mercoledì 5 agosto 2009

Elisir d'amore per ........un concerto della vita.

......en attendant Cohen!!!!!



ELZEVIRI, 1. LEONARD COHEN. 3 AGOSTO 2009. VENEZIA
Nel paese della mia infanzia c’era un posto speciale.
Ci siamo dimenticati l’uno dell’altro.
La vita fa così, quando non sopporta il vuoto, cancella.
Però, talvolta è pietosa ( o impietosa ).
Quel posto mi è tornato alla mente l’altra sera, mentre, quasi stordito, cercavo di dare un nome al suono che non riuscivo a contenere e all’emozione che quel suono evocava in me.
Non era un luogo segreto, non ne ricordo nemmeno il nome, ma nella mia immaginazione possedeva la magia dell’altrove, era l’archetipo del mistero. La mia isola del tesoro, il mio graal, il posto dove non potevo perdere.
C’è ancora, anche se da molto non ci torno. Si raggiunge facilmente. Scendendo a valle, svoltando a sinistra, superato il ponte sul Mella, si raggiunge una strada sterrata che termina in un sentiero stretto. Da lì, ci si deve inerpicare tra bassa vegetazione e coste rocciose sino al punto in cui il camminamento affianca un ruscello.
Amavo percorrere da solo quel sentiero. In giorni e ore inusitate, per evitare ogni incontro.
Col tempo avevo trovato il coraggio, o l’incoscienza – la sua versione prosaica –, di andarci di notte, al ritorno da qualche scorribanda giovanile o quando avevo bisogno di allontanarmi da qualche delusione che non riuscivo a digerire.
Allora, quelle notti, sapevano rivelarmi la loro magia. E l’acqua scorreva.
Solo lì riuscivo a ascoltare il suono delle domande che mi era impossibile formulare dentro il traffico delle cose di tutti i giorni. Mi affidavo, abbandonandomi, a quella confidenza discreta.
E quel posto riusciva a non farmi andare oltre l’orlo del baratro di una probabile disperazione.
Mi rispondeva.
Col suo suono.
Era quel suono, morbido e profondo, che somigliava a quella voce.
Ne aveva la pienezza e la forza. E allora mi lasciavo trasportare da tutto quello che echeggiava di quel’assonanza.
Erano la marcia trionfale e la ninna nanna che la vita mi aveva negato.
Ti è mai capitato di trascorrere una notte, calda, magari di plenilunio, seduto su una pietra e sentire il mormorio sommesso dell’acqua che scende? O di ascoltare il fiume in lontananza che intona soffuso il suo andare, prima come carezza e poi, avvicinandosi in un crescendo incontenibile, quasi di sussurro gridato che disperde il suo dire in gocce fredde che odorano di acqua e capire che anche quell’odore è un suono?
Quel suono vale la notte, vale la solitudine e la paura. Qualche volta le vince.
Credo di aver amato quel suono. Da sempre. L’ho cercato altrove, spesso smarrendolo. Però che emozione quando riuscivo a risentirlo!
Lo ritrovavo, talvolta, nel fragore dell’onda che rifrange sulla sabbia in una notte d’estate, nella spuma che si riassorbe sul bagnasciuga, tra le foglie tra i rami, intenso e umido, quando cresce e sommessamente grida l’imminenza di un temporale o nel primo declinare autunnale, quando per la prima volta, tanto essersene dimenticati, rinnova il suo brivido di pioggia in un formicolio di mille stille sottili.
E ancora, nel cadere delle gocce sul tetto, prima quasi di carezza e poi pieno di quella forza buona degli eventi che si scatenano in tutta la loro veemenza e tu sei lì, protetto da una crisalide di niente, e che però si fa corazza, mentre la tempesta infuria.
Pensavo a questo mentre cercavo di dare un nome alla voce di Leonard Cohen.
Al rumore dell’acqua.
Quando è ruvida e quando è morbida. Quando è calda e quando scorre scrosciando.
Cohen non fa della voce un esercizio di forza, non urla, non frantuma ottave, non soggiace al piacere del proprio virtuosismo, non eccede, non esibisce.
Vedi? Ho detto solo quello che non è.
Strano. Ma è difficile cercare di dire altro.
Quella voce riempie il tempo e lo spazio che trova. Avvolge e si lascia avvolgere da quell’universo che sa propagarsi in quell’intorno e ti ritrovi in mezzo a quel suono, come sopraffatto.
È per questo che quel suono mi ricorda l’acqua. La sua potenza è quasi inavvertibile. Ma inarrivabile.
La sua capacità di condurti è sottile. E sai che non puoi non seguirla. Navigare controcorrente, in quel caso, sarebbe un esercizio inutile. E sbagliato.
E dell’acqua, quella voce, possiede le profondità. Perché niente come l’acqua sa preservare il mistero del suo eterno ritorno.
Il resto della scena, tutt’altro che misera, potrebbe non esserci.
Perchè quella voce è un prodigio impensabile, è misurata infinità.
Da sola è capace di sostenere il peso di tutte le notti prive di un qualche sollievo e farsi leggera. Riesce a fare in modo che l’emozione non esploda, ma si prolunghi. Permette alla poesia, animale ingannevole, di avvicinarsi, quasi domestica, e di lasciarsi guardare, di leccarti le mani.
Attende che le lanci un legnetto da riportare. E tu lo fai, senza sapere che è il cane che gioca con te e non tu con lui.
La poesia è solitamente un’avventura intima. Un linguaggio che funziona, e non sempre, se riverbera in solitario.
In Cohen no. Lui Sa convertire quel suono in un’esperienza di poesia collettiva, al punto che gli “altri” intorno sembrano, per quella breve eternità, meno distanti: una stregoneria quasi impossibile in questi tempi volgari di trascuratezze disarmanti.
Si ha l’impressione di sfiorare la leggenda, da spettatore partecipe.
Una leggenda vivente, elegante, forte in un corpo che sembra stia ritirandosi di vecchiezza ma che è ancora capace di gioco e grazia. Una leggenda che in movenze da vecchio ballerino d’avanspettacolo, da zingaro allegro o da monaco tibetano danza, senza che si colga discrepanza o disarmonia in quella diversità.
È bello aver sfiorato la leggenda, quel suono che riconoscerò ogni volta che vorrò dare un nome allo scorrere lento del fiume.

P.S. : Ho avuto il privilegio di condividere questo momento con due persone.
La mia leggenda di parole, il poeta che amo più di ogni altro, profetico anche nell’evocare un passaggio tangenziale di Cohen a Venezia; e un amico, uno di quelli che incontri in età avanzata, uno di quei doni insperati e preziosi che accogli con gratitudine infinita pur sapendo che il tempo che hai davanti è meno di quello che hai vissuto, per poterne godere il giusto.

Devono essere fatti di questa sostanza gli attimi di felicità che ci sono concessi.

Montecristo

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