lunedì 1 novembre 2010

Elisir d'amore per ......."il dolore del mondo"

.......Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata..........






Il dolore del mondo di elda martino
Il punto in cui mi trovo è definitivo. Sento chiaramente la morte, la morte del mondo e degli umani. La specie che ha creduto di poter dominare la terra, corpo celeste,è moribonda. Non ha risposte, non sa dove andare, è smarrita senza riuscire a vedere il suo smarrimento, è sfinita senza avvertire la sua condizione.
Ci siamo presi troppa cura di noi stessi, e per troppo tempo. Ognuno per sé, e poi, ognuno per il suo nucleo, la famiglia,il paese, la nazione, la specie. Nuclei sempre più piccoli, sguardi miopi.
Possiamo agitarci quanto ci pare, l’unica vera via è ripensare, ripensarci come parte di un tutto molto più importante e grande di noi.
Giorno dopo giorno le speranze si affievoliscono e le possibilità di rifondare l’umano si fanno vane. Rifondare l’umano, ripensandolo.
Io non so dire, ora, come fare, non ho indicazioni, scelte, istruzioni per l’uso. E credo giusto che sia così. Poiché l’umano, per ripensare se stesso, deve prima rinunciare a se stesso. Deve oggettivizzarsi, guardarsi dall’esterno, sciogliendo ogni legame con gli schemi dell’antropocentrismo falsamente razionale che lo hanno condotto a questo.
Quando dico oggettivizzarsi intendo proprio l’azione di distrazione dal proprio io, la possibilità di iniziare a considerarsi come una cosa, una qualsiasi, di questo mondo. Una pietra, una formica, un albero.
Le tentazioni new age sono dietro l’angolo, ma non mi sfiorano, poiché, nel mio rimandare a un estraniamento dell’io da sé, non vado conseguentemente verso un annullamento dello stesso. È un processo più complesso e singolare, ossia singolarmente vissuto.
Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata.
Lo scontro, quindi, non è, come sempre si è detto, tra fùsis e lògos, non c’è scontro. Lo scontro è tra singolarità, ego, e collettività, altro. E questo altro, questo altro da sé non può più essere inteso nella semplicistica accezione di umano.
Qui si tratta di creare una nuova umanità, che comprenda ogni singolo atomo di questo universo, che riduca l’uomo solo a una minuscola parte di esso, che lo conduca a una visione più grande, illimitata, ma capace di indicargli, poi, i suoi confini, i confini dell’intelligenza e della ragione.
La strada passa prima di tutto per il dolore, per l’avvertimento del dolore e per la lacerazione. Oggettivizzarsi significa aprirsi, squartarsi, esporsi. Mettere il proprio corpo, prima ancora che la mente, se davvero sono divisi, sul campo. E abbandonare le categorie di specie, di genere, di razza. In questo ordine. La specie va negata come tale. La scienza continuerà ad occuparsene e a studiarla, ma questo non deve implicare più una ricaduta etica in senso negativo, nel senso di un giudizio di merito di superiorità. Lo specismo va minato dalle basi.
E il dolore del mondo va ascoltato, pure quando diviene insopportabile per la sua enormità.
Se vogliamo sentire di nuovo la vita, aspirare alla felicità non come condizione contingente, ma come stato, dobbiamo passare per il dolore, il dolore della distruzione di noi stessi, e il dolore per la distruzione che abbiamo, invece, imposto all’altro. A tutto ciò che, da sempre, abbiamo considerato indegno di sentimenti, di sofferenza, di anima (e uso questo termine in modo del tutto laico).
So bene che non siamo pronti per tutto questo, perché è più semplice chiudersi nelle celle sempre più ristrette di una personalità egotica che non sente e non vede nulla, se non la propria immagine, riflessa nello schermo del pc, ora, negli specchi , prima.
Ma io non posso più tacere di fronte allo strazio che sento, lo strazio che infliggiamo e per il quale non veniamo puniti da nessuna forza soprannaturale, poiché essa non esiste, se non come ente da noi stessi creato per assolverci dal male che produciamo.
Il male vero, il più grande è quello che portiamo al mondo, è l’indifferenza verso ciò che non è, non riteniamo umano. Il male che facciamo agli altri uomini è innato, esso nasce con noi, ce lo portiamo dentro, e non c’è piacere più grande per l'uomo che quello di vincere sugli altri annullandoli.
La differenza sta in questo. Pure se dovessimo abolire il male “umano”, noi non saremmo mai innocenti, non lo saremo mai fino a quando non usciremo da queste prigioni che sono i nostri corpi, fino a quando non diventeremo ciò che, in fondo, siamo: terra, acqua, sangue, carne, aria. Proprio come tutto il resto, come tutto ciò che da sempre ci guarda e ci teme.

e.m.


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