Una stanchezza che cura
Nel suo libro La società della stanchezza (Nottetempo, 2012, pp. 81, euro 7), il filosofo Byung-Chul Han 
sostiene che la società del XXI secolo non può più essere intesa come una 
società di tipo disciplinare, ma una società della prestazione. I soggetti 
infatti che la compongono non sono più sottoposti, attraverso determinati 
dispositivi, a forme di obbedienza, come magistralmente ci ha insegnato Michel 
Foucault, si caratterizzano piuttosto come imprenditori di se stessi.
Le patologie cui tale soggetto incorre non sono più di tipo batterico o 
virale, a istanza immunologica, quanto di tipo neuronale. La depressione, la 
sindrome da deficit di attenzione o iperattività, il disturbo borderline di 
personalità o la sindrome di burnout, derivano da un eccesso di 
positività. È il terrore di non essere all’altezza delle proprie 
aspettative, qui ed ora, immediatamente, nella situazione di 
performance che ogni singolo individuo sente di dover offrire, ma che 
in effetti pretende prima di tutto da se stesso.
Questo non significa che il cambiamento di paradigma dalla società 
disciplinare alla società della prestazione sia in perfetta discontinuità, anzi, 
persiste una profonda continuità. Il soggetto di prestazione rimane a suo modo 
disciplinato, obbediente, ma la sua capacità produttiva introduce una risorsa in 
più: il proprio desiderio. Si tratta di una risorsa perché desiderio e 
prestazione non trovano mai il loro perfetto congiungimento, anzi rimangono 
semmai l’uno l’alimento della mancanza dell’altro; in modo tale che il 
sentimento di fondo che permane nel soggetto è la necessità di rispondere 
positivamente al timore di non riuscire a reggere la pressione. Il permanente 
stato depressivo latente con cui il soggetto di prestazione si misura non deriva 
allora da un eccesso di responsabilità e di iniziativa, ma dalla sensazione di 
non riuscire a corrispondere all’obbligo assunto con se stessi. Nonostante il 
fondo di insoddisfazione latente da fronteggiare, tale soggetto rimane un 
individuo che fondamentalmente non fa altro che lavorare, in qualsiasi momento, 
anche quando è alla ricerca del proprio godimento. È l’animal laborans 
che sfrutta se stesso in modo del tutto volontario, senza alcuna evidente 
costrizione esterna, divenendo così al tempo stesso vittima e carnefice della 
propria autoreferenzialità.
Il lamento interiore di questo soggetto non corrisponde a un “niente è più 
possibile”, ma alla paura della propria inadeguatezza a fronte del fatto che 
“niente è impossibile”. Il non riuscire a essere a questa altezza conduce il 
soggetto a una guerra intestina con se stesso. Libertà e costrizione coincidono, 
o meglio, si arriva alla paradossale costruzione di una libertà costrittiva, 
dove risiede il desiderio incolmabile di massimizzare la propria prestazione.  
Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Le malattie psichiche della 
società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa 
libertà paradossale.
Dunque, che fare? Non si può certo contrapporre a questa iperattività un 
altro contromovimento, che non farebbe altro che aggiungere altra attività, si 
tratta piuttosto di fare un buon uso della stanchezza che tutto questo comporta. 
È sentire la stanchezza come una forma di cura, mantenendo attiva la 
consapevolezza che al fondo di un’attenzione contemplativa è insita una forma 
profonda di staticità. Se il sonno infatti è il culmine del riposo fisico, il 
sentimento di un’immobilità profonda è il culmine del riposo spirituale, tanto è 
vero che, come ci ricorda Walter Benjamin, è solo l’uccello incantato che può 
covare l’uovo dell’esperienza. La capacità di posare uno sguardo incantato su 
ciò che ci circonda, è una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui 
l’ego iperattivo non ha più alcuna via d’accesso.
Il soggetto preso da questo sentimento di immobilità profonda può allora 
passare da un’andatura lineare, retta, incentrata sul passo di corsa, a una 
danza statica che si sottrae completamente al principio di prestazione. 
L’atmosfera fondamentale che lo circonda diviene lo stupore per l’essere-così 
delle cose. Un’attenzione contemplativa posa infatti il proprio sguardo 
incantato sull’incerto, sull’impalpabile, su ciò che rimane fugace, ma che al 
tempo stesso è esattamente lì, davanti ai propri occhi. Le forme e gli stati 
della durata non possono che sottrarsi all’iperattività della comprensione. 
Nello stato contemplativo ci si ritrae fuori di sé e ci si immerge nelle cose, 
imparando a guardarle. Questo per Nietzsche significa assuefare l’occhio alla 
calma, alla pazienza, a lasciar venire le cose a sé. Significa rendere l’occhio 
abile a un’attenzione profonda e contemplativa, uno sguardo lento e prolungato 
nel tempo che perde il senso del proprio tempo.
Si tratta di un momento in cui il soggetto introduce, rispetto alla 
positività del fare, quella particolare forma di negatività espressa dallo 
scrivano Bartebly di Melville: “preferirei di no”. È grazie a questa 
interruzione che il soggetto può misurarsi con tutta l’estensione che lo spazio 
della contingenza comporta e sottrarsi alla dinamica di una pura attività. 
L’indugiare, l’esitare, il non rispondere immediatamente alle sollecitazioni, è 
certamente un’attività fattiva e tuttavia non permette che l’agire degeneri 
necessariamente nel lavoro. Uno dei problemi che il nostro vivere comune 
comporta è che viviamo in un mondo troppo povero di interruzioni, di spazi 
intermedi, di intervalli. D’altronde la prima cosa che la frenesia performativa 
elimina è proprio ogni forma di intervallo.
Esistono allora due forme di potenza: una potenza positiva, quella che ci 
permette di fare qualcosa e una potenza negativa, quella che ci permette, di 
fronte a un’immediata realizzazione, di dire di no, grazie. Questa potenza 
negativa si distingue tuttavia dalla mera impotenza, dall’incapacità di fare 
qualcosa, è una stanchezza profonda che si aggiunge insieme a una sottrazione di 
Io. È ciò che fa dischiudere untra, uno spazio della cortesia in cui 
niente e nessuno domina o è anche solo predominante. Mentre la stanchezza 
dell’Io è solitaria, è priva di mondo, questa stanchezza profonda è invece 
fiduciosa di mondo, rende infatti possibile soffermarsi, indugiare, non tanto su 
ciò che dobbiamo fare, ma su ciò che ci circonda. Questa stanchezza fondamentale 
è allora tutt’altro che uno stato di esaurimento, nel quale ci si sente incapaci 
di fare alcunché, essa diviene piuttosto quella particolare facoltà che è 
l’ispirazione, un elevarsi dell’anima.
Una stanchezza che ci permette di abbandonarci e che risveglia in noi una 
particolare capacità di guardare. È ciò che indica Peter Handke quando parla di 
una “stanchezza dagli occhi limpidi”. Si tratta di accedere a un’attenzione 
completamente diversa, a forme prolungate e lente che si sottraggono alla tipica 
iperattenzione breve e veloce della nostra società. Questa stanchezza profonda 
allenta l’identità dell’Io e lascia che le cose sfavillino, risplendano e 
tremino oltre i loro margini; lascia che si facciano indefinite, permeabili e 
perdano qualcosa della loro nettezza, per ritrovare così tutta la loro 
realtà.
Per questo la stanchezza profonda è disarmante e nel lento sguardo di chi è 
stanco sorge incantata la risolutezza della quiete.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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