mercoledì 17 giugno 2009

Elisir d'amore per ........un viaggio nella "solitudine"

.....verso C A I R A N O 7 X


Solitudine
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte - eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

E. Dikinson

La malinconia è di diritto, una qualità o uno stato d’animo benvenuto nella “comunità provvisoria”.E come essa non è uno stato patologico ed eccezionale,una malattia del corpo e dello spirito, non la si definisce solo per “mancanza” .Non è un “ospite inquietante” della comunità ma ne rappresenta la parte più intima, nascosta, appartata e meditativa.
La malinconia non è asociale ma ha con la società un rapporto selettivo,biunivoco ed aristocratico anche se possono sembrare fattualmente e concettualmente incompatibili.
La comunità ha bisogno come l’aria che respira di questi momenti appartati, meditativi e silenziosi per scoprire la profondità del suo essere un insieme di “io” singolari-plurali lontano dai rumori di fondo della superficialità insidiosa e omologante della società .E’ “ lo scarto originario che separa l’esistenza della comunità dalla sua essenza”.E’ un limite che la comunità stessa si pone da non dover varcare per non perdersi .La malinconia ci aiuta a tenere assieme con dolore e sofferenza l’essere e il niente della nostra esistenza individuale che mina dall’interno l’appartenenza e la condivisione ad una comunità né riduttiva né semplificata.
La malinconia da sempre ci insegna in questa nostra esigenza di comunità che il limite non è eliminabile e che la comunità non è identificabile con se stessa , con tutta se stessa o se stessa come un tutto, con il rischio di una forma di tipo totalitaria come ideologicamente abbiamo sperimentato per tutto il Novecento.
Dobbiamo evitare alla comunità di annientarsi nel tentativo di preservarsi o di liberarsi dal suo ‘niente’ ma aiutarla a scoprire in questi momenti di intimità che l’assale il suo carattere costitutivamente e costituzionalmente malinconico.Il nostro pensare non può liberarsi mai del tutto dalle sue sue tonalità malinconiche pena la sua immobilità e afasia .Ha la necessità di riconoscere la sua duplice declinazione – quella , negativa , della ‘tristizia’, dell’acedia e quella ,positiva, della consapevolezza profonda della finitezza, situandole una nella sfera dello ’inautentico’ , dell’improprio e l’altra in quella dell’esistenza ‘autentica e propria’.
Recuperare ed attivare al sua esigenza e il suo senso di “quiete”, “silenzio”, “gioia” di assumere e riconoscere il limite , la finitezza come la nostra condizione più propria anche se nella sofferenza e nel dolore.
Scriveva Heidegger“ ogni agire creativo ha luogo nella malinconia….” .questo ci porta a pensare che l’incompiutezza e la finitezza non è il limite del pensare comunitario ma esattamente il suo senso, essendo “l’essere-solo un modo difettivo “ delle esistenza umana.
La comunità non è né un origine ,né un fine né una fine, né un presupposto, né una destinazione, ma la condizione, insieme singolare e plurale, della nostra esistenza finita.Non è solo un spazio liminare e definito da subire,da preservare o da allargare ma un luogo comune che ci è destinato e ci accomuna .E il pensiero della malinconia tocca il punto aldilà del quale non sappiamo e non dobbiamo andare ma anche lo spazio vitale in cui vivere nella “gioa e nel dolore” la nostra esistenza autentica .
Mauro Orlando

la risposta di un "vero e buon amico.....nei ricordi e nelle speranze:

Come il ritratto di un bambino da vecchio…Ne avesse avuto l’occasione, o il coraggio, forse nemmeno Joyce avrebbe rinunciato a cimentarsi nel tracciare i profili di questo ircocervo. Ma non è impresa da niente, questa. È ardua, impietosa e dolcissima.Perché non è facile arrendersi, quasi senza lottare, allo stupore, a quello stupore immediato, vuoto, quello che scaturisce nel momento stesso in cui si smette di accettare ogni forma di rigore.E pensare che dentro a quell’intransigenza poteva trovarci posto, senza disturbare, senza sporcare troppo, senza minarne l’essenza, anche uno sbalordimento controllato, una misurata estetica, una sbornia da vino leggero. E ci stava; come se la percezione del baratro posto a soli pochi passi da noi, altro non fosse che l’ennesimo scacco giocato a noi stessi. Il dilemma allora, il principio del fare, l’empirismo astratto, era quello di essere, ancora una volta in grado di rivestire quel vuoto con quel tanto di pensiero che poteva bastare a ingrossare l’illusione. Ma questi baratri sono talmente fondi da trascinare con sé ogni illusione.A quel punto, il gioco non regge più.O cedi all’esercizio di un pensiero nobile fino all’ottusità, o consenti al pensiero di varcare l’insospettabile confine della bellezza.Ma quest’ultimo cedimento non deve essere confuso con nessuna forma di misticismo. È vivo. È sangue e terra.È la riconciliazione. È la forma che prenderebbe l’acqua se il contenitore fosse il nostro corpo. Ecco. È corporea. È il corpo che non rinuncia a se stesso e in questo atto sublima l’unica forma d’eternità che ci è concessa.Forse, amico mio, potrebbe essere questo il nome del turbamento. O il suo contrario. Come se quella terra fosse selvaggia come il lupo e il lupo dolce come quei declivi che cerchi di descrivere prima che la commozione ti chiuda la gola.Ma lascia che si spalanchi ogni vertigine, affida al vento quel desiderio di perdere tutto il peso che il tempo ti ha inflitto. Fatti aquilone e piega al vento i colori del nord che non comprendi e quelli del sud che insegui per non dimenticare.Siedi al desco di quella gente rude e leggera che avevi dimenticato di ricordare, ma non farne un feticcio.Amala. E poi parti, che ormai sai volare. Perché, ormai, conosci la via del ritorno.

Montecristo
18 giugno 2009 7.08

1 commento:

Montecristo ha detto...

Come il ritratto di un bambino da vecchio…
Ne avesse avuto l’occasione, o il coraggio, forse nemmeno Joyce avrebbe rinunciato a cimentarsi nel tracciare i profili di questo ircocervo.
Ma non è impresa da niente, questa. È ardua, impietosa e dolcissima.
Perché non è facile arrendersi, quasi senza lottare, allo stupore, a quello stupore immediato, vuoto, quello che scaturisce nel momento stesso in cui si smette di accettare ogni forma di rigore.
E pensare che dentro a quell’intransigenza poteva trovarci posto, senza disturbare, senza sporcare troppo, senza minarne l’essenza, anche uno sbalordimento controllato, una misurata estetica, una sbornia da vino leggero. E ci stava; come se la percezione del baratro posto a soli pochi passi da noi, altro non fosse che l’ennesimo scacco giocato a noi stessi. Il dilemma allora, il principio del fare, l’empirismo astratto, era quello di essere, ancora una volta in grado di rivestire quel vuoto con quel tanto di pensiero che poteva bastare a ingrossare l’illusione.
Ma questi baratri sono talmente fondi da trascinare con sé ogni illusione.
A quel punto, il gioco non regge più.
O cedi all’esercizio di un pensiero nobile fino all’ottusità, o consenti al pensiero di varcare l’insospettabile confine della bellezza.
Ma quest’ultimo cedimento non deve essere confuso con nessuna forma di misticismo. È vivo. È sangue e terra.
È la riconciliazione. È la forma che prenderebbe l’acqua se il contenitore fosse il nostro corpo.
Ecco.
È corporea. È il corpo che non rinuncia a se stesso e in questo atto sublima l’unica forma d’eternità che ci è concessa.
Forse, amico mio, potrebbe essere questo il nome del turbamento. O il suo contrario. Come se quella terra fosse selvaggia come il lupo e il lupo dolce come quei declivi che cerchi di descrivere prima che la commozione ti chiuda la gola.
Ma lascia che si spalanchi ogni vertigine, affida al vento quel desiderio di perdere tutto il peso che il tempo ti ha inflitto. Fatti aquilone e piega al vento i colori del nord che non comprendi e quelli del sud che insegui per non dimenticare.
Siedi al desco di quella gente rude e leggera che avevi dimenticato di ricordare, ma non farne un feticcio.
Amala. E poi parti, che ormai sai volare. Perché, ormai, conosci la via del ritorno.

Montecristo