Ma i poeti hanno un difetto: parlano dando voce all’Io. Ed è rimasta, la lingua, una faccenda di pochi, ma quei pochi nella lingua della poesia hanno trovato sempre una seconda patria e chiunque la praticasse era accolto, perché la lingua non ha confini.
Quel che dobbiamo riconquistare invece è la fatica della “fàtica” ovvero ciò che ognuno fa quando non è scrivente, quando non è ufficialmente poeta ma lo è davvero, mettere le basi della lingua ovvero rifare società, comunità seppure inconfessabile, quella istintiva del movimento di massa o quello a due dell’amore: in ogni caso, agire, costruire, incontrare, dialogare, mettere assieme persone, a volte in un coro, alcolico quanto basta. Prima delle parole dell’amore – per quelle ci hanno pensato in nove secoli i poeti, e dell’amore non sappiamo nulla) ci serve, ”la lingua di chi trema per amore”, e dove rintracciarla è difficile saperlo. Non in Tv, non sulla Rete, non nei fluenti social, che nella “elle” che chiude la parola, in questa consonante alveolare, è la lingua che blocca il fono a dire che da lì esce ben poco.
Invece la lingua vera , alla fine, sta sempre nello stesso posto, sulle labbra, dove nasce la langue e la parole di chi trema per amore: sono i suoi sospiri; pneuma, parola antichissima che sta appunto per respiro, il soffio, che ha ben altra apertura che i social, perché nella “effe” invece vola via, va in faccia all’altro, anche quando l’altro è un muro, un muto – e lo sgretola, dicendo, nel finale di soffio, la vocale del richiamo, col fono, lo chiama a due: “o”. Vocale fàtica. Fatidica. Che precede la nascita della lingua, la cui prima parola fondante è: “tu”.
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