dice di non avere tempo non credo più, così come a chi cede troppo spesso alle lusinghe dell’esposizione fine a se stessa.
invece credo sempre di più ai generosi, ai puri di spirito, ai semplici, ai miti, ai furenti e ai folli.
il mio parere è, per dirla con pasolini, quello di cercare molto in alto o molto in basso. solo lì si può ancora trovare il vero splendore.
il tempo della mediaetas non funziona più, non a queste latitudini, non con queste temperature.
il nostro mondo è sfinito, sta morendo. non c’è spazio per galleggiare, bisogna andare a fondo, bisogna tirare un bel respiro e provare a scendere, oppure bisogna iniziare a volare.
elda martino

domenica 24 ottobre 2010

Elisir d'amore per .......la democrazia liberata.....




non ci resta il classico dilemma .....essere o non essere ...il solito fiero e rassicurante moralista di sinistra che flagella col sol riso o il sarcasmo la corruzione diffusa tra i suoi contemporanei e i pericoli per una degenerata democrazia in demagogia e aligarchia.

Consapevole che nell’Italia di oggi sia impossibile recitare la parte del grande artista o intellettuale ,o uomo politico, senza riprodurre in sé le contraddizioni di un’epoca la quale sperimenta per la prima volta che cosa significasse di nuova una guerra combattuta in nome di opposte nuove ideologie, la lotta per il potere tra i partiti, le tentazioni del cesarismo o di nuove forme di autoritarismo economico o mediatico, la tensione crescente tra nuova cultura e tradizione, fra lusso e povertà,autenticità e superficialità.

Ribadire il criterio di Hegel che ci permette di liberare il giudizio storico da quello morale solo a patto di non necessariamente esprimere giudizi ma solo un racconto liberatorio e civile.
La libertà in fondo spinta al suo eccesso può capovolgersi sempre quando non rispetta alcun limite e quindi diventa eslege,diventa o degenera in licenza .....dal basso come anrachia dall'alto come tirannia.
La "città ideale" deve essere realizzata prima di tutto nella propria testa e nel prorio cuore armonizzando le idee e i sentimenti.
" Forse il modello di questa "città" si trova nel cielo a disposizione di chi desidera contemplarlo e , contemplandolo, fissare in esso la proria dimora.Non ha quindi importanza che questa città attualmente non esista e possa esistere
in futuro, perchè comunque egli potrebbe occuparsi di questa "città" interiore e non di un'altra" Platone, Repubblica.
mauro orlando

sabato 23 ottobre 2010

Elisir d'amore per .......Le cartoline dei morti

Qui la fine della primavera e la fine dell’inverno sono piú o meno la stessa cosa. Il segnale sono le prime rose. Ne ho vista una mentre mi portavano nell’ambulanza. Ho chiuso gli occhi pensando a questa rosa mentre davanti l’autista e l’infermiera parlavano di un ristorante nuovo dove ti fanno abbuffare e si spende pochissimo.

di franco arminio

Elisir d'amore per ......"un amore interrotto"

.....quando finisce un 'amore'.....


prendo in prestito alcune parole e sentimenti
di Alda Merini
…..avevo bisogno di sentimenti,di parole,
di parole scelte sapientemente
di fiori detti pensieri
di rose dette presenze
di sogni che abitano gli alberi
piccoli paesi e grandi uomini
di canzoni semplici che fanno danzare le statue
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti
e di brezze che sconvolgono le teste
di quelli che amano amare…
avevo bisogno di poesia
…..la magia che brucia la pesantezza
ed i cattivi umori
la freddezza
delle parole che sanno diventare cattive
nell’offesa
e la tristezza e la solitudine degli uomini
che potesse risvegliare le emozioni
e dare colori,odori e sapori nuovi
alle cose,alle idee,ai sentimenti e alle passioni
ma sopratutto agli uomini
….mi avevo sopravvalutato impoverendomi
dei saperi personali
pensando che bastasse
dichiararli ‘comunitari e provvisori’
avevo puntato tutto
sull’umano,troppo umano
a rischio
in nome dell’amicizia …
….ora ho paura anche delle parole
sopratutto quando hanno ancora voglia
di raccontare i sogni e le speranze
di una terra e di uomini che amo
con “abundantiam cordis….. donec ac cadaver”
e non mi basta neanche dare retta ad Eschilo che scrive:
“…io parlo per coloro che sanno
e taccio per coloro che non sanno…”
non parlo e basta!
…ma sono felice della vostra felicità
Se per felicità si intede “eudaimonia”
…..armonia dei ‘demoni’ che ci hanno sopraffatto
negli utimi tempi!
Sappiate comunque che vi voglio ‘bene’
e che voglio il vostro bene!
… in fondo una anno non è ……per sempre!
mauro orlando

elisir d'amore per ......"i sogni".....



per fare una poesia
c’è sempre da scrivere un’altra cosa,
quella che abbiamo visto
non è mai la rosa.

per fare una poesia
il mondo ti deve cadere in bocca,
la lingua lo rovista e non lo tocca.

per fare una poesia
devi sentirti come un’anguilla
sull’autostrada, non è la letteratura
e le sue trame, è il lampo di luce
che la distingue dal catrame.

per fare una poesia
devi mirare
il centro della terra,
lì dove non potrà mai arrivare
il colpo di un fucile,
la carta di una caramella.

per fare una poesia
non ci vuole niente
ma proprio niente,
nessuna idea
nessuno sforzo,
basta che abbiate un corpo
uno solo, ma che non sia vostro.



Franco Arminio da IL PRIMO AMORE


mercoledì 20 ottobre 2010

Elisir damore per .......un "arrivederci comunitario"!

Caro amici irpini , comunitari e provvisori.

Nel prescrivermi un “anno sabbatico” di distinzione e di distanza dalla esperienza nella “Comunità provvisoria” della ‘prima…seconda e terza ora’…..prima di tutto voglio esternarvi il mio naturale ed umano “affetto” maturato nei tanti incontri che abbiamo avuto e insieme il “rispetto” per il vostro impegno nelle iniziative ristrette ,allargate e pubbliche pensate e praticate per “abundantiam cordis” (per eccesso d’amore) per la nostra bella e cara terra d’Irpinia.Sono non a caso due sentimenti distinti ma essenziali nella originale esperienza culturale politica che abbiamo intrapresa nella nostra ,ainoi , non più giovane età e vita sentimentale,mentale e politica. E’ stato il “sentimento” ,non necessariamente contrapposto alla “ragione”, la peculiarità e l’anima di questa nuova esigenza di cultura politica che ci ha piacevolmente trascinato in questa straordinaria esperienza esistenziale,culturale e sociale .

Ognuno di noi ha dovuto fare delle scelte esigenti rispetto alla propria vita privata, intellettuale e professionale .Abbiamo dovuto correggere convinzioni inossidabili ,tradizioni di pensiero ,sintassi sgangherate e vocabolari inadeguati ,psicologie autistiche o altruistiche. Abbiamo dovuto fare “tabula rasa ” delle nostre sintassi e grammatiche, perché sentivamo che questa esperienza aveva una necessità ,impellenza, novità e originalità che obbligava a mettere in discussione prima di tutto noi stessi, le nostre accomodanti e pacificate pigrizie conoscitive , psicologiche e ontologiche. Abbiamo dovuto anche fare ameno delle nostre storie personali,affettive e identitarie e locali attenti anche a tenere a bada come l’auriga platonica i facili abbagli della ricerca identitaria di “radici” culturali che potessero diventare “etnicamente fondamentaliste e isolazionista ”. Le nostre care e vecchie categorie filosofiche e politiche si sono manifestate nella loro insufficienza sia per la comprensione del fenomeno culturale,sociale e politico che ci investiva e ci provocava ma soprattutto per interpretarne il senso e definirne la sua rappresentazione e la possibile pratica realizzativa. Educati ad una salutare diffidenza ( o sospetto) culturale e politica dell’individualismo moderno se pur filosoficamente profondo (Cartesio, Locke,Kant, Stuart Mill) e una predilezione per il pensiero che si faceva sogno,speranza ,utopia senza perdere il contatto con la terra e il mondo umano ,questa nuova esperienza culturale e sociale ci ha riaperto un quadro analitico meno assoluto,dottrinario e ideologico e più aperto al confronto e dialogicamente critico. Abbiamo scoperto la ricchezza di un individualismo “riflessivo” ,progressivo e attivo finalizzato a stimolare e consentire agli individui prima di tutto, di fare libere e critiche scelte per quanto riguarda la loro vita privata e pubblica per una cittadinanza attiva ,riflessiva e responsabile e la povertà pericolosa e reazionaria di un individualismo pigro ,regressivo e gregario. Ma questo per esperienza non ci bastava se il tutto non venisse coniugato con la categoria di “comunità” che avevamo accompagnato all’aggettivo ‘ provvisorio’ per evitare derive oggettivamente assolute, solide e autoritarie e prescrittive.Si è detto spesso anche tra di noi che le emozioni, le passioni, i sogni non possono costruire nuove identità collettive e nello stesso tempo in nome della ‘pratica’ si diffidava della stessa ‘razionalità’ marchiata da ‘intellettualismo’ tout court. L’esperienza di Cairano per praticare una intuizione ,una idea ,una esigenza , insieme la “paesologia” e la “comunità” come la risposta concreta a una psicologia ,cultura o politologia viziata da un errato privilegio esclusivo di una certa “razionalità” o di una astratta “tradizione”. Una sorta di astratta ed idealistica razionalità mista a un realismo opprimente o un pragmatismo vuoto e senz’anima rischia di fare dei brutti scherzi non solo ai nostri detrattori ma anche ad intelligenti analisti e praticanti presenti nella nostra esperienza esistenziale più che etica. Avevamo bisogno di una modestia e curiosità intellettuale e un orgoglio culturale che partisse da un risultato al di là e al di sopra delle nostre personali capacità e previsioni. Oggi sono costretto a scegliere di applicare una sorta di “esercizio del silenzio” o una sorta di salutare “presa di distanza” e attivo allontanamento dalla mischia, non per mancanza di argomentazioni o convinzioni , in rapporto allo sviluppo delle esigenze, non sempre legittime e rispettose, manifestatosi nell’arcipelago ,geograficamente e psicologicamente distinto, delle tante esperienze che generosamente continuano a cercare di animare una terra che sembra ricaduta in una sorta di maledizione divina . Comunque per il passato non ho fatto mancare la mia presenza umanamente e convivialmente attiva a tutti gli incontri e gli spazi delle comunità cittadine. Oggi pur contrariato e disamorato non voglio rinunciare alle tante e ricche esperienze umane che in taluni casi ha avuto risvolti amicali profondi e veri. Allo stesso modo con grande senso di unità concreta e responsabilità non ho mai fatto mancare l’espressione chiara e concreta delle nostre convinzioni nelle sedi deputate dei nostri incontri ,anche a rischio di qualche malevole incomprensione o di ingenerose accuse di “pedanteria e eccessi verbali’.Avevo ingenuamente cercato il senso della continuità delle nostre passate e future esperienze in una possibile esperienza anche di cittadinanza attiva e di radicamento nel territorio al di là delle espressioni e letture più immediate e politicista delle azioni ed esperienze pregresse ,miopi e dai “pensieri corti” delle società politica e dei suoi gruppi dirigenti passati ed attuali rifiutandoci comunque di accoccolarci silenziosi e fedeli sotto “le tavole imbandite” dai potenti di turno.Forse poteva essere anche l’occasione per mettere in discussione un nostro modo di pensare alla sinistra o un pensiero progressista “Abituata a guidare il popolo,scrive la Spinelli, la sinistra sembra essere incapace di mettersi in suo ascolto, ed è il motivo per cui ne è regolarmente sconcertata”Io ero e sono convinto che l’esperienza paesologica e comunitaria ” non è nata solo per essere compresa razionalmente o per essere vissuta e diretta se pur con competenza e intelligenza ma soprattutto per essere vissuti e praticata democraticamente in prima persona in modo critico, riflessivo, attivo,partecipato e responsabile.Non stanchiamoci di ricordare agli altri , ma anche a noi stessi, che non nasciamo o vogliamo essere, intellettualmenete astratti , ma neanche concretamente praticamente svuotati e come al solito supini e gregari alle scelte e alle agende dettate dai soliti noti. Pensavamo di essere carichi di originali stimoli e sane provocazioni intellettuali e istintive alle pigrizie della “cultura”tradizionale e alla pervicacia inamovibile dei tanti e diversificati ’poteri locali ‘ che pensano e praticano la “politica” sia quando, ingessata e autoreferenziale , smarrisce il senso dei suoi fondamenti e finalità alte e valoriali ,sia quando si fa pratica praticata e politicante o ‘potere’ , sia quando si fa ideologia, mito, metafisica o dottrina, dimenticando di essere soprattutto ricerca critica, scienza o attività dell’uomo e per l’uomo.E’ per questo che ho scelto di esternare questo mio sentimento di disaffezione e di limitazione dell’impegno e di presa di distanza da una esperienza che pure mi ha dato tanto umanamente ed intellettualemente.Avevo una speranza che anche in Irpinia col vento di nuove e antiche speranze si potesse pensare e praticare soprattutto le categorie moderne del pensiero democratico e la centralità della “ciitadinanza” insieme alla esigenza di ‘comunità’.“..La parola “cittadini” sta recuperando da qualche tempo una valenza che era andata smarrita. Camerati, compagni, amici, signore e signori, avevano sostituito un appellativo che si richiamava direttamente e semplicemente alla sovranità popolare senza distinzioni e appartenenze di classe, di censo di ideologie. Cittadini vuol dire abitanti della stessa città, ed estensivamente dello stesso paese, della stessa comunità; diritti e doveri di cittadinanza sono le leggi che tutti siamo tenuti a rispettare e tutti abbiamo titolo di formulare. Infine cittadino è colui che fa parte e si dà carico della ‘res publica’, delle sue costumanze, delle sue magistrature”.E. Scalfari.

Non viviamo di nostalgie regressive e consolatorie ma confidavamo nella nostra capacità e intelligenza di ricordare a noi e agli altri “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”

Con affetto e stima



mauro orlando

domenica 10 ottobre 2010

Elisir d'amore per ......la consapevolezza ...comunitaria e provvisoria


ALTRI COME NOI

il giorno in cui moriremo
il vento come sempre passerà
in mezzo a questa casa che si chiama mondo.
altri dopo di noi
saranno allegri, tristi, moribondi,
altri come noi,
ombre illuminate da un cerino,
cerini dell’ombra. F.Arminio.



Comunità o della “consapevolezza”…..provvisoria.

Una persona in modo eccezionale e non per abitudine osserva le proprie emozioni e processi mentali ed elabora il senso dell’io…autentico e profondo. Non sempre in modo consapevole mentre vive il suo io storico, sociale e personale in modo attivo. In scienza si suole distinguere tra una consapevolezza primaria e una di ordine più elevato, cosciente e motivato: la prima è soprattutto percettiva, mentre la seconda è una nozione concettuale del proprio io. Gli animali possiedono la consapevolezza percettiva ad esempio. Ad un uomo razionale non basta saper inventare e creare spazi di discussione (piazze virtuali o reali) costruire comunità (pòlis o associazioni) ed essere solo in grado di percepirle e dotarle di senso e coerenza e neanche solo come spazio ed occasione dove meramente reagire a semplici stimoli emotivi o emozionali . Considero la creazione di occasioni comunicative o di esercizio agonistico e la costruzione di comunità esistenziali la caratteristica fondamentale di una consapevolezza primaria ancora delle comunità primitive .

Tuttavia l’uomo fa uno scatto di senso nel momento che può e sa pensare a se stesso come soggetto e oggetto di conoscenza e assieme capacità di stare assieme …..che meraviglia e che potere! Ma più di tutto può avere desiderio e piacere della vita e, in parte, la consapevolezza della morte, che nessun animale possiede. La morte …. del mondo che inconsapevolmente ci siamo costruiti intorno, ma consapevoli che …..” il mondo è morto molto prima, quando la logica ha preso il sopravvento in maniera strisciante e subdola sull’istinto. quando in nome della nostra presunta superiorità di specie, abbiamo iniziato ad allevare e ad uccidere, quando abbiamo deciso di costruire mura intorno alle città, insediamenti puzzolenti di merda e di piscio dove ogni spazio delimitava una solitudine, una casa abitata da altri morti che litigavano con i vicini per il confine, per le pecore, per la proprietà. la morte è un evento definitivo, e noi abbiamo bisogno solo di eventi definitivi, unici, senza scampo” E. Martino. In più ,e in parte,abbiamo coltivato la capacità di ricordare o vedere la propria vita come un tutto; la capacità di immaginare altre prospettive o altri stati mentali; di pensare ipoteticamente in modo soggettivo o teoricamente in modo oggettivo, di affrancarsi dal qui e ora , di sognare o sperare un futuro anche di eternità in piena libertà e senza essere costretti a una riconoscenza a qualche Dio ma non rinunciando a coltivare l’esigenza e il senso della sacralità e della religiosità ! Riusciamo anche a sospettare o distinguere tra la consapevolezza del mondo e la consapevolezza di essere consapevoli. Fino a pensare che la consapevolezza del proprio io sia una caratteristica che solo noi umani possediamo, e che sia una componente necessaria della nostra consapevolezza. ‘L’autoconsapevolezza’ è una componente determinante. Gli animali non arrossiscono. Forse perché a differenza dell’uomo non sono molto consapevoli di potersi osservare e di essere osservati…Narciso non poteva essere un animale! Altra peculiare caratteristica è che noi abbiamo la percezione e la capacità delle parole,delle cose,delle persone e del mondo nella loro profondità non solo in termini spaziali e temporali. Possiamo migliorare la superficie tecnica del nostro linguaggio e ricercare assieme la profondità delle parole ,dei concetti e delle idee come scoperta di verità ( alètheia…non nascosto). Idea è parola del greco ‘eidon’…..il saper guardare in profondità. E poi abbiamo imparato a mettere assieme parole per raccontare il nostro “io” quando ‘sente’, ‘pensa’, ‘agisce’ e a costruire sapere ‘oggettivo’non solido,rigido ma basato su sentimento,pensiero ed azione…’soggettiva’ e …provvisoria. E poi abbiamo la fantasia e la voglia di inventare sogni ed avventure. Henry James una volta disse che le avventure accadono solo a coloro che sono in grado di raccontarle. Il più bello degli uccelli non può raccontare la bellezza e la leggerezza del volo! Quindi, per una mente creatrice di avventure, queste ultime accadono; il mondo, in realtà, consiste in larga misura di avventure e sogni. Creiamo uno spazio interiore in cui possiamo muoverci in modo relativamente facile con l’immaginazione e il sentimento. Esiste una notevole libertà di azione… Anche se, quando si è depressi, tristi,addolorati si perde tale libera volontà e si ha la sensazione che nessuno la possieda. Esiste un bel passaggio, nelle ‘Meditazioni’ del cogitante Cartesio, in cui egli guarda fuori dalla finestra e, vedendo le persone sotto di lui, afferma: “Sembra che esse abbiano volontà e libertà di scelta, ma come posso sapere se non sono ingegnosi burattini o parti del meccanismo di un orologio?”. La volontà è essenziale per definire o progettare un organismo e la consapevolezza per difendere la sua libertà. E poi ,non solo per gioco o per necessità, quando non ci bastavano i miti che noi stessi avevamo costruito e che alcuni utilizzano con ‘malizia’ come forme di potere personale o istituzionale (Governi, Chiese …..) abbiamo cominciato a fare domande e ad abbozzare risposte umane o troppo umane, e poi metafisiche o assolute . Ma sempre tornavamo alla domanda iniziale. Questa coscienza è qualcosa che si impara o è innata? Wittgenstein parlava di ‘ decenza’, cioè , si era esseri umani decenti solo nel pensare e definire capacità conoscitive e difetti comportamentali ed etici dell’essere umano. Non vedo come si può dire se una cosa come questa è appresa o innata, perché la gente, a parte i ragazzi-lupo-selvaggi (da Hobbes,Rousseau a…. Trouffaut) e cose simili, subisce sin dall’inizio sempre e comunque l’influenza del mondo della cultura come espressione consapevole o indotta dell’uomo. È difficile parlare della “natura umana” in quanto tale, perché siamo sempre sotto l’influenza della cultura. Questa è una delle ragioni per cui i ragazzi-lupo-selvaggi sono così affascinanti e strumentali: per questa idea secondo cui potremmo vedere in essi la natura umana allo stato primitivo o puro per essere autorizzati a intervenire d’autorità con la scienza o con la politica. Altra cosa è lo stato originale che richiede la conoscenza propulsiva delle proprie radici storico-antropologiche .Più delicato e rischioso quando dalla coscienza di sé e della conoscenza delle proprie radici storico-culturali si pretende di passare alla risposta tutta politica sulla ‘identità’antropologica individuale o peggio etnico-raziale di un ‘popolo basata sulla paura e sull’egoismo. L’’uomo occidentale dopo aver consumato sino in fondo l’ipertrofia del proprio “io” nella esperienza apicale del “moderno” con Cartesio ,Kant ,Hegel ha raschiato il fondo delle sue possibilità e capacità di conoscenze delle conoscenze e di senso della sua tragedia. Ci affascina e mortifica ancora l’esercizio radicale del relativismo e del nihilismo della follia di Nietzsche,nella ricerca e difesa della sua estrema libertà ‘umana,troppo umana’ che lo costringeva a tagliarsi così i ponti possibili del comunicare e autoimmunizzare gli alibi per inventare nuovi miti,riti per scongiurare le costruzioni di nuovi labirinti mentali o torri di babele sociali che, per timore e paura, alla fine ti costringono a rispolverare il bisogno dell’afono ed unico Dio dei monoteismi ideologici vecchi e nuovi. E allora abbiamo scoperto e rivalutato i momenti e i viaggi , di fuga , di sogni, utopie fuori di noi e tentare di costruire “Comunità provvisorie” individuali e plurali in cui poter essere più autenticamente liberi e più sensibili, in cui poter esercitare anche il proprio intuito e sentimento non “in interiore homini” ma ‘in exteriore homini’ in spazi più vasti e profondi fuori di noi. Usando uno dei più antichi e naturali poteri dell’arte che è quello di rendere più grande e profonda, in modi diversi, la consapevolezza di una persona in un territorio determinato senza steccati ,’enclusures’ o peggio ‘enclavi’ etnici e riconquistando e riimparando a vivere i “piccoli paesi dalla grande vita” con una consapevolezza estetica,poetica , morale , mistica o politica e non solo sociologica ed economica. E abbiamo recuperato una funzione leggera e liquida anche della scienza,dell’antropologia e della filosofia nel favorire forme di visioni, conoscenze, sentimenti , idee nuove insieme a una consapevolezza intellettuale più ampia e profonda. Una persona ha e vive degli stati d’animo, o degli umori, nei quali la consapevolezza sembra espandersi e farsi più comprensiva, accogliente, generosa, sensibile e anche particolareggiata, mentre in altre occasioni sembra restringersi,intristirsi, ingrigire . E allora abbiamo azzardato a pensare che anche l’educazione, la ‘paideia’ antica e sapienziale dei greci andrebbe declinata e riconsiderata come educazione alla consapevolezza anche nella ‘poliedricità labirintica e tecnica della “modernità”, e non solo come insegnamento o creazione delle gerarchie delle varie professioni tecniche e nell’utilizzo democratico e plurale delle molteplici nuove tecniche e tecnologie informatiche. Esistono dei momenti particolarmente emotivi ,densi di passioni calde e pesino di esaltazioni. Come diceva Flaubert? “Anche la mente ha le sue erezioni”. William James pensava che le droghe, compreso l’alcool, erano mistagogiche, e certamente l’espressione “espansione di consapevolezza” che era molto in voga e abusata negli anni sessanta non più perseguibile o usabile oggi . Almeno abbiamo sperimentato la ‘immunitas’ culturalmente sana in nome e in vista della ‘comunitas’ possibile . Anche la perdita di persone care e di identità culturali e storiche del proprio territorio e il dolore e la rabbia per la superficialità,arroganza e la trascuratezza degli ‘addetti politici ai lavori’, preposti alla sua difesa ,protezione e cura possono per paradosso espandere la consapevolezza per molti o pochi altri. Noi abbiamo invitato con cortesia e gentilezza alcuni vecchi e nuovi amici a passeggiare con noi nei ‘nostri sentieri interrotti’ non solo per ‘decriptare’ eventuali ‘segnavie’ ma sopratutto per scoprire che una persona che non conosce il luogo in cui stiamo camminando può aiutare anche noi a sperimentare e scoprire (alètheia) quel luogo come fosse nuovo,immacolato,autentico. Vivendo e sperimentando nella pratica che ogni contatto umano ha il potenziale di cambiare la consapevolezza di sé proprio quando ci si imbatte in una concezione e una costruzione del mondo diverse dalla propria. Una educazione alla ‘diversità’ come stimolo di conoscenza e come promozione di cultura e identità vera. Anche questo fa parte della esperienza che abbiamo chiamato “paesologia”. E’ la cultura delle montagne …il nuovo “umanesimo delle montagne” “….. dovrebbe avere come cuore pulsante la richiesta di un modello economico basato sulla decrescita e di un modello culturale basato su un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne. Non più l’uomo come ingordo produttore e consumatore, schiavo insonne nella piramide capitalista, ma essere che si muove tra le cose sapendo che siamo qui per passare il tempo e spesso per non venire a capo di nulla, siamo qui per immaginare, per emanciparci dalla nostra psiche ristretta e avara e accasarci in una mente più grande, più generosa, più accogliente: i nostri impulsi intrecciati al moto delle nuvole e al grano che cresce, al fiuto delle volpi, al richiamo dei falchi, insomma una nuova alleanza con la natura”F. Arminio. “La paesologia”non ha la pretesa e lo statuto per essere una scienza eidetica o una estetica,non vuole essere un’etica e non è una dottrina prescrittiva,sacrale ed eteronoma . E’ un modo di essere individualmente autonomi nell’individuare uno stile di vita , un criterio per guardare , sentire se stessi e il mondo esterno in ‘koinonia’ e in modo più mite, leggero,profondo e generoso. E’ anche un modo di sentirsi bene tra contraddizioni e ritardi, sentire la stessa sensazione di un germoglio che sta sbocciando: questa sensazione, questa immagine biologica, metaforicamente può rappresentare l’immagine della consapevolezza e della coscienza come anima della paesologia. Non è assolutamente un’immagine meccanica e fisiologica . Imparare a sentire che all’interno di ognuno ,di una cosa,un albero,un paese c’è qualcosa di simile a un’identità unica e autonoma, inaccessibile alla consapevolezza, protetta da interventi o interferenze nei modi più comuni che si possono individuare negli atteggiamenti della “paesanologia” e di tutti luoghi comuni che insidiano un recupero autentico ed originale dello stile di vita,del ‘genius loci’ in un piccolo paese per quello che è senza condannarlo in contumacia ad esser solo spugna delle influenze negative o superficiali delle enormi quantità di informazioni commerciali,sociali e politiche o luogo-rifugio protetto e difeso con mura ideologiche o confini innaturali dagli intrusi di turno. Curando maggiormente di essere più sensibili al mondo della natura nei suoi cicli e misteri senza trascurare il momento consapevole e cosciente della cultura e degli uomini. Che si tratti del cielo stellato sopra di noi , dei boschi intriganti intorno a noi , del mondo morale dentro di noi o delle visioni o degli ascolti delle albe tra le nebbie sottili delle colline e dei tramonti infiniti sul mare , dell’ imparare il senso e il sapore delle parole di una preghiera umana o divina o la vitalità di un respiro….nel silenzio dell’aria. Sento che queste esperienze espandono comunque “ la consapevolezza” solo se possono essere declinate con gli uomini e nelle ‘pòlis’, comunità ,’koinonie’,’eterie o thiasi’ o istituzioni ,possibilmente libere,aperte e liquide che gli uomini hanno pensato e prodotte per gli uomini per sentirsi in ‘comuni’ nella individualità. Senza modestia,però, ma con la “consapevolezza” di vivere e promuovere una vera “rivoluzione”…..” una rivoluzione che metta al centro la resa. Più che barricate si tratta di organizzare ritirate. Più che l’esposizione al mondo, quello che immagino basata su un vivere nascosto, un rimanere sui margini, sui confini. Non c’è un centro da abbattere o da conquistare, ma un orlo che sia fatto di sfilacciature riammagliate che mai prima si erano incrociate. È una rivoluzione artigianale, fatta sui gesti che ognuno sa produrre, senza slogans che valgano per tutti. Ulteriore paradosso: un movimento collettivo che esalta il dettaglio, l’eccezione, il singolare. Quando nevica nessun fiocco è simile a un altro e (la nostra rivoluzione) deve essere così: un movimento che si accende e si spegne, che avanza e si ritira, che si apre e si chiude, un movimento fatto anche di timidezze, di affanni, di ritrosie, di debolezze, di esposizione, di furie. Una rivolta concepita come sistema di depurazione, come tentativo di accogliere con lo stesso amore il rigore, il furore e la desolazione” F. Arminio.
mauro orlando