lunedì 24 settembre 2018

Una stanchezza che cura


Nel suo libro La società della stanchezza (Nottetempo, 2012, pp. 81, euro 7), il filosofo Byung-Chul Han sostiene che la società del XXI secolo non può più essere intesa come una società di tipo disciplinare, ma una società della prestazione. I soggetti infatti che la compongono non sono più sottoposti, attraverso determinati dispositivi, a forme di obbedienza, come magistralmente ci ha insegnato Michel Foucault, si caratterizzano piuttosto come imprenditori di se stessi.

Le patologie cui tale soggetto incorre non sono più di tipo batterico o virale, a istanza immunologica, quanto di tipo neuronale. La depressione, la sindrome da deficit di attenzione o iperattività, il disturbo borderline di personalità o la sindrome di burnout, derivano da un eccesso di positività. È il terrore di non essere all’altezza delle proprie aspettative, qui ed ora, immediatamente, nella situazione di performance che ogni singolo individuo sente di dover offrire, ma che in effetti pretende prima di tutto da se stesso.

Questo non significa che il cambiamento di paradigma dalla società disciplinare alla società della prestazione sia in perfetta discontinuità, anzi, persiste una profonda continuità. Il soggetto di prestazione rimane a suo modo disciplinato, obbediente, ma la sua capacità produttiva introduce una risorsa in più: il proprio desiderio. Si tratta di una risorsa perché desiderio e prestazione non trovano mai il loro perfetto congiungimento, anzi rimangono semmai l’uno l’alimento della mancanza dell’altro; in modo tale che il sentimento di fondo che permane nel soggetto è la necessità di rispondere positivamente al timore di non riuscire a reggere la pressione. Il permanente stato depressivo latente con cui il soggetto di prestazione si misura non deriva allora da un eccesso di responsabilità e di iniziativa, ma dalla sensazione di non riuscire a corrispondere all’obbligo assunto con se stessi. Nonostante il fondo di insoddisfazione latente da fronteggiare, tale soggetto rimane un individuo che fondamentalmente non fa altro che lavorare, in qualsiasi momento, anche quando è alla ricerca del proprio godimento. È l’animal laborans che sfrutta se stesso in modo del tutto volontario, senza alcuna evidente costrizione esterna, divenendo così al tempo stesso vittima e carnefice della propria autoreferenzialità.

Il lamento interiore di questo soggetto non corrisponde a un “niente è più possibile”, ma alla paura della propria inadeguatezza a fronte del fatto che “niente è impossibile”. Il non riuscire a essere a questa altezza conduce il soggetto a una guerra intestina con se stesso. Libertà e costrizione coincidono, o meglio, si arriva alla paradossale costruzione di una libertà costrittiva, dove risiede il desiderio incolmabile di massimizzare la propria prestazione.  Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale.

Dunque, che fare? Non si può certo contrapporre a questa iperattività un altro contromovimento, che non farebbe altro che aggiungere altra attività, si tratta piuttosto di fare un buon uso della stanchezza che tutto questo comporta. È sentire la stanchezza come una forma di cura, mantenendo attiva la consapevolezza che al fondo di un’attenzione contemplativa è insita una forma profonda di staticità. Se il sonno infatti è il culmine del riposo fisico, il sentimento di un’immobilità profonda è il culmine del riposo spirituale, tanto è vero che, come ci ricorda Walter Benjamin, è solo l’uccello incantato che può covare l’uovo dell’esperienza. La capacità di posare uno sguardo incantato su ciò che ci circonda, è una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui l’ego iperattivo non ha più alcuna via d’accesso.

Il soggetto preso da questo sentimento di immobilità profonda può allora passare da un’andatura lineare, retta, incentrata sul passo di corsa, a una danza statica che si sottrae completamente al principio di prestazione. L’atmosfera fondamentale che lo circonda diviene lo stupore per l’essere-così delle cose. Un’attenzione contemplativa posa infatti il proprio sguardo incantato sull’incerto, sull’impalpabile, su ciò che rimane fugace, ma che al tempo stesso è esattamente lì, davanti ai propri occhi. Le forme e gli stati della durata non possono che sottrarsi all’iperattività della comprensione. Nello stato contemplativo ci si ritrae fuori di sé e ci si immerge nelle cose, imparando a guardarle. Questo per Nietzsche significa assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, a lasciar venire le cose a sé. Significa rendere l’occhio abile a un’attenzione profonda e contemplativa, uno sguardo lento e prolungato nel tempo che perde il senso del proprio tempo.

Si tratta di un momento in cui il soggetto introduce, rispetto alla positività del fare, quella particolare forma di negatività espressa dallo scrivano Bartebly di Melville: “preferirei di no”. È grazie a questa interruzione che il soggetto può misurarsi con tutta l’estensione che lo spazio della contingenza comporta e sottrarsi alla dinamica di una pura attività. L’indugiare, l’esitare, il non rispondere immediatamente alle sollecitazioni, è certamente un’attività fattiva e tuttavia non permette che l’agire degeneri necessariamente nel lavoro. Uno dei problemi che il nostro vivere comune comporta è che viviamo in un mondo troppo povero di interruzioni, di spazi intermedi, di intervalli. D’altronde la prima cosa che la frenesia performativa elimina è proprio ogni forma di intervallo.

Esistono allora due forme di potenza: una potenza positiva, quella che ci permette di fare qualcosa e una potenza negativa, quella che ci permette, di fronte a un’immediata realizzazione, di dire di no, grazie. Questa potenza negativa si distingue tuttavia dalla mera impotenza, dall’incapacità di fare qualcosa, è una stanchezza profonda che si aggiunge insieme a una sottrazione di Io. È ciò che fa dischiudere untra, uno spazio della cortesia in cui niente e nessuno domina o è anche solo predominante. Mentre la stanchezza dell’Io è solitaria, è priva di mondo, questa stanchezza profonda è invece fiduciosa di mondo, rende infatti possibile soffermarsi, indugiare, non tanto su ciò che dobbiamo fare, ma su ciò che ci circonda. Questa stanchezza fondamentale è allora tutt’altro che uno stato di esaurimento, nel quale ci si sente incapaci di fare alcunché, essa diviene piuttosto quella particolare facoltà che è l’ispirazione, un elevarsi dell’anima.

Una stanchezza che ci permette di abbandonarci e che risveglia in noi una particolare capacità di guardare. È ciò che indica Peter Handke quando parla di una “stanchezza dagli occhi limpidi”. Si tratta di accedere a un’attenzione completamente diversa, a forme prolungate e lente che si sottraggono alla tipica iperattenzione breve e veloce della nostra società. Questa stanchezza profonda allenta l’identità dell’Io e lascia che le cose sfavillino, risplendano e tremino oltre i loro margini; lascia che si facciano indefinite, permeabili e perdano qualcosa della loro nettezza, per ritrovare così tutta la loro realtà.

Per questo la stanchezza profonda è disarmante e nel lento sguardo di chi è stanco sorge incantata la risolutezza della quiete.

venerdì 21 settembre 2018



Nel nostro specifico anche una lettura letteraria e poetica di “un sapere arreso” ha la forza di indicarci un viaggio possibile per la “cura “ di sé e degli altri soprattutto come esperienza esistenziale che si fa pratica sociale e vita activa politica.Tutto ciò in una predilezione ad esporsi e senza nessuna pretesa pedagogica ed educativa.Per fare ciò dobbiamo recuperare in pieno il significato autentico e profondo di questa “esperienza” rovesciata al proprio esterno come impegno o al proprio interno come piacere estetico di "uno sguardo che sa ammirare". Un naturale ritorno interioriore ,(rede in te ipsum di Agostino) non esclude la scelta razionale che guarda suo “fuori …comunitario”. Ecco allora perché spesso abbiamo associato la nostra “esperienza comunitaria” all’idea di traversata o di viaggio…..ma di un viaggio identitario senza meta e senza ritorno nel senso “povero” inteso da Benjamin non come “privazione” dell’esperienza ma come esperienza “della privazione e come privazione” tout court.Consapevoli,però, che l’esperienza stessa porta il soggetto fuori di sé e la depriva di ogni “soggettività” leggera o pesante che sia.“Rimettere in questione il soggetto- spiega Foucault- significa sperimentare qualcosa che sbocca nella sua distruzione reale, nella sua dissociazione, nella sua esplosione, nel suo capovolgimento in tutt’altra cosa”. Può essere difficile e doloroso per le nostre inossidabili e comode convinzioni ma resta l’unica strada per poter costruire “Comunità libere ed aperte” e non “enclaves identitari e autoritari” e sopratutto non invischiarsi affascinati in una “microfisica dei poteri” come puro esercizio egoistico, retorico o sofistico.Non può esservi nessuna forma di conoscenza e di sapere senza una comunità di riferimento né esperienza interiore e personale senza la comunità di quanti la vivono e……..la conseguente esternazione o “comunicazione è qualcosa che non viene affatto ad aggiungersi alla realtà umana, bensì la costituisce” (Bataille)Bisogna ricreare un luogo e un clima di “tensione contraddittoria” fatta insieme di fascino e di sfida, di identificazione e rifiuto,di paradossali equivoci e palesi fraintendimenti, di diversità e amicizia , di generosità e dono……di sogno e realtà . Perché ci sia “comunità” non è sufficiente che l’io si apre ,si perda o si dona all’altro ma la nostra fuoriuscita si determini mediante un “contagio” rompendo tutte le forme di “immunitas” coinvolgendo tutti i singoli membri della comunità e la comunità nel suo insieme. Intaccare l’isolamento e le solitudini che non si possono attenuare socialmente o chimicamente ma soltanto colla condivisione….. “cum-dividere”... "cum -munus".Dopo Hobbes ci siamo garantititi dalla paura e scelto il diritto di sopravvivenza individuale con una sorta di “immunizzazione” (Stato) volta a garantire la sopravvivenza individuale imponendoci una restrizione o eliminazione del senso naturale di Comunità umana non coincidente con lo Stato come una sorta di “protesi artificiale”. Cosa sia ad ora una "comunità provvisoria" nessuno può dire con chiarezza e determinazione…..è inattuale e aspaziale per cultura ma nello stesso tempo ha un luogo e un tempo …vive di orizzonti mutevoli e irreali al limite del miraggio ma tutto ciò non è un buon motivo per abbassare lo sguardo sui nostri piedi e affogare nel quotidiano,nel luogo comune e nelle abitudini ma pretendere alzarlo anche se non troppo in alto “al di là del cielo stellato sopra di noi” e neanche solo "nel mondo morale dentro di noi".Siamo non a caso “irpini” appenninici ....uomini con orizzonti verticali leggeri e abbiamo ingaggiato una sfida per ricreare un “umanesimo degli appennini” come orizzonte specifico e non assoluto del nostro viaggio mentale e pratico.mauro orlando

giovedì 20 settembre 2018

il " canto" è la lingua degli uomini prima della " parola" e prima del canto degli uomini agli uomini...il canto era " preghiera...domanda...dubbiio....amore" al Dio che si sentiva non solo Signore ma creatore del cielo e della terra...suor maria donna canta la sua preghiera nan al Padre ma alla Madre perchè conosce le sue qualità femminili e non canta ma prega come sanno fare in modo naturale ancora oggi gli " uomini di fede"...un canto che non è pura tecnica vocale e musicale che buca l' indifferenza....magicamente armonizza la lontonanza e la prossimita del " deus sive natura" di Spinoza che ancora risente della pesantezza del " logos" con la sua vocazione di " legare" lo stesso Dio col rischio di farne un " idolo" senza dubbio e sospetto con un sapere umano sistematico e assoluto.Oggi solo la lingua della " poesia" può darci un idea della magia del canto come preghiera ....la prima vocazione e possibilità dell' homo non ancora sapiens....di comunicare con l' universo Tutto che abbiamo nominato " Dio".

martedì 18 settembre 2018


Leggere malinconie
col vestito.della festa
carezzano il mio cuore tra nebbie grigie
dell' inverno del nostro scontento
ricordo di sorrisi adolescenti
e storie affetti e amori incoffessati
che restavano al palo del non detto
oggi....
di notte ricomincio il sogno
iniziato l' altra notte
con carezze leggere di vecchio
tra chiaroscuri tragici
nelle foreste dei sogni freudiani
senza desideri e passione
e continuiaml a ridere di niente
solo di.gioventù in festa...
un sorriso accanto
che guardava altrove
ma mi bastava...
un attimo
insidie dei sogni dei vecchi…
con demoni irriverenti….maghi e streghe
….versano ambròsii velenosi
nelle coppe piene di desideri repressi
tra canti e danze di giovani ninfe
nelle ebbrezze dei cortei di Dioniso
e Apollo Dio dell'ordine vitale
sghignazza beffardo
le rughe che non sanno invecchiare
trasformando
in dolore i ricordi velati di misteri..
languide e dolci vertigini della sera
dello spirito che si addormenta sereno 
tra i piaceri di un sogno vissuto….
in altri meravigliosi e tempestosi tempi….

mercoledì 12 settembre 2018


"……E subito riprendo
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare"

il penultimo viaggio...
di mauro orlando

“Troppo da dire, e oggi non ne ho la forza….”. nell’aria  c’è il segno che la mia generazione  finisce. In questi ultimi tempi  avevo scelto di essere  “ un pensatore dell’avvenimento …non dell’attimo fuggente “. Una  differenza sempre nomade, anarchica e in eccesso, la folgorazione prodotta  da una parola, da due occhi di donna….una carezza non richiesta  e  ….si apriva la possibilità di un nuovo pensiero , una curiosità …un filo di nuove Arianne . Avevo maestri “genealogisti nietzschiano”…”adoratori heideggeriani”….”delusi   felici”.nelle  refrattarietà e diffidenze spesso mostrate dalla filosofia accademica, in particolare italiana, che invece di approfittare di quella “perversione del buon senso” inaugurata da “pensatori di riporto” che arrivavano dalla Francia :Deluze, Guattari, Foucault.... ha preferito in molti casi adoperarne la lezione come un quadro eccentrico e difficilmente sistemabile. I contributi disseminati e inaggirabili al pensiero di Spinoza, Leibniz, Kant, Nietzsche, Freud, Bergson, tra gli altri, corrispondono a una pratica da coltivare ancora con convinzione e generosità.Abbiamo con fatica trovato risposte sempre provvisorie  alle tante domande inevase  nei “labirinti illogici” del Novecento.Abbiamo scelto   non “la fuga e il suo elogio” dichiarandoci  “innocenti fino a prova contraria”  o  “i meno colpevoli” per il fatto di fare filosofia, come “vita activa” perché lo spazio frequentato è stato della massima ampiezza e occasione  di banalizzazione  e perdita. Dalla scienza al cinema e la letteratura, dalla psicoanalisi all’arte, la dirompenza  di un pensiero leggero …liquido  al massimo ci costringeva  a un ripensamento e a un’invenzione …per prova ed errori …di alcune categorie critiche con continui “ tagli” nella storia delle idee.Gli anni ’80  come residui ideologici dei “magnifici anni ‘70’ oltre la molteplicità sovversiva negli anni feroci e vitali dei movimenti, lo schizo e la macchina desiderante, e ancora il divenire stesso di «corpi senza organi», si puntellano di deterritorializzazioni e paradossi cercando  ossessivamente “una logica del senso”  come possibile risposta  allo scardinamento stesso della dialettica formale  e materiale  per assumere nuove coppie concettuali, radicali forme di rovesciamento simultaneo del senso comune. E restava sempre inevasa  la domanda “Che cos’è la filosofia?”  avendo anche esaurito la domanda “a cosa serve la filosofia ?”.  La filosofia  infatti  come “l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti”  non bastava neanche se  le risposte si limitassero ad accogliere la domanda; era necessario anche che essa stabilisse un’ora, un’occasione, le circostanze, i paesaggi e i personaggi, le condizioni e le incognite della questione”. Alla fine  risultava sempre  un po’ stravagante porsi un quesito simile dopo anni di pratica filosofica  e arrivare alla conclusione  che che questo “mestiere  del pensare” poteva essere utile  solo quando la vecchiaia dona non un’eterna giovinezza ma al contrario “una libertà sovrana”, quando cioè si manifesta lo stato di grazia tra la vita e la morte.E alla fine …stravaganza delle stravaganze …. Abbiamo cominciato anche il “gioco” del “penultimo”  per non affrontare  il gioco dell’ “ultimo”  reale  che ci incalzava con “i suoi occhi cattivi”  e non riuscivamo neanche  a  richiedere una “ultima partita a scacchi” nelle fredde notti nordiche  di Bergman  o delle “poesie sapienziali “  sugli “inizi”  troppo lontani nel tempo che si stava esaurendo . E allora accettare  la realtà  tragica  di Edipo a Colono  con lo stato d’animo dell’Épuisè-esausto  che non è la fuga,la rinuncia, l’ipostasi e quant’altro. Una postura  per “Il viaggio finale” non ultimo in cui tempo e spazio si creano, si contraggono e si erodono.Una stanchezza di vivere …in cui l’esausto non può più realizzare ma  possibilizzare. Non una nuova maschera  ma una figura dell’esausto come ulteriore trama, affettiva e di significati, per un protagonismo   con un’andatura simile a una minuziosa macchina desiderante  in cui “tutto si divide, ma in se stesso”.E’ nell’esausto, in questa forma in cui ad esaurirsi non sono solo le forze ma il possibile, che si attraversa la penultima sovversione, quella per cui le idee, le cose, le immagini, non smettono di estenuarsi. Per arrivare ai corpi, alla chiusura di ogni immaginazione del possibile che è la propria morte. Si è stati stanchi di qualcosa, oggi invece,  è il presente a raccontarci che si è esausti di niente. Come durante una notte insonne, quando “le due mani e la testa fanno un mucchietto” per dire che forse non va bene eppure si resta così, insopportabilmente seduti “a spiare il colpo che ci raddrizzerà per l’ultima volta e ci stenderà per sempre”….come un personaggio di Samuel Beckett nel “penultimo spettacolo” della propria vita  nel reale…..
mauro orlando

governare il futuro
nei sottoscala della fantasia
nei rovesci della vita
solo e in disparte
a discorrer di misteri...di paure
di dolci malinconie…leggere
niente speranze...niente utopie
il pugno chiuso nella tasca
una domanda
chi sei
due riga di risposta
zoòn ....èkon legon
niente più comizi
cortei colorati di sogni
oggi...
meridiane malizie
coi lupi delle controre irpine
Palomar
a contare le increspature marine
Titiro che balla
intorno a un filo d’erba
il vecchio pazzo
che si crede me
con le mani conficcate nella terra
a giocare con le formiche
ostruendone ĺa strada
con un piccolo sasso
metis umana e voglia d'esser Dio
e disegnar destini…
e sentieri interrotti
a code percettive di formiche
e a noiosi canti di cicale
oggi...io
... sussurro un controcanto
di parole inerti... pigre e inoperose
in gara nel ciel in mille giri
....una melassa di parole
incolore..inodore ...insapore
della biforcuta e fredda lingua di sofia
sorella nemica della poesia…