venerdì 25 novembre 2011

Elisir d'amore per ......il "dono"


…se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato….
elda martino


di mauro orlando





«Nacqui a legami di amore non di odio» (Antigone, v. 523).

In un momento epocale del crollo dell’economia di mercato e del relativo modello di scambio sociale è opportuno e d’obbligo una ricerca e una pratica di “umanesimo delle montagne” come inizio di ripensamento di una conoscenza, di una politica e di una etica possibile. In tale considerazione si impone l’importanza delle tensioni emotive nella riflessione filosofica ed esistenziale della modernità, non solo ricostruendo la fitta rete di riflessioni che hanno impegnato assiduamente diversi pensatori riguardo i caratteri apparentemente più costanti della dimensione umana.
preliminare è “smentire la presunta razionalità dell’individuo moderno, avvalorata dalla tradizione liberale” , non solo per mettere in evidenza i limiti e le aporie del paradigma dell’homo economicus, quanto piuttosto di riconoscere nelle esperienze paesologiche nei piccoli paesi l’importanza e la persistenza delle passioni,dei sentimenti e dei sogni nella modernità. Si impone la scelta di un “sapere arreso” nella logica del “dono” che si pone in antitesi concettuale ed etico all’opposto della logica dell’ utile e del profitto. Richiamavo all’inizio le parole di Antigone non per connotare la categoria di dono come attributo naturale e di genere passivamente subito e portatore di rinuncia ed esclusione ma come strumento umanistico attivo di cura e definizione di sé e come soggetto eminentemente relazionale ed opitale. Una ospitalità ed una accoglienza non circoscritte e limitate alla sfera privata auto gratificante ma naturalmente razionalmente votate alla sfera pubblica e comunitaria. Una scelta di cura e di dono come autentico desiderio o passione come fedeltà e coerenza a se stessi in una ineludibile dipendenza dall’altro. Una scelta libera,consapevole e responsabile di un “io” plurale-comunitario autonomo nella dipendenza contro un individuo auto sufficiente e compiuto in se stesso, chiuso alla dimensione dell’alterità e della differenza.

Abbiamo scelto la poesia come strumento di “cura di sé” comunicativo e non come mezzo personale di un modello eroico-aristocratico dell’individuo che spinge ad abbandonare “vita, salute e quiete” a favore di una gloria che si rileva “puro desiderio di plauso e di approvazione altrui che rende gli uomini dipendenti dal giudizio della moltitudine e li fa agire unicamente in funzione della visibilità e del riconoscimento esteriore”. La poesia ha il privilegio e lo schermo di essere intellettualmente apolide e libera e non abita la contraddizione ” umana,troppo umana” della scelta tra l’ideale della Bellezza e del significato del Reale , tra la centralità dell’uomo o della sovranità di Dio. Il poeta vive l’esperienza della possibilità dell’estraneità o sudditanza dell’uomo alla Terra fidando e usando il potere del linguaggio e si permette di irridere la ragione quando si fà astratta ,universale ed autoritaria e di portare pur il silenzio della natura e della morte alla trasparenza della parola e al formalismo mortuario del significato. La poesia di oggi, resa esperta, dalla più recente storia, della catastrofe dell’umano e dallo scacco della ragione, cerca altro nelle macerie del linguaggio ,del sentimento,delle passioni e delle idee: non nuovi ‘significati’, ma un più antico suono,non l’armonia dell’universo ma il silenzio dello spirito e il respiro del corpo. Accostandosi premurosamente alla natura e driblando con estro la Verità astratta e consolatoria , questa poesia ridà alla parola significante il peso e l’umore della terra, delle erbe, delle pietre, degli animali e anche dell’uomo. Una “ragione poetante” , alleggerita dalla egemonia della logica pura , dello scientismo dissacrante e materialistico o delle metafisiche camuffate da fedi militanti, ha appreso, e ci ha appreso che, oltre lo stare-insieme nella ‘polis’, v’è, anche per l’uomo, la possibilità di un più aperto, ospitale stare-accanto nella ‘comunità’, anche nell’esperienza del sacro e non adagiarsi comodamente seduta su “sedie” immobili e ‘ferme’ o peggio “mute” e appese decorative come “quadri alle pareti” .“…….stare qui, animarsi, rianimare l’amore, la bellezza…. stare qui mentre nel mondo accadono tante cose…”
La condizione umana generalmente è saper stare al mondo e saperci stare bene …..da soli o in gruppi umani…per necessità o per caso poco importa…..ma stare al mondo è anche muoversi in esso,vivere in esso in uno spazio-tempo particolare , limitato, essendo figli e padri della sua e propria cultura .Noi vogliamo stare in questo modo nel nostro spazio-tempo che determina il territorio chiamato Irpinia ognuno con la propria disposizione percorrendo curiosi le vie che ci hanno tracciato gli altri e inventandone dubbiosi di nuove per inesplorati sentieri …nel presente che si radica continuamente e proviene dalle radici di un passato che fa fatica a passare e sempre per costruire un futuro che comunque inquieta ma carica il presente di dubbi,sospetti ma sopratutto di responsabilità……che sia questo un pensare e un donare “paesologico”? Il dono è capace di sviluppare una passione in grado di rinsaldare il legame sociale, in quanto non pura gratuità, a determinarlo non è tanto il modello dell’amore cristiano, l’agape, ma la philia, amicizia vicina al modello dell’eros come “desiderio dell’altro, del legame dell’altro in quanto fine a se stesso”. Il dono guadagna la dimensione di “evento simbolico che permea la realtà concreta degli individui”, in quanto “simbolo della incompiutezza dell’io” . Il legame sociale che ne risulta è condivisione della comune insufficienza, mozione della sfera affettiva e rottura dell’autosufficienza narcisistica dell’io.

Elisir d'amore per .......la paesologia come "sentinella del territorio"

Non per richiamare il saggio detto latino "qui custodies custodes" nella esperienza della Comunità provvisoria abbiamo chiaro il senso da dare alle “sentinelle del territorio”, al senso profondo d rispetto e i cura per la terra-carne e i costumi consolidati nel tempo, alle insidie burocratiche della necessità di delimitare in un “parco” sociale i confini ideali per un impegno operativo e concreto, ad un uso propulsivo e contemporaneo della ricerca storico-archeologica nella programmazione attuale del territorio,ad un modo diverso di praticare il turismo della cura ,della clemenza e della compassione come necessità di stile di vita personale ed autentico……insomma abbiamo cercato di rovesciare non solo le premesse del discorso classico sull'impegno politico nella cultura meridionalistica molto idealistica e autorefrenziale e poco praticabile ma sopratutto stiamo cercando di seminare i semi teoretici della "paesologia" non per puro esercizio intellettual-filosofico ma come elemento discrimante di cotraddizione e di "conflitto" con la intellettualità civile e politica che continua imperterrita a vivere ai margini compromissori con un organizzazione del potere locale,provinciale e regionale ai limiti della decenza etica e della civiltà politica e giuridica della modernità accettabile. Franco spesso ha parlato di "clamorosa assenza della opinione pubblica",giusto ,ma non basta. Io mi soffermerei maggiormente sui nostri necessari atteggiamenti di rilievo e di denuncia che siamo costretti a mettere in essere nella difesa dei diritti civili,economici,culturali e politici verso chicchessia del nostro territorio.Il nostro problema è la necessità di stare sulla "realtà effettuale" di marginalità incresciosa e deprimente che i responsabili amministrativi e politici ogni giorno ci propinano e nello stesso tempo marcare una distanza culturale e discriminante concreta rispetto alle classi dirigenti dei nostri territori. A noi non interessa coltivare l’isolamento nobile ed estetico né il gusto masochistico della semplice rituale denuncia di chi è contro “aprescindere” ma soprattutto promuovere o svelare contraddizioni e conflitti con atteggiamenti,scelte e idee che no sempre sono coerenti con esigenze di “ragionamenti che si risolvono sempre in ‘prediche’ di chi continua a razzolare male nella gestione e nell’uso del potere pubblico.
mauro orlando



di franco arminio






Sono molti anni che esco quasi ogni giorno e vado in giro in posti dove non va più nessuno, posti a cui non crede più nessuno. Vado a vedere come stanno le cose, vado a vederle da vicino. La mia scrittura è un modo per uscire da me o per convivere con il dolore, una scrittura che si forma intorno a ciò che ho dentro e al modo in cui questo mio “dentro” si incontra, si incrocia con il “fuori”. Un scrittura fatta con tutto il corpo, un corpo a corpo col paese. Nessun paese è un luogo inerte. Ognuno ha un suo umore. Non ce ne sono due uguali. L’atmosfera cambia da un posto all’altro. Ogni volta che entro in un paese nuovo, provo un’emozione vera. Bisogna avere un occhio trasversale per superare ciò che, a prima vista, sembra uguale. È con quest’occhio e con questo cuore che tutto, piano piano, diviene interessante, unico. Un’osservazione partecipe diventa un’osservazione terapeutica. In fondo non posso nascondere che per me la paesologia è una terapia. Uscire dalle case in cui per tanto tempo ci siamo rintanati, pensando di stare al sicuro, uscire dalla baracca mefitica del proprio io. La paesologia è una strada sul crinale, a metà tra una nuova forma di impegno e una cerimonia religiosa, a metà tra poesia ed etnologia, sempre però ben lontani dalla paesanologia e dalle sue sagre.Se c’è una sagra che mi interessa è quella del futuro. Questa disciplina, allo stesso tempo inesistente e indispensabile, sta tutta nell’attenzione ai paesi come sono adesso. Il mio è un dolore che combatte contro la distrazione e la cecità. I paesi non sono morti, ci sono ancora, sono malati, esattamente come è malato tutto il pianeta. C’è una parola che può riassumere tutto: desolazione. Si tratta di una malattia nuova per i paesi. Prima c’era la miseria, c’era il mondo mirabilmente descritto da Carlo Levi, c’era la lontananza e l’oppressione, c’era la comunità dei poveri, degli umili. Siamo passati dalla civiltà contadina, a volte crudele, perfino spietata, a questa cosa oscena che chiamo modernità incivile.Il mio ultimo libro, più degli altri, esprime la scelta di porre una serena obiezione al mondo. La desolazione per me non è un epilogo, ma un punto di partenza per un nuovo modo di abitare la terra, una nuova postura. Ciò che io invoco è una nuova etica, un umanesimo delle montagne. La mia visione parte dallo sgomento di stare in un pianeta pieno di merci, un pianeta in cui non sappiamo più farci compagnia e nel quale ognuno in cuor suo sembra aver dato addio a tutti gli altri. In Terracarne parlo di autismo corale, parlo della nostra incapacità di passare il tempo in compagnia e in lietezza. È qui la radice di tutta la mia scrittura. La posta in gioco è tollerare l’incertezza di ogni cosa. La paesologia è una “scienza” arresa, non è una “scienza” facile. Scrivo a oltranza di luoghi che perdono abitanti e di abitanti che hanno perso i loro luoghi. È un invito ad abbandonare le sicurezze dell’uomo attuale, a scendere in basso, ad avvicinarsi alla terra, al mondo per come è e per come potrebbe essere nostro malgrado. È un atto di ascolto riverente, è inginocchiarsi davanti all’altare del vento e dell’aria, della luce, delle pietre. La paesologia è prendere i propri occhi e modificarli, è svelare la bellezza di ciò che gli altri ci fanno credere brutto, insignificante. Un punto di vista che parte dall’interno, dai nostri organi, dai nostri sensi e che ci lega a ciò che vive, che sta nel mondo. Non è più il tempo del delirio per l’umanità, non è più il tempo per le smanie capricciose dell’ “io”. Bisogna uscire, andar fuori, imparare a usare il corpo come un’astronave, apprendere da tutto ciò che è piccolo, inerme, silenzioso, vinto. Pregare per la sua salvezza, che è poi anche la nostra. Una piccola apocalisse silenziosa è in corso sotto i nostri occhi. Possiamo fingere di non vederla, o possiamo chinarci e prestare nuova attenzione, donarle lo sguardo, darle una voce. I paesi non sono un problema, sono una possibile soluzione. Non sono un esperto di faccende economiche, la mia ossessione è la scrittura. La mia è un’esperienza di dedizione assoluta alla scrittura. Inutile lamentarsi per la perdita di attenzione nei confronti della letteratura. L’unica cosa che uno scrittore può fare è scrivere libri veri, onesti, infiammati dal coraggio, costruiti con puntiglio e rigore.La paesologia non è un’evasione dalla letteratura. Cerca lettori combattenti. Per stare al mondo senza ammalarsi di noia e di ingordigia, ci vuole uno slancio disumano, ci dobbiamo convincere che siamo terracarne. In ciò che scrivo l’indagine su me stesso è intrecciata all’osservazione di un lampione, di una macchina parcheggiata, di una vecchia che cammina per strada. I deliri della mente e quelli delle betoniere, tutto per me è oggetto della paesologia. C’è bisogno di includere, intrecciare. Viviamo in un’epoca irrimediabilmente mescolata, a cui è inutile portare il broncio. La realtà, a dispetto di ogni oltraggio, rimane colossale e merita di essere raccontata.

mercoledì 23 novembre 2011

Elisir d'amore per ....un amico dell'Irpinia

....ci osserva ma non ci parla......la divinità è gelosa della notra felicità....

"Viviamo un’agonia ciarliera, dove le parole non si capisce se sono un tentativo di guarigione o un ulteriore approfondimento dell’agonia." Mi piacciono molto le cose che scrivi ma spero molto nella tua capacità di usare ,abusare ma anche reprimere la forza delle parole a creare labirinti insopportabili di dolore o di solitudine sofferente.Io mi gioco la mia vita mentale con le sirene ammalianti della filosofia non gratificato dalla intuizione o convinzione che la natura umana non trova il proprio compimento in questo mondo ma soltanto nella visione beatifica, nella perfezione soprannaturale mediante la grazia nella morte come ossessivamente ti suggerisce un tuo "amico" rassicurato dalla sua fede in una vita che si potrà vivere e declinare solo nel futuro dell'eternità.
Il vero sapere per me non è sapersi raccontare o raccontare ma si risolve nel sapere interrogare e nel saper rispondere .Nessuno riuscirà mai a diventare sapiente nell’isolamento, ma solo nell’assidua frequentazione e nel quotidiano dialogo con i suoi concittadini : Socrate dice “io amo imparare, ma la campagna e gli alberi nulla mi insegnano,imparo invece dagli uomini della città”
Tutti i dialoghi di Platone sono dialoghi politici e vera scienza è solo la scienza politica.”
Dallo spirito profondo delle tue parole ,di un ‘buon e giusto amico’ che non persegue il fine filosofico di mettere ordine alla propria anima ma a dare alle parole letteralmente il meglio di sé,a saperle fra piangere,ridere.innammorare….. la vita anche quando è dolore e sofferenza. A noi il compito solo di assecondare o gustare un clima di perfetta ‘koinonìa’, ‘affinità elettiva’ e godere le parole nel loro compito insinuante e pervasivo di mezzi di comunicazione vera,autentica e sentita . Il resto viene tutto da sé con la spontaneità e la profondità del comunicare mitico-religioso dei momenti importanti e cruciali della propria vita mentale e spirituale.
E’ facile ricogliere l’intrigante fascino del 'conflitto' del ‘mitos’, e la presuntuosa pretesa del ‘logos’ di tutto conoscere ; la profondità mistica della cultura ‘oracolare’ e l’intrigata e accattivante malia della poesia.
Non si poteva chiedere di meglio ad un 'amico': ricreare situazione migliore per un vero e maieutico dialogo in vista della scienza vera e della autentica ‘fronesis’(saggezza).C'è vera amicizia e koinonia solo se si è capaci immediatamente, per incanto ricercare,ricreare le sfide del ‘labirinto’ e delle sue prove cognitive e di ‘vita’ ; il conflitto ‘tragico’ tra la poesia delle dionisiache ‘baccanti’ con gli apollinei rituali di noi uomini ordinati e formali, l’impegnativa ricostruzione del senso di un velato sapere oracolare, profetico, divinatorio e onirico quale quello di Cassandra,la sfida ‘tragica’ dell’enigma per Edipo, il pathos e il fascino del nascosto ,del mistero e dell’infinito, il recupero della ‘follia’ come fonte della sapienza, il piacere dell’agonismo nella retorica ...... ed in questo , sentire e conoscere il fascino e la riscoperta delle proprie profondi e originali radici culturali non senza un legittimo e recuperato orgoglio.Senza moralismi e fastidi di una razionalità troppo solida ma disumana anche quando si accoppia con la fede.
Io non so e non voglio cadere nella brutta abitudine di 'dare consigli' non richiesti.So solo dire ciò che penso per me .
“Merita il nome di scienza soltanto ciò che conferisce il giusto ordine all’anima e rende migliori e felice colui che essa si dedica”
Epistème,sophìa,frònesis ,'la vera scienza' è quella in virtù con la quale l’uomo si cura di sé”.
Filosofia per me è un modo possibile di vita ,anzi il modo migliore di vivere felice.
Grazie non solo per quello che scrivi ma soprattutto per quello che vivi e fai per noi della “Comunità” e per la nostra bella e verde Irpinia
mauro orlando

Elisir d'amore per ......pensare e fare politica


.......tanto per ristabilire le priorità paesologiche a noi interessa di più cercare di capire cosa passa per la testa semplice di questo vecchio ‘panchinaro’ che nella testa complessa e politcista dei vari capogruppi nel Parlamento italiano o in quella intellettuale e professionale del nostro Presidente del Consiglio e dei nuovi ministri che comunque controlliamo con rigorosa e critica attenzione……se pur nella stima della loro funzione democrtica……
di mauro orlando
L’esperienza di franco del “ nord di pianura” e le sue considerazioni emozionali , come le sue considerazioni sulle esperienze politiche nei riguardi del nuovo governo Monti….. hanno bisogno di essere meditate e discusse non in modo personale ma comunitario e non per gusto agonistico o per esercizio sofistico ma per l’importanza che rivestono nella nostra possibile esperienza comunitaria nei piccoli paesi di tutte le realtà periferiche ed appenniniche dell’Italia. ”La visione e conoscenza paesologica “ ha il il privilegio e il merito di sgomberare il campo dagli equivoci malevoli , pretestuosi e modernisti di un comunitarismo e territorialismo a rischio identitario e xenofobo. .Esso punta costitutivamente ad una soggettività –plurale consapevole ed attiva e non “una specie di moda elitaria per i cittadini meno granitici, un modo per assicurare alle loro coscienze una parte di assoluzione”. Non è la nuova ideologia per “spaesati” ,”terremotati” ,abbandonati e stressati dal postfordismo e dalla globalizzazione neo liberista e speculativa che nelle zone interne e nelle periferie metropolitane ha spazzato via anche il possibile mito industrialista e modernizzatore superficiale delle coscienze.Le nostre proposte dei “ pensieri lunghi” della speranza e dei sogni non sono la pilatesca scelta irresponsabile al confronto con le machiavelliche “realtà effettuli” né la ricerca ossesiva degli “arcana imperi” dei poteri strutturali forti nelle istituzioni o deboli delle infrastrutture nelle società.Il nostro occhio e la nostra intelligenza sono orientati nelle vene della società dove si vive un senso di spaesamento depressivo (autismo corale e/o individuale) in un cambiamento antropologico di una società che non vede pur con mezzi scarsi fini certi: lavoro a vita ,possibilità di benessere,scolarizzazione per i figli più acculturati dei padri ecc. Oggi pur con maggiori ed abbondanti mezzi i fini diventano sempre più incerti. Anche se all’apparenza si può percepire e pensare “… alle certezze che la vita di pianura offre a chi la conduce”. Oggi la globalizzazione ci impone teoreticamente ossimori come “reti corte” e “pensieri lunghi “ o “reti lunghe ” e “pensieri brevi”. “ Ora comprendo meglio la calma e la silenziosa operosità di questi luoghi. Qui non c’è mai lo squarcio, da qui si può arrivare ovunque e ritornare in fretta. Si può programmare il giorno suddividendolo in decine di cose da fare in luoghi differenti e si può fare la strada al contrario quasi senza intoppi” Vivere al Nord può dare queste impressioni ma esiste un sottofondo carsico e depressivo chimicamente sedato , tutto prepolitico,segno di uno spaesamento antropologico in una sorta di distacco e di apatia che la Lega ha saputo trasformare in energia propulsiva per macinare consenso elettorale. Noi stiamo cercando di ragionare in modo completamente originale e non regressivo sulle due parole chiave del nuovo discorso politico: comunità e territorio. Il territorio non è solo lo spazio del conflitto e delle scelte politiche che afffrontano anche i grandi nodi della modernità globale e locale ( trasformazione dei lavori,nuova immigrazione ,fabbrica diffusa , fonti energetiche naturali quali acqua,aria, terra e sole ).La dissolvenza delle comunità originarie o dei nativi in comunità del rancore ,della diffidenza o del rinserramento o quella falsamente identitaria nell’esclusione dell’altro da sé. Io mi sto sempre più convincendo ( anche da una lettura attenta e dilatata nel tempo di Terracarne non per averne una visione a volo d’aquila ma a muso di cane ) fuori dagli equivoci della possibilità di una costruzione delle “comunità di cura” .Fuori dai fraintendimenti possibili una comunità operosa dei cittadini attivi ,consapevoli,liberi e reponsabili che operano per la inclusione e per la difesa dei diritti fondamentali della persona ,tra cui includerei anche il diritto alla cura e alla salute. Dovremmo con più lungimiranza lavorare per una convergenza tra comunità operosa e comunità di cura come antitodo per ridurre la sindrome da comunità del rancore. A partire dalla natura plurale conflittuale del territorio per non cadere nel pericolo del populismo xenofobo dell’ “ognuno padrone a casa sua” dobbiamo pensare ad una politica del fare “nuova società e nuova cultura”. Paesologia e comunitarismo insomma .Esprimere un pensiero di tipo e respiro strategico sulla terra nel mondo da salvaguardare e da vivere profondamente oltre allo starci ed abitarlo. La paesologia è anche la presunzione e la capacità di sentire “ che la percezione delle distanze” ma sopratutto la forza di superare la “difficoltà a trovare il tono giusto per parlare a questi ragazzi di luoghi come l’Irpinia d’oriente, come l’altura, l’Appennino, la dorsale impervia e franosa che vivo e che mi attraversa da anni, da quando sono nato”. Noi sappiamo che costa fatica vivere giorno dopo giorno “ il posto per la crepa, la spaccatura” e che non rifiutiamo per snobismo intellettualistico e neoariitocratico la città dove “ non c’è lo spazio per la bruttura improvvisa, per il degrado, per lo sfregio”. Non ci convince e non ci basta più parlare “di urbanocentrismo, di policentrismo…del concetto di centro e di periferia del centro”. E le nostre esperienze comunitarie e paesologiche non sono “ visioni”, ma consapevolezze conoscitive non solo per pensare ma per vivere “i piccoli paesi” in un rapporto esistenziale alla riscoperta della “grande vita “ che si nasconde tra le pieghe delle brutture di una modernità senza anima e di uno sviluppo senza progresso. Forse un giorno ognuno di noi si sentirà orgoglioso e rivoluzionario di essere vissuto dagli urbanizzati per costrizione e necessità “una specie di indiano di una riserva, il buon selvaggio esposto alla curiosità dei cittadini civilizzati, una tigre del bengala costretta a stare nello zoo di Vienna. Insomma qualcosa di esotico”. E allora fuori dai dubbi e paura ….” la paesologia “ non sarà percepita come “ una scienza esotica, una specie di moda elitaria per i cittadini meno granitici, un modo per assicurare alle loro coscienze una parte di assoluzione. Come dire: vedo, conosco altri luoghi nei quali mai andrei a vivere e questo mi rende migliore. Solo questo” E allora anche sentirsi “….franoso, instabile, in bilico” diventerà un modo e una possibilità di rappresentare un dubbio o un sospetto che il “ loro ordine interiore che traspare nel linguaggio, forbitissimo e accorto, nelle osservazioni, nella postura” e la loro condanna ad una inconsapevole non libertà e che la loro vita ha perso di autenticità e di anima.Tutto questo non esclude che io cittadino italiano ritengo utile, necessaria e qualitativamente rivoluzionaria nel mio paese la funzione della “politikè teknè” di un governo di saggi ,professionali,competenti e onesti ministri non solo rispetto alle inadeguatezze e responsabilità dei passati ceti politici ripetto alla gravità delle degenerazioni politiche ed economiche.Noi resteremo comunque attenti nel controllo ma distanti nei tempi, nelle prospettive ,nei fini e nei mezzi per pensare e fare politica.
mauro orland
o

Elisir d'amore per .....l'amicizia


-Abbiamo perso l’amico, si dice in questo secolo.
-No, il nemico, dice una voce, sul finire di questo stesso secolo.
Ed entrambi parlano del politico, ecco quel che vorremmo ricordare

Il mio percorso filosofico ha sempre fatto il mio implicito riferimento alla pratica di un pensiero astratto e universale che non vuole dire nulla, ma il cui compito fondamentale resta non solo quello di decostruire e destrutturare nelle sue contraddizioni e conflitti. L’intera tradizione metafisica o onto-logica occidentale c si esprime in primo luogo nel rilievo accordato alla terza persona dell’indicativo presente del verbo essere, attraverso cui normalmente viene predicato il significato nascosto dietro le cose, a cui di volta in volta la metafisica ha dato nome di essenza, sostanza, esistenza, coscienza…: categorie filosofiche tutte caratterizzate dal forte rilievo che al loro interno assumono le nozioni di presenza e presente (implicite nell’”è”).Mi hanno interessato in questi ultimi tempi le “scienze arrese” ,le esperienze esistenziali plurali e comunitarie che non solo riuscissero a depotenziare la potenza e sovranità assoluta di un LOGOS che non fosse “umano troppo umano”.Per queste esigenze teoretiche ,esistenziali e …..politiche che ultimamente avevo sentito la necessità di parole (lògoi) di poesia per richiamare a me e agli altri le nostalgie di futuro e non di passato“….….non si possono fare poesie con tutte le disavventure che ci capitano:Avevamo inventatoil museo dell’aria.Niente da fare.Va bene l’aria ,non il museo.Volevamo dare occhi d’infanziaal paese.Niente da fare.Vanno bene gli occhi , ma devono essereciechi.Abbiamo creduto a una festaChe ci facesse leggere poesiein un cimitero.Niente da fare.Va bene il cimitero, non le poesie.Avevamo l’idea di non consumarela cultura ma di mischiarlaalle cicorie,agli intonaci dei muri.Niente da fare.Va bene la cultura , purchènon ci sia.Crediamo al silenzio, al vento, al buioAlla nascita provvisoria, alla morteSenza fine.Niente da fare.Hanno trafugato le roseButtando via le spine”
Avevamo assaporato la possibilità di “una rivoluzione sismica nel concetto politico dell’amicizia”. Sapevamo di aver contratto un debito da tempo con i temi della filosofia e della pratica politica che si richiamava e si finalizzava alla “rivoluzione” fatta dagli altri e da noi in situazioni culturalmente e socialmente privilegiate. Scriveva correttamente Derrida : “Ci sentiamo perciò, è vero, chiamati ‘in diretta’ a delle risposte o a delle responsabilità immediate. E’ anche vero che esse sembrano iscriversi più naturalmente nello spazio della filosofia politica. E’ vero, sarà sempre vero, e noi siamo a questo proposito sempre in difetto. Le nostre risposte e le nostre responsabilità non saranno mai adeguate e mai abbastanza dirette. Il debito è infinito”.Avevamo con generosità pensato all’amicizia come valore estensivo alle nostre esigenze sentimentali,affettive e passionali per un cambiamento radicale e autentico.Il tema e la pratica dell’amicizia avrebbe potuto essere affrontata da vari punti di vista, magari bordeggiando soltanto gli aspetti più propriamente politici per affrontare in primis quelli sociali, psicologici, affettivi e sentimentali, ma quel che ci interessava è la puntuale decostruzione e pratica critica , a partire dall’amicizia, di una precisa tradizione del politico, la nostra, che ha sempre espresso la precisa consapevolezza che suo compito è di creare il massimo di legame sociale,individuale e comunitario assieme. Fine della politica e della rivoluzione è quel “vivere bene” che si realizza compiutamente solo nel “vivere insieme”, e questo “non è niente di meno che l’amicizia in generale” . Tutto ciò che accade nella pòlis (per noi non tanto uno spazio chiuso ma un spazio nomade e mobile), come afferma Aristotele nel libro III della Politica, è opera dell’amicizia. E’ anche vero che tale tradizione ha scelto per secoli di modularsi sui principi di appartenenza,territorialità,etnicità e non su quello di fraternità o comunanza (koinonìa).Per questo e per tanto altro ancora mi sento vicino e in comunanza con le parole della Edda e ancora ho la speranza e la fiducia che possano trovare spazio e senso nelle esperienze che potremmo continuare nella Comunità provvisoria di ieri ,oggi edomani.Io resto un inguaribile pessimista con propensioni all’ottimismo.Grazie Edda continua a scriverci….
Con amicizia
mauro

lunedì 21 novembre 2011

Elisir d'amore per ......l'ascesi e la discesa.....

Tra esperienza mistica di Erri De Luca e la vita “paesologica” di Franco Arminio

Una lotta tra la terra che vuole smettere di attrarci nel vivere e il cielo che inizia nel miraggio del pensare. Tra il finito pensato e l’infinito sognato. Un infinito che avvolgendoti come vento ti arruffa i capelli…libera con le vertigini dell’altura la tua mente da tutte le zavorre e le polvere sottili della pianura evitando il rito mistico del girotondo dei dervisci. Sulle rupi e le vetti ti metti in ascolto del vento d’altura che allontana gli schiamazzi del mondo. Non si pensa all’origine del vento ma al suo suono che non è deviante come le sirene di Ulisse.Uno che va per i monti è un solitario,ascetico.mistico, uno che va per città è un vagabondo,un turista, un borderline,un emarginato…. uno che va per paesi è un viandante o pastore che vede lontano e in profondità perché non ha una meta ma un cammino da percorrere in avanti e all’indietro come gli animali selvatici che fiutano e percepiscono segni remoti e nascosti ai più. Il mistico cammina con la sua solitudine per lasciarsi alle spalle rumori di fondo e la babele dei non-luoghi. E a quelli che gli chiedono cosa aveva visto sulla vetta e sulla rupe risponde di aver sentito e pesato un senso di spaesamento e che non aveva parole per rispondere e usava le parole della poesia : un vuoto senza ali,una luce che si infiltra nel vento,la felicità di guadagnarsi il sole, un silenzio che si fa sinfonia, un ascolto dilatato del proprio cuore,un risentire il varco doloroso materno verso la luce della smemoratezza nel tuffo e nel vuoto della vita umana, e l’appoggiarsi delicatamente al bordo della rupe non per sperimentare il vuoto o il nulla ma per sentire dove finisce il mondo e comincia il tempo, sentire la tristezza dolorante e dolorosamente umana del getsemani dell’anima turbata dalla speranza per la resurrezione del corpo, il ricordo e la ricerca che lo stordivano, il cielo stellato sopra di noi che perdeva pezzetti di comete e non ti invogliava a cercare leggi morali dentro di te ma amare la solitudine spaziosa che non ti spaura ma alimenta la tua curiosa fantasia , il non andare a verificare se la terra smette e comincia il cielo o per riportare il cielo in terra, ma ad imparare a desiderare e apprezzare di abitare e vivere il dono della terra,lo sperimentare il precipizio nel vuoto che ci ricorda la solidità terrena della memoria, il vivere come la messa a fuoco tra la salita all’infinito e la discesa al finito senza fine di continuità. La discesa nel mondo dei “piccoli paesi dalla grande vita” non è la triste e forzata discesa tra gli uomini della esperienza solitaria di Zaratustra . Ciò che ognuno di noi ha vissuto, sentito,visto e pensato sulla rupe l’abbiamo chiamata “paesologia” come presupposto della ascesa mistica ma senza il miraggio della divinità . Paesologico è praticare la poesia che sa parlare della forza che hanno le stelle quando esplodono, le assurdità che passano per il mondo, il marciapiede su cui camminiamo, la sedia su cui stavamo seduti a cinque anni,il letto su cui dormiamo.,distinguere le emozioni delicatissime dalla vacua logorrea di calibratissmi congegni letterari e semplici eruzioni egotiche, evitare gli ipocriti, gli animali a sangue freddo, coccodrilli mummificati che all’improvviso si sciolgono e spalancano le loro fauci, gli estremisti parolai e moderati, il non farsi affliggere più di tanto dagli eroi dei luoghi comuni e della conservazione , il vivere la disponibilità di spazio e di terra sterilizzando i luoghi anche dalla puzza delle automobili, sapendo che siamo noi la cosa che manca e non risponde all’appello e alla sollecitazione,l’ imparare ad accudire con fervore e generosità il mondo e il luogo che ci ospita, mettersi al capezzale dei piccoli paesi , paesi della mancanza e del vento che scompiglia ed agita,il diffidare delle parole ma anche volergli bene per non farle assomigliare ad una truffa,lo smascherare i devoti del conformismo, i luminari dell’ipocrisia, i professionisti del calcolo costi/benefici,l’andare fuori a prendere aria e cercare instancabilmente spiragli,crepe e fessura come via di fuga per una esperienza autentica,l’ educarci agli sguardi lunghi e alle passioni e sentimenti caldi,lo scegliere di lasciare dietro di noi i miraggi e le distorsioni della modernità nella nostra risalita sul meteorita che guarda simbolicamente tutta l’Irpinia per far germogliare pensieri intorno all’altura degli appennini come luogo di transito che allontanano tutte le visioni statiche e separatiste, il vivere la penuria e la lentezza come occasione per guardarsi intorno e per guardarsi dentro, il fantasticare e immaginare un museo dell’aria senza arredi e custodi, senza cartelli segnaletici o guide sulla nuca del meteorita che spunta nella valle dell’Ofanto,tra il Formicoso e la Sella di Conza, anche nell’equivoco di chi vuole pensare a un Dio come l’aria e non come lògos, un Dio ha tanti fedeli inconsapevoli e tante chiese, una per ogni polmone, per ogni acquasantiera del respiro. Questo una volta il viaggio esistenziale verso Cairano 7X che si è voluto dividere nel tempo e nello spazio non nello spirito del sogno tra ascesi mistica e esperienza ‘paesologica’.
Mauro orlando

domenica 20 novembre 2011

elisir d'amore per ....le speranze dentro di noi




“una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia”.


di elda martino


Gentili amici,oggi ho riaperto il pc con una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia.In questi giorni ho pensato e ripensato all’ esperienza nascente delle comunità provvisorie ( nome orribile, me lo si permetta…sembra una cosa da saldi di fine stagione…, in più, perdonatemi, la parola communitas non ha un plurale, è già un nome collettivo, pluralizzarlo significa tradirlo due volte, nel significato e nella forma).Ho riflettuto a lungo e bene, ne ho avuto modo anche data la mia situazione di inoperosità forzata.Queste righe di seguito specificano meglio ciò che ho brevemente sintetizzato in quello che, sic stantibus rebus, sarà il mio unico commento sul nuovo blog. Prendetele come le riflessioni assolutamente amichevoli di un’inattuale, Nietzsche mi perdonerà per questo spostamento di genere……….
1) non considero né posso considerare le persone ( così come tutti gli esseri viventi) come dei mattoncini sostituibili con altri diversi, né posso pensare che un trauma come la fine di un’esperienza in cui avevo creduto possa essere risolto con leggerezza o con superficialità. L’autismo attinge proprio da questi principi, l’idea che la persona, l’uomo o la donna non siano unici ma semplici oggetti dell’Utile assurto a legge e, quindi, consumatori, fruitori di ciò che si produce, chi siano e come siano non conta, l’importante è che ci siano. Scusatemi, ma che questa operazione rischi di andare a finire lungo una linea del genere mi pare più che evidente.
1bis) la paesologia è condizione necessaria ma non sufficiente per la fondazione di una comunità, essa, in quanto scienza arresa- splendida definizione- non ha fondamenta stabili, di conseguenza i “pilastri” di questa eventuale vicenda vanno ben individuati e riconosciuti prima di esporsi pubblicamente. Bisognerebbe guardarci in faccia e dirci tutto quello che c’è da dire, senza finzioni e senza retropensieri e senza atteggiamenti fasulli. Alla base di questa esperienza dovrebbe esserci la verità, la pietas e la constatazione dell’inesorabilità e l’irreparabilità del mondo così com’è ora.
1ter) fare comunità è compiere un esodo irrevocabile, senza più presupposti né condizioni di appartenenza o di individualità, essere sì, ma essere quodlibet, essere qualunque, singolare ma senza identità; fare comunità è la costruzione collettiva di un corpo comunicabile.
2) quando qualcosa finisce c’è bisogno di un periodo di elaborazione e di silenzio anche. Se questo “fermo” non c’è, non viene naturale, non scatena anche dispiaceri e sconforti, allora forse vuol dire che ciò che è finito non era veramente sentito e che ciò che verrà partirà da presupposti di scarso amore, di ancor più scarsa attenzione. L’usa e getta è uno dei tipici automatismi dell’autismo corale. non possiamo fare come gli struzzi, i lutti vanno elaborati e non scotomizzati.
2bis)non si tratta di sostituire una macchina vecchia con una nuova, si tratta di fondare ( e vedete che dico fondare e non ri-fondare) una comunita’, una communitas, un luogo di scambi reciproci, di reciproci riconoscimenti. Si tratta di metterci in dubbio, di guardare oltre l’orlo, di andare “fuori” e non di creare semplicemente un nuovo “brand”. Ho trascorso gli ultimi due anni nella cp a dire che c’era bisogno di un “mutamento nel cuore”, voi cosa ne pensate? Basta cambiare logo e luogo per essere diversi? Ho i miei dubbi.
2ter)non rischiamo di fare errori già commessi? Io non ho mai creduto alla teoria del chiodo scaccia chiodo e le modalità con cui questa nuova creatura sta nascendo mi sembrano da discutere e da analizzare in profondità. Tutta questa fretta ossessiva di dire “Ehi! Ci siamo! Non siamo spariti…” , ma perché? E a quale scopo, a quale scopo “comunitario”?L’esposizione è urtare contro un limite e toccarlo, l’esposizione è rischiare di ferirsi anche, di farsi male, non comunicare banalmente la propria presenza al mondo dell’Utile.
2quater) l’idea di attrarre altre esperienze quando ancora non abbiamo capito COME vogliamo essere noi è solo un modo per annacquare e allontanare la vera questione, una questione che da mesi ci stavamo e ci stiamo trascinando dietro.
3) ci sono fra noi persone che tanto hanno dato e fatto, persone che si sono spese davvero, franco prima di tutti, ma anche altri, coi loro modi e il loro modo di essere, il loro quodlibet. Non è molto corretto nei riguardi di tali amici ripartire senza un cambiamento sensibilmente reale e tangibile, a cominciare dalla modalità, dalla lingua, dai pensieri, dalle visioni e dai rapporti tra noi, senza avere la massima cura di una vera nuova considerazione, un modo nuovo di guardare l’altro da sé.
3bis) Fondare un “luogo” comunitario significa mutare prima di tutto se stessi, senza certezze, senza l’idea di essere migliori o di essere diversi a priori. Siamo disposti a partire dalle nostre singolarità, ad annullarle in un singolare senza identità? Altrimenti qual è la differenza? qual è la differenza tra i convegni fiume e le scampagnate e questo nuovo modello?
4) vogliamo essere una comunità o un posto come tanti altri? vogliamo essere persone che si incontrano occasionalmente o vogliamo fare parte di un’esperienza veramente innovativa? veramente “rivoluzionaria” e utopica? vogliamo essere folli o vogliamo semplicemente farci vedere, esporre le nostre mercanzie e farci dire quanto siamo bravi e quanto siamo buoni rispetto ai cattivi che stanno dall’altra parte?è questo quello che vogliamo o vogliamo provare a “volare”?
4bis) se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato. abbandoniamo i ben noti provincialismi che ci portano a dare più valore a chi è estraneo o nuovo e facciamo i conti con chi c’è, c’è stato e c’era già, poi apriamoci agli altri, ma non come si apre un supermercato, bensì come si può tenere aperta una porticina minuscola nella quale, per entrare, bisogna faticare e insistere
5) punto , forse, più importante di tutti: il problema non è l’essere ma il COME, il come essere. e su questo io non ho visto ancora nessuna vera apertura per un dibattito, a parte le considerazioni di Salvatore d’Angelo e alcuni contatti che ho avuto con Sergio Pagliarulo e Mauro Orlando, per uno scambio che faccia tremare sul serio le fondamenta di certezze stratificate dal tempo, dalle abitudini di ciascuno di noi e dalla vita.
spero di non avervi annoiati con le mie riflessioni e auguro a questa creatura una lunga vita e buona fortuna.
vi saluto e abbraccio con affetto chi sa abbracciare, chi sa avvertire la gioia e il dolore del Mondo, quello vero, quello con la EMME maiuscola…elda
Cara Elda ,per quanto tempo mi sono speso ed addolorato nel tentativo di “scavare nelle parole” incerca della luce,della fragranza,della musica,della voce di chi le scriveva per non far perdere il ricordo di sè.Le tue parole scritte mi hanno emozionato e sconvolto ma hanno dato senso ai miei dolori e alle mie gioie della nostra bella avventura comunitaria.Le tue parole ,credimi , hanno senso eccome almeno per me che mi hanno educato a imprigionarle nella logica e nel realismo più rigido.Comunque io ancora credo nella parola perchè credo negli altri non indiscriminatamente ora….e per ringraziarti voglio farti dono delle parole di una “donna” che ho molto amata e cercata che cantava il suo struggimento d’ amore con queste parole “….i vezzi di leggiadre corolle…./ e l’olio da re ,forte di fiori/ che la tua mano lisciava/ sulla lucida pelle;/ e i molti letti/ dove alle tenere fanciulle ioniche/ nasceva amore delle tua bellezza/ “. Leggere le tue parole mi hanno creato un tale disaggio e senso di inadeguatezza che per commentarle prendo in uso le parole di un commntatore delle poesia-canto di Saffo ” C’è una qualità sottile, una quasi struggente parentela tra tutti quelli che un istinto misterioso chiama avivere e ad esprimere la verità profonda del proprio essere: e che paradossalmente li guida, nello stesso istante in cui dedicano ogni forza acercare una comunicazione totale con gli altri, ad avvertire i limiti insuperabili che fanno inestricabile parte della loro impresa bella ed angosciosa.I poeti e il loro impegno di esistere:cercare di dire tutto e tutto il vero, e scoprirsi isolati in una sfera di indicibile – nonostante la sapienza del dire- esperienza interiore.Lei come struggente persistenza vitale, di carne di sangue. Accesa dal balenare delle dolcezze che erano, che fino alla fine continueranno ad essere, il tutto: il condiviso tutto che possiamo, al più e al massimo, avere su questa terra” (G. Mascioni ,Lo specchio greco, Mondadori) Sono parole che ho sentito mie e che sentivo ti riguardassero mentre leggevo il tuo scritto ed ho capito che non possiamo ulteriormente sprecarle in spazi comunicativi che non recuperino il senso , l’amore (koinonìa) per il bello che circolava come incenso nelle comunità dei “thiasi”e delle “eterie” della nostra civiltà ellenica……ma le più belle parole che ho letto in questi scambi epistolari sono: Elda ti vogliamo tanto bene e non farci mancare le tue parole e la tua persona..con un affetto immenso e inesprimibilemauro






“una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia”.
…….ricordo a tutti gli amici che questo non è e non vuole essere un blog letterario.siamo qui per cercare nuovi modi di stare insieme, nel reale e nel virtuale……franco arminio di elda martino





Gentili amici,oggi ho riaperto il pc con una speranza dentro di me, una speranza di cambiamento e di utopia.In questi giorni ho pensato e ripensato all’ esperienza nascente delle comunità provvisorie ( nome orribile, me lo si permetta…sembra una cosa da saldi di fine stagione…, in più, perdonatemi, la parola communitas non ha un plurale, è già un nome collettivo, pluralizzarlo significa tradirlo due volte, nel significato e nella forma).Ho riflettuto a lungo e bene, ne ho avuto modo anche data la mia situazione di inoperosità forzata.Queste righe di seguito specificano meglio ciò che ho brevemente sintetizzato in quello che, sic stantibus rebus, sarà il mio unico commento sul nuovo blog. Prendetele come le riflessioni assolutamente amichevoli di un’inattuale, Nietzsche mi perdonerà per questo spostamento di genere……….
1) non considero né posso considerare le persone ( così come tutti gli esseri viventi) come dei mattoncini sostituibili con altri diversi, né posso pensare che un trauma come la fine di un’esperienza in cui avevo creduto possa essere risolto con leggerezza o con superficialità. L’autismo attinge proprio da questi principi, l’idea che la persona, l’uomo o la donna non siano unici ma semplici oggetti dell’Utile assurto a legge e, quindi, consumatori, fruitori di ciò che si produce, chi siano e come siano non conta, l’importante è che ci siano. Scusatemi, ma che questa operazione rischi di andare a finire lungo una linea del genere mi pare più che evidente.
1bis) la paesologia è condizione necessaria ma non sufficiente per la fondazione di una comunità, essa, in quanto scienza arresa- splendida definizione- non ha fondamenta stabili, di conseguenza i “pilastri” di questa eventuale vicenda vanno ben individuati e riconosciuti prima di esporsi pubblicamente. Bisognerebbe guardarci in faccia e dirci tutto quello che c’è da dire, senza finzioni e senza retropensieri e senza atteggiamenti fasulli. Alla base di questa esperienza dovrebbe esserci la verità, la pietas e la constatazione dell’inesorabilità e l’irreparabilità del mondo così com’è ora.
1ter) fare comunità è compiere un esodo irrevocabile, senza più presupposti né condizioni di appartenenza o di individualità, essere sì, ma essere quodlibet, essere qualunque, singolare ma senza identità; fare comunità è la costruzione collettiva di un corpo comunicabile.
2) quando qualcosa finisce c’è bisogno di un periodo di elaborazione e di silenzio anche. Se questo “fermo” non c’è, non viene naturale, non scatena anche dispiaceri e sconforti, allora forse vuol dire che ciò che è finito non era veramente sentito e che ciò che verrà partirà da presupposti di scarso amore, di ancor più scarsa attenzione. L’usa e getta è uno dei tipici automatismi dell’autismo corale. non possiamo fare come gli struzzi, i lutti vanno elaborati e non scotomizzati.
2bis)non si tratta di sostituire una macchina vecchia con una nuova, si tratta di fondare ( e vedete che dico fondare e non ri-fondare) una comunita’, una communitas, un luogo di scambi reciproci, di reciproci riconoscimenti. Si tratta di metterci in dubbio, di guardare oltre l’orlo, di andare “fuori” e non di creare semplicemente un nuovo “brand”. Ho trascorso gli ultimi due anni nella cp a dire che c’era bisogno di un “mutamento nel cuore”, voi cosa ne pensate? Basta cambiare logo e luogo per essere diversi? Ho i miei dubbi.
2ter)non rischiamo di fare errori già commessi? Io non ho mai creduto alla teoria del chiodo scaccia chiodo e le modalità con cui questa nuova creatura sta nascendo mi sembrano da discutere e da analizzare in profondità. Tutta questa fretta ossessiva di dire “Ehi! Ci siamo! Non siamo spariti…” , ma perché? E a quale scopo, a quale scopo “comunitario”?L’esposizione è urtare contro un limite e toccarlo, l’esposizione è rischiare di ferirsi anche, di farsi male, non comunicare banalmente la propria presenza al mondo dell’Utile.
2quater) l’idea di attrarre altre esperienze quando ancora non abbiamo capito COME vogliamo essere noi è solo un modo per annacquare e allontanare la vera questione, una questione che da mesi ci stavamo e ci stiamo trascinando dietro.
3) ci sono fra noi persone che tanto hanno dato e fatto, persone che si sono spese davvero, franco prima di tutti, ma anche altri, coi loro modi e il loro modo di essere, il loro quodlibet. Non è molto corretto nei riguardi di tali amici ripartire senza un cambiamento sensibilmente reale e tangibile, a cominciare dalla modalità, dalla lingua, dai pensieri, dalle visioni e dai rapporti tra noi, senza avere la massima cura di una vera nuova considerazione, un modo nuovo di guardare l’altro da sé.
3bis) Fondare un “luogo” comunitario significa mutare prima di tutto se stessi, senza certezze, senza l’idea di essere migliori o di essere diversi a priori. Siamo disposti a partire dalle nostre singolarità, ad annullarle in un singolare senza identità? Altrimenti qual è la differenza? qual è la differenza tra i convegni fiume e le scampagnate e questo nuovo modello?
4) vogliamo essere una comunità o un posto come tanti altri? vogliamo essere persone che si incontrano occasionalmente o vogliamo fare parte di un’esperienza veramente innovativa? veramente “rivoluzionaria” e utopica? vogliamo essere folli o vogliamo semplicemente farci vedere, esporre le nostre mercanzie e farci dire quanto siamo bravi e quanto siamo buoni rispetto ai cattivi che stanno dall’altra parte?è questo quello che vogliamo o vogliamo provare a “volare”?
4bis) se la paesologia e la comunità sono un’esperienza “politica”, allora bisogna uscire dall’indifferenza della politica per come è condotta e usata e abusata adesso, bisogna abbandonare l’indifferenza verso le persone e per le persone, a cominciare da chi ci è più vicino, a cominciare da chi ha fatto affidamento su di noi, a chi a noi si è affidato. abbandoniamo i ben noti provincialismi che ci portano a dare più valore a chi è estraneo o nuovo e facciamo i conti con chi c’è, c’è stato e c’era già, poi apriamoci agli altri, ma non come si apre un supermercato, bensì come si può tenere aperta una porticina minuscola nella quale, per entrare, bisogna faticare e insistere
5) punto , forse, più importante di tutti: il problema non è l’essere ma il COME, il come essere. e su questo io non ho visto ancora nessuna vera apertura per un dibattito, a parte le considerazioni di Salvatore d’Angelo e alcuni contatti che ho avuto con Sergio Pagliarulo e Mauro Orlando, per uno scambio che faccia tremare sul serio le fondamenta di certezze stratificate dal tempo, dalle abitudini di ciascuno di noi e dalla vita.
spero di non avervi annoiati con le mie riflessioni e auguro a questa creatura una lunga vita e buona fortuna.
vi saluto e abbraccio con affetto chi sa abbracciare, chi sa avvertire la gioia e il dolore del Mondo, quello vero, quello con la EMME maiuscola…elda
Cara Elda ,per quanto tempo mi sono speso ed addolorato nel tentativo di “scavare nelle parole” incerca della luce,della fragranza,della musica,della voce di chi le scriveva per non far perdere il ricordo di sè.Le tue parole scritte mi hanno emozionato e sconvolto ma hanno dato senso ai miei dolori e alle mie gioie della nostra bella avventura comunitaria.Le tue parole ,credimi , hanno senso eccome almeno per me che mi hanno educato a imprigionarle nella logica e nel realismo più rigido.Comunque io ancora credo nella parola perchè credo negli altri non indiscriminatamente ora….e per ringraziarti voglio farti dono delle parole di una “donna” che ho molto amata e cercata che cantava il suo struggimento d’ amore con queste parole “….i vezzi di leggiadre corolle…./ e l’olio da re ,forte di fiori/ che la tua mano lisciava/ sulla lucida pelle;/ e i molti letti/ dove alle tenere fanciulle ioniche/ nasceva amore delle tua bellezza/ “. Leggere le tue parole mi hanno creato un tale disaggio e senso di inadeguatezza che per commentarle prendo in uso le parole di un commntatore delle poesia-canto di Saffo ” C’è una qualità sottile, una quasi struggente parentela tra tutti quelli che un istinto misterioso chiama avivere e ad esprimere la verità profonda del proprio essere: e che paradossalmente li guida, nello stesso istante in cui dedicano ogni forza acercare una comunicazione totale con gli altri, ad avvertire i limiti insuperabili che fanno inestricabile parte della loro impresa bella ed angosciosa.I poeti e il loro impegno di esistere:cercare di dire tutto e tutto il vero, e scoprirsi isolati in una sfera di indicibile – nonostante la sapienza del dire- esperienza interiore.Lei come struggente persistenza vitale, di carne di sangue. Accesa dal balenare delle dolcezze che erano, che fino alla fine continueranno ad essere, il tutto: il condiviso tutto che possiamo, al più e al massimo, avere su questa terra” (G. Mascioni ,Lo specchio greco, Mondadori) Sono parole che ho sentito mie e che sentivo ti riguardassero mentre leggevo il tuo scritto ed ho capito che non possiamo ulteriormente sprecarle in spazi comunicativi che non recuperino il senso , l’amore (koinonìa) per il bello che circolava come incenso nelle comunità dei “thiasi”e delle “eterie” della nostra civiltà ellenica……ma le più belle parole che ho letto in questi scambi epistolari sono: Elda ti vogliamo tanto bene e non farci mancare le tue parole e la tua persona..con un affetto immenso e inesprimibilemauro

venerdì 4 novembre 2011

Elisir d'amore per ......."Terracarne"

perchè amo "terracarne" ...viaggio onirico nella mia anima irpina......

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Ottima idea da persegire e definire per i scritto.Ma io l’ho gia letto nei tuoi testi, nelle teu poesia ,nelle tue certoline.Certo è opportuno farne sintesi per i più distratti ,sordi,dubbiosi,inadeguati e …malevoli . La pesologia ha il vezzo di chiamrsi arresa,provvisoria ….ora appartata ma per pochi è un continuo pugno allo stomaco mentale e sentimentale.E ci sono ancora stomaci liberi e responsabili che non sono sedati dai vari “malox” della psicologia e intellettualità…..Io sto meditando il tuo ultimo e primo libro “terracarne” ed ho bisogno di tempo,di sedimantazione, di piacere cenetllinato della mente e del cuore.Le cose che ti cambiano in continuazione hanno bisogno di libertà e aria rarefatta….di monasteri immaginari e autogeni…… Alla paesologia non interessano i “non luoghi”degli spazi metropolitani privi di identità e di memoria ma soprattutto scarsi di relazioni. Dove vive una “collettività senza festa” e si soffre la “solitudine senza l’isolamento”. Si vive in un epoca del “tempo veloce, accelerato”.Il futuro è sempre più alle nostre spalle, in soggezione ad un presente che ci sommerge e ci virtualizza .E persino la storia è diventata un fatto mediatico.Il futuro non solo sembra senza senso e fine ma ci carica sopratutto di ‘paure’ e nel suo orizzonte esclude le categorie di ‘progetto’ e ‘speranza’.Paure economiche, sociali,ecologiche e perfino “metafisiche e religiose”.L’avvenire è rubato soprattutto ai più giovani. Una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica toglie potere e crea esclusione in quelli che non si ritrovano in questi poli. La rivoluzione informatica aiuta e favorisce i meglio tecnologizzati e i già informati o i ‘giàformati’.
.Il nostro “io” occidentale e moderno svuotato di senso è costretto a cimentarsi con i pieni dei poteri economici e culturali a cui ci eravamo abituati dall’Illuminismo in poi. C’è oggi la necessità di coltivare una ragione che si fa “luce” e si fà ‘compassionevole’ e ‘fraterna’ in un colloquio doloroso e difficile con le “ombre”, con l’assenza, col mistero, con il sacro, con gli esclusi , gli sconfitti con i luoghi abbandonati economicamente e terremotati interiormente o lontani dai centri decisionali dei poteri. Il suo compito precipuo e costruttivo è non solo capire e dare un nome alle cose e alle persone ma di suggerire altro.Creare aspettative e possibilità è già costruire presente e precostituire futuro. Ripropone una caratura politica molto complicata,complessa e sottile che va al di là del sociologismo astratto e il meridionalismo politologico e di maniera se pur nobile.E’ una richiesta di superamento ,filosofico direi, dell’Illuminismo non ideologico e dottrinale dove il rifiuto delle “magnifiche sorti e progressive”, delle utopie astratte e ideologiche e delle speranze universali e necessarie nel futuro ci impone una idea più che di recupero o di salvezza delle persone ,delle cose e della natura, di amore di esse ma non più per indicare il loro possibile futuro ma per la vivibilità del loro presente reale e per un rispetto per il passato che non passa e non ritorna nello stesso tempo. Punta soprattutto a far crescere una capacità personale di guardare e conoscere le cose e amarle disinteressatamente in sè stesse e per sé stesse. Una riproposizione esistenziale ,vitale e attiva della ’modernità’ non necessariamente contrapposta alla ‘antichità’ ma nella sua capacità intellettuale ed umana di vivere l’antico, il tradizionale, il periferico,l’emarginato, l’escluso,l’altro da sé insomma come un possibile “inizio”,curando una massima consonanza,intimità con i luoghi, le cose e le persone insieme orlando alla massima lontananza e alterità…………….e il viaggio continua………
mauro orlando