sabato 12 gennaio 2019

     Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro”.Franco Arminio,appunti di “paesologia”
 La questione di base è come abitare la terra. E l’analisi del “come”, della “terra” e delle “abitare” è quanto c’è di più interessante e impegnarsi  in un  lavoro anche teorico o filosofico oltre che un approccio esistenziale o politico .. La radice di abitare è quella del verbo avere. Avere la terra. Possedere la terra. Dominare la terra. Padroneggiare la terra. Controllare la terra. Tenere la terra. Prendere la terra. Occupare la terra. Appropriarsi della terra. Ognuno s’accorge di questo. Di fatto bisogna riconoscere che  l’ordine sociale espelle la natura in cui esso originariamente si è costituito. Il  trionfo dell’artificio e della tecnica può coincidere con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata sugli enti intramondani,uomini,natura e cose?  La filosofia e il pensiero umano o la politica come agire umano   hanno ancora il compito precipuo  di  espandersi nel tempo e nello spazio che agiscono sulla terra? La contemporaneità con gli inevitabili strascici del moderno e la tirannia del postmoderno tecnologico con gli echi mai sopiti del classico ci impone  un orizzonte del pensiero,dove gli strumenti della ragione sono coniugati assieme quelli della passione. Perchè come ricorda la poetessa Marina Cveteva, “ Il pensiero è una freccia. Il sentimento –un cerchio”. Queste solo alcune delle domande che l’importante primo incontro sulla “paesologia” che si terrà il 9 gennaio per l’intera giornata nel Castello d’Aquino di Grottaminarda organizzato dalla “Comunità provvisoria”.Una idea e non solo nata dalle intuizioni , dagli scritti e dagli impegni del poeta Franco Arminio  per poterci predisporre a vivere e pensare  una esperienza originale e autentica di irpini stanziali e della diaspora nel nostro possibile rapporto con il nostro territorio  e non solo. Un percorso rivolto alle  persone  disponibili  a giocare la loro personale vita  mentale e concreta  nella possibile declinazione di due categorie apparentemente contrastanti ,locale e globale che tanto ci inquietano e ci disorientano. Ognuno di noi partendo dal proprio sapere e dalle proprie competenze ha l’obbligo intellettuale  di  delineare non solo la grammatica e il lessico rinnovato per una possibile nuova esperienza culturale ma assieme sentire la necessità  di ristabilire un rapporto di tipo nuovo con una realtà meridionale sociologicamente e psicologicamente immutata in un contesto di modernizzazione “con sviluppo e senza progresso” e una mondializzazione  non solo economica ma soprattutto antropologica. La “paesologia” come intuizione da definire e sviluppare potrebbe essere uno strumento conoscitivo originale e nuovo. Una persona che ha intenzione di continuare a vivere e pensare un  territorio del sud ha la necessità  di rivendicare alla base  della sua ricerca di funzionalità intellettuale e esistenziale   non solo retaggi e ricchezze  culturali pregresse in modo  consolatorio o di orgoglio identitario.Oggi bisogna rivendicare  la categoria della “marginalità” e “fragilità”come capacità e possibilità  di autenticità e originalità  di stare e vivere contemporaneamente  il mondo  nel suo piccolo e nel suo grande. Si può vivere non con il vecchio schema della schizofrenia o delle “lamentationes” una bella esperienza emotiva e culturale a Castelbaronia e il giorno dopo visitare  una importante mostra alla Tate Gallery di Londra e una settimana dopo partecipare ad un convegno a Bombay sulle nuove tecnologie informatiche e il futuro delle economia mondiale e non solo in internet .Lo spazio concettuale libero e liquido tra centro-margine-periferia si è aperto incondizionatamente e  ci permette di verificare nei fatti e non solo nella volontà le idee ma soprattutto la nostra disponibilità e capacità di  attivare volontà e strumenti per condividere “comunitariamente” anche le nostre individuali solitudini, introversioni, umori caldi e freddi, inquietudini e sogni .Non  in una sorta di sopravvalutazione con  ‘sovrappesi’ culturali e professionali di sé stessi che ci costringe a costruire muri e barriere intolleranti  non solo psicologiche  per rifiutare  o accettare gli ‘altri’. Sapendo che stare insieme può essere anche una sofferenza ,un esercizio faticoso di ridurre frammentazioni e chiusure e alleggerire  pesantezze conoscitive e rigidità dottrinarie .Per iniziare questo nuovo viaggio di prospettiva necessita anche un viaggio nelle nostre storie mentali  costruite su un eccesso di sviluppo accumulativi di saperi e un eccesso di  ‘criticismo’ sedimentato o ossifificato nelle nostre diaspore  migratorie. “Siamo emigrati male  e spesso ritorniamo peggio”. Ci siamo costruiti intellettualmente e professionalmente  con una idea di acculturazione e sapere  come possibile strumento per acquisire potere   e riscatto  su un diffidenza  e non fiducia verso gli altri in termini sociali e politico. Cultura e sapere non è acquisire potere  ma proprio una possibile  possibilità  di depotenziamento del potere e del sapere stesso. Con una tale idea  di acquisizione di conoscenze,abilità, sapere  come strumento di possibili poteri  e riscatti anche la categoria  economica e sociale di ‘disoccupazione’ nei piccoli e grandi paesi dei  “sud e del nord “ del mondo può acquisire slancio progressivo e ideativo e riscatto individuale nella propria  vita  mentale e politica  nei luoghi che ci è dato vivere hic et nunc. Dato per acquisito che la  politica politicista oggi  non più produttrice di “ragionamenti” o di ceto politico riscattato socialmente ,va dunque sempre  sospettata e criticata nella sua rigidità e illiberalità  costitutiva e istituzionale. Ma soprattutto  perché per la nostra prospettiva “progettuale” ,educa a coltivare pensieri corti e relazioni corte. Abbiamo la necessità per motivi conoscitivi, esistenziali e politici di  ricostruire una “società civile” di nuovo conio e funzione non seguendo i canoni e le categorie politologiche  classiche e moderne  che la mettono necessariamente e unicamente in una sorta di separatezza e superiorità solo  concettuale con la “società politica”. La differenza tra società civile e società politica è che una obbliga a pensieri lunghi e di prospettiva  la seconda educa a pensieri corti  e regressivi ingessati nelle istituzioni. Noi abbiamo bisogno di  mettere in campo con modestia e presunzione “pensieri e relazioni lunghe sapendo però che vivere insieme agli altri e confrontarsi non è mai stato perfetto,idilliaco,edenico. Bisogna diffidare chi ci ripropone “paradisi perduti” e chi ci lusinga con utopie di comunità utopiche e mitiche. Bisogna accettare le complessità e difficoltà nei possibili spazi di amori ,di sogni, di odi,di controversie, di rancori, di rimorsi   , sempre disposti  al rischio ma  con “gesti eroici”ed autentici anche di intelligenze confuse ,provvisorie o smarrite mai  dogmatiche e prescrittive.  Massima vitalità anche in possibili massime disperazioni.
Mauro Orlando

Non sono un filosofo, non sono uno che produce concetti. Non sono un politico, uno che dovrebbe risolvere problemi. Sono uno che scrive, produco visioni senza l’obbligo che siano coerenti, senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana. Sono costantemente sospeso tra ritiri autistici e slanci comunitari. E forse proietto questa mia condizione anche sui luoghi che vado a vedere o a filmare nel mio lavoro che definisco di paesologo. La mia terra è una terracarne che mi appare a volte come segno del pericolo e altre volte come segno dell’opportunità. In certi giorni sento che in qualche modo forse stiamo già guarendo, che il mondo è bene accordato e che qui forse la vita ha ancora un senso proprio perché persiste nostro malgrado una trama comunitaria. Basta un soffio e mi ritrovo in un’altra percezione. Mi pare che anche qui l’autismo corale abbiamo steso i suoi teloni, sia la serra in cui stiamo appesi a maturare le nostre indifferenze, la nostra mancanza di compassione. 
Sono nato nel 1960. Ho vissuto dentro la comunità del paese e dentro la comunità dell’osteria di famiglia. Quella casa era un luogo del paese, ma allo stesso tempo un luogo dell’altrove. Mi sono fatto l’idea che oggi nei luoghi in cui vivo sia accaduta una cosa molto complicata da spiegare. Mi pare che comunità e autismo corale stiano qui in  una forma rassegnata di infelice compresenza. Sono, come il nastro di Moebius, facce in cui non è dato distinguere l’interno e l’esterno.
Non mi fido delle astrazioni e non mi fido delle scienze umane in generale, per il semplice fatto che sono appunto umane e mi pare che risentano dello sfinimento morale e cognitivo della creatura che le ha prodotte. E allora invoco altre posture, invoco un sentimento del mondo che parta da riflessi più semplici. Per me la scrittura è un riflesso semplice, è un esercizio percettivo in cui la vecchia cassa con gli attrezzi servita fin qui per indagare il mondo mi pare piuttosto inutile. Abbiamo un martello che non batte, una pinza che non stringe, un giravite che non avvita niente. 
A me pare che il discorso sull’esistenza o meno della comunità sia inficiato dal fatto che alla fine noi pensiamo sempre a un individuo con uno statuto forte, un muro di cemento che guarda il mondo come una grande palla di cemento. Con questa ottica nessuna comunità tiene, anzi lo stare insieme, la comunità diventano l’autostrada per arrivare in modo più diretto all’autismo corale. Il rischio drammatico che corriamo, che forse abbiamo già corso è quello che un volto di una donna, un albero, un telefonino, ormai siano sullo stesso piano, appartengano allo stesso ordine di cose e possano farci compagnia o darci solitudine, possano darci perplessità più che certezze.
Ma il problema non è il nostro singolo cuore e la costruzione di un cuore comune, è la capacità di accettarci come creature sgretolate in un mondo che si sgretola. La nostra esperienza delle cose consiste nel loro perenne svenimento. Nel primo bacio sentiamo l’ultimo. Nella parola che diciamo sentiamo l’agguato di altre parole che diremo o che diranno altri. Non c’è tempo, non c’è salvezza se non accettiamo questa nostra radicale disappartenenza. Siamo estranei alla comunità paesi, ma siamo in qualche modo estranei anche alla comunità di organi che costituisce il nostro corpo. Il cuore e la mente si parlano, il fegato e lo stomaco si parlano, ma noi dove siamo, dov’è questa fantomatica creatura che chiamiamo io? Dovremmo essere capaci di accettare questa nostra radicale contumacia, questa impossibilità di incontrare noi stessi. Soltanto possiamo disporci verso l’esterno, come un lenzuolo al vento. È necessario depensare se stessi e il mondo, è necessario in qualche modo depennarsi dal mondo, dimettersi dal commercio quotidiano in cui il nostro io ogni giorno firma assegni in bianco che non può onorare. La comunità, la vera comunità è possibile solo nella morte. Lì si è in un regno senza soprusi, dove nessuno ruba il fiato ad altri. In attesa di accedere a quella comunità perfetta e se non vogliamo marcire nell’inferno dell’autismo corale, dobbiamo disporci ad accogliere forme di comunità provvisorie. 
Questo punto morto della postmodernità forse richiede di affidarsi a  comunità provvisorie per sfuggire ai pericoli dell’autismo corale o a nostalgie regressive di comunità basate su ripiegamenti localistici. Per comunità provvisorie intendo la costruzione di luoghi, reali più che virtuali, in cui le persone si incontrano esponendosi agli altri generosamente e cercando di fare delle cose insieme agli altri, azioni che possono essere di svago o di contestazione, di riflessione intellettuale o di produzione artistica, ma sempre con l’intenzione di tenere vivo un intreccio di umori e di gesti in cui sia riconoscibile allo stesso tempo la matrice individuale e la tensione corale. È  inutile arroventarsi, aggrovigliarsi. Bisogna distendersi, arrendersi al tempo che passa. 
La vita dell’individuo in lotta con tutti gli altri non ha senso, ma non ha senso neppure la vita dell’individuo inquadrato rigidamente nel corpo sociale. È un tempo che ci offre la possibilità di oscillare, di muoversi in diverse direzioni, non per predare il mondo un po’ qui un po’ là, ma per cercare nuovi  modi di sentire
Le comunità provvisorie sono necessariamente pionieristiche e rivoluzionarie, non hanno un modello di società da raggiungere, né un ideale di uomo da compiere. Anzi, si parte proprio dal ridimensionare il ruolo dell’umano nel mondo, dal considerarci non la specie intorno a cui tutto ruota, ma una specie un po’ goffa che ha riempito il pianeta coi suoi figli e con le sue merci ed ora sente il petto oppresso da tanto peso. 
Le comunità provvisorie non vanno al mercato delle idee e delle opinioni e si abbigliano delle vesti più consone al contingente. Si preferisce l’inattualità, si preferisce il margine non battuto, il luogo non illuminato. Si abitano gli spigoli più che il centro, si sta nei territori che fanno resistenza all’omologazione produttivistica, nei paesaggi che segnalano il ritiro dell’umano piuttosto che il suo trionfo. La comunità che ci viene da un muro, da una busta che oscilla al vento, da una macchina parcheggiata, da un cane a cui diamo un pezzo del nostro panino, dal vecchio che ci guarda sulla panchina vicina alla nostra. Quello che propongo è semplicemente l’idea di congedarci dalla comunità fatta di umani, cioè di un insieme di io, ma di considerare una nuova alleanza tra noi e le cose che produciamo e la natura che ci accoglie. Bisogna prendere atto dell’inutilità di sé non in un’ottica nichilista e distruttiva, ma al contrario, considerando questo l’unico modo possibile per stare nel mondo, in tutto il mondo, nei suoi atomi, nelle sue parti.
La soggettività è il risultato di un processo di produzione che serve a controllare l’uomo, a tenerlo a bada, a dargli, dosando bene, paura e diffidenza verso l’esterno, che non è l’altro uomo, ma l’altro in generale.
La comunità non è mai esistita davvero, perché, quando c’era, era comunque escludente e esclusiva, la donne ne erano escluse, ne erano esclusi i cani, i bambini.
La comunità non è ancora nata. Tutta la storia dell’uomo è stato un processo di immunizzazione che ha portato a quello che adesso possiamo chiamare autismo corale. Un processo che ci dà la sensazione che non ce la facciamo a tenerci insieme vivamente e mitemente. Viviamo un’agonia ciarliera, dove le parole non si capisce se sono un tentativo di guarigione o un ulteriore approfondimento dell’agonia. Ed è piuttosto penosa la sensazione che la guarigione e l’aggravamento della malattia sembrano intercambiabili, come se ci trovassimo di fronte a una biforcazione formale, come se la sostanza fosse perduta, volatilizzata. Parlo della sostanza della nostra vita. In questo senso più che di fine della storia si deve parlare di fine di una certa idea di umanità e suo avvicendamento con una moltitudine di esseri viventi (o più precisamente esseri esigenti). 
Adesso il principio non è la speranza né la disperazione, il principio è un vago sfinimento, una sommatoria di destinazioni senza destino. Lo sfinimento non riguarda le nostre speculazioni teoriche, non arriva al culmine dell’esperienza religiosa, filosofica o letteraria, arriva ogni tanto, quasi casualmente, quasi distrattamente, mentre parliamo al telefono, mentre camminiamo per strada, mentre ancora proviamo a innamorarci o a combattere. Arriva e ci porta via senza curarsi della nostra noia, della nostra gioia
Le altre nazioni hanno il Mediterraneo sull’orlo. Noi ci stiamo in mezzo, solo noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale che è il nostro Appennino. Da qui può partire un nuovo modo di vivere i luoghi, radicalmente ecologico, improntato a un’idea di comunità inclusiva del respiro degli uomini e dell’ambiente. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne. La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma.

Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui.

Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura."



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