venerdì 29 maggio 2009

Elisir d'amore.........per il "cinema".



Il Mito del Cinema.


Qualcuno immaginò, decine di secoli fa, la sala buia di un cinema come fosse una caverna. Lo schermo altro non era che la parete di fondo contro la quale si stagliavano, mirabili, le immagini proiettate dall'illusione di un fuoco.
Il pubblico era seduto ordinato, e non era molto diverso da quello odierno; eravamo sempre uguali, noi, allora come adesso, silenziosi, rapiti, spettatori ammaliati, prigionieri di quelle immagini. E tutto scorreva davanti ai nostri occhi, minuto dopo minuto lo spettacolo andava avanti, ancora ed ancora: perché l'autore di questa storia prevedeva che continuasse per ore, mesi ed anni, e così per sempre. Addirittura s'inventò che fosse sempre stato così: sin dalla nostra nascita...
“Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre.”
[1]
Eccoci lì, seduti, costretti ma felici, convinti che la realtà sia quella che ci appare, ossia fatta di ombre proiettate sul muro che abbiamo di fronte. E la cosa non ci turba affatto, perchè siamo abituati, in quelle condizioni sin dalla nascita: spettatori sì, ma totalmente ignari di esserlo. Nulla, infatti, in questa storia ci avrebbe permesso di distinguere la realtà dall'illusione, proprio come in un sogno dal quale non ci si possa mai svegliare. A meno che...
“Per un prigioniero, lo scioglimento dai vincoli (...) sarebbe un'esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse - con la tipica domanda socratica - di dire che cosa sono gli oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore (màllon ònta) rispetto alle loro proiezioni.”
[2]
Chi immaginò questa storia lo fece secoli fa, molto prima dell'avvento del cinema, prima di Cristo e persino della televisione.
L'autore è Platone e il racconto, di cui abbiamo accennato l'inizio, è il Mito della Caverna. La storia prosegue con la liberazione di uno dei prigionieri e narra del suo viaggio verso la conoscenza del mondo esterno.
Platone, certo, non poteva prevedere un'invenzione come quella del cinematografo, ma è perlomeno curiosa la similitudine: la sala, il buio, le immagini, il pubblico, la proiezione. Non si capisce nemmeno come abbia fatto a descrivere qualcosa di così vicino al concetto di cinema visto che nulla di vagamente simile esisteva al suo tempo. Gli spettatori nella caverna sono prigionieri perché gli viene imposta una realtà; non hanno scelta, non possono decidere di uscire da quella condizione. Sono prigionieri dell'illusione perché pensano che essa stessa sia la realtà. Platone è arrivato ad un passo dal descrivere il cinema, ma poi ha ipotizzato il suo opposto, una prigione.
Noi sappiamo che il cinema trae la propria forza proprio dal suo essere illusorio, è composto dalla stessa sostanza dei sogni e siamo consapevoli del fatto che sia immaginifico. La storia narrata in un film è il risultato di una creazione condivisa, e, malgrado ciò, il fatto che possa non essere reale, non cambia minimamente l'immedesimazione empatica dello spettatore: il nostro coinvolgimento finale è maggiore di qualsiasi altra vaga ombra proiettata sulla parete di fondo della nostra quotidianità.
La verità è che Platone non poteva sapere tutto questo, non poteva prevedere quanto, grazie al cinema, la condivisione di un sogno potesse rendere reale l'immaginazione, e liberare, invece, i prigionieri della sua caverna. Non poteva sapere quanto quel sogno chiamato cinema avrebbe infine coinciso con il concetto stesso di libertà.


Francesca Vecchioni
[1] Platone, La Repubblica, libro VII, Laterza, Roma-Bari 2004
[2] Platone, La Repubblica cit.

Nessun commento: