lunedì 20 ottobre 2008

Non esprimo solidarietà a Roberto ma metterei in gioco la mia scelta di vita appartata per difenedere la sua libertà di vivere e di scrivere.

Odio le passerelle parolaie e retoriche dei politici di turno con la forza delle parole e della passione civile di Pasolini.Mi intristiscono i doveri alla pubblica solidarietà da parte del Primo ministro,dei ministri in luce e in ombra, dei deputati e senatori di destra-centro-sinistra che dalle loro comode poltrone o onorevoli scrivanie esprimono con cinico pietismo o laica partecipazione la solidarietà dovuta o anche sentita a Roberto Saviano. Perpretando un rito che ha perso tutta la sua tragica sacralità davanti ad una telecamera disumana e disumanizzante o in un 'blog' amico o da accattivare.Disprezzo le 'prese di posizioni' di vecchi e nuovi professionisti della menzogna come mezzo e dell'ipocrisia come fine,chi per dovere,chi per vigliaccheria ,chi per opportunismo o per populismo, chi per la "vera Politica chi per l'antipolitica,chi per odio o paura del diverso, chi per marcare la distanza dal diverso, chi per esprimere a chi sa e ascolta la propria vicinanza palese o occulta alla camorra, chi per un dovere formale e necessario di solidarietà di "sinistra riformista", chi per marcare il suo 'radicale essere sempre e comunque contro', chi per sottolineare semplicemente una distanza dalla sinisstra riformista, chi per compito istituzionale,chi per precisazione ministeriale o per distinzione pilatesca o territoriale, chi per opposizione istituzionale, chi per semplice interesse elettorale, chi per carità cristiana, chi per laica solidarieta a difesa comunque della liberaldemocrazia e della Costituzione repubblicana incorniciata e dimenticata, chi........................sempre o comunque con ipocrisia e disprezzo della vita e delle idee degli altri..................a prescindere!

Trovo più utile e opportuno limitarsi a esprimergli solidarietà e vicinanza riportando le sue stesse parole trascritte dalla “Lettera a Gomorra” uscita su “Repubblica” del 22 settembre scorso:
“Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?….Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.…Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.…Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.”
Quello che segue è un passo di Simone Weil tratto da Prima radice.
Il rischio

Il rischio è un bisogno essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una specie di noia che paralizza in modo diverso da quanto faccia la paura, ma quasi altrettanto. … La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio indebolisce il coraggio al punto di lasciar l’anima, in caso di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura. E’ necessario soltanto che il rischio si presenti in condizioni tali da non trasformarsi in un sentimento di fatalità.

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