BALVANO
di Andrea Di Consoli
Tra i comuni più colpiti dal terremoto irpino-lucano del 1980 c’è sicuramente Balvano, piccolo paese a circa trenta chilometri di distanza da Potenza. Anzi, la notizia del terremoto fu lanciata proprio da questo paese, tanto che per almeno due giorni – nel mondo intero – si parlava di Balvano come dell’epicentro del terremoto. Nel 1980 gli abitanti di questo paese erano circa 2.300, attualmente, invece, sono meno di 2.000. Alle ore 19.34 del 23 novembre del 1980 la terrà tremò a Balvano per un minuto e venti secondi, con un’intensità di 11,3° della scala Mercalli. I morti furono 77, mentre nella sola chiesa di S. Maria Assunta, che crollò interamente, morirono 65 persone, soprattutto ragazzi di giovanissima età, che a quell’ora – per via della presenza in paese dei Padri predicatori – affollavano la chiesa (dove c’erano quasi 400 persone, e quindi molte si salvarono). Il sindaco di allora (democristiano, di quelli che avevano portato la DC al 78% alle elezioni comunali e regionali del 1980, per la gioia di Emilio Colombo) si chiamava Ezio Di Carlo. Di lui scrissero anche Giovanni Russo e Corrado Stajano nel libro Terremoto, che uscì nel 1981 per Garzanti. Scrisse Russo: “A Balvano, nella solita roulotte, c’è il sindaco, Ezio Di carlo, trentasette anni, medico insieme al veterinario, un commerciante, la guardia comunale e dei giovani. Il sindaco di Muro Lucano è comunista, questi è democristiano, ma si comportano allo stesso modo con la stessa efficienza brusca, senza retorica”. Oggi, a ventinove anni distanza, l’ex sindaco Di Carlo è capogruppo di minoranza nel comune di Balvano, ed è il medico più importante del paese. Dopo i primi massacranti impegni sul fronte dei soccorsi e della ricostruzione (tanto che per sei mesi, nonostante quattro figli, usciva alle 6 del mattino e vi rientrava soltanto a mezzanotte, magari mangiando scatolette di fagioli con il segretario comunale), Di Carlo ha subito alcuni processi (ben 13 capi d’imputazione), 200 firme di cittadini balvanesi contro di lui, mille accuse di appropriazione indebita di fondi destinati alla ricostruzione, alcune assoluzioni, una condanna di 8 mesi (per un recinto non autorizzato che fece intorno a casa sua, a sue spese) e ben due trionfali rielezioni. Insomma, un tipico “gliommere” di sentimenti grumosi e contrastanti del nostro litigioso e velenoso Sud paesano. Due cose sono certe, comunque: l’allora Commissario Giuseppe Zamberletti, il Guido Bertolaso di allora, prese la ricostruzione di Balvano a modello da imitare; mentre il collaboratore del Prefetto – che in quel frangente ogni sindaco aveva al proprio fianco – fu l’unico ad andarsene dopo dieci giorni, perché Di Carlo era bravo e autonomo di suo, e quindi non abbisognava di “tutor” statali. Dal terremoto, comunque, tutti ne sono usciti cambiati – in peggio, sembrerebbe – e questa è la principale lezione che Di Carlo, sulla sua pelle, ha imparato. Certo, sarà la storia a giudicare l’operato di Ezio Di Carlo, ma una cosa è certa: lui è la principale memoria storica del terremoto a Balvano: “Il terremoto lo stiamo pagando ancora oggi. 10 persone su 100 hanno disturbi ansiosi e depressivi molto gravi, e ci sono anche casi di psicosi depressive e schizofreniche. L’uso di psicofarmaci è aumentato molto, dopo il terremoto. Un ragazzo, che all’epoca sembrava sereno, e che giocava con i pompieri e con i soldati, è entrato in una depressione grave solo molti anni dopo. I danni di un terremoto si vedono soprattutto nel tempo”. Chiedo al medico Di Carlo se corrisponde al vero il fatto che i soccorsi giunsero, soprattutto nei paesi più sperduti, con colpevole ritardo – tra l’altro, l’allora Presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, lanciò la sua accusa (unico caso nella storia repubblicana fino ad allora) contro i colpevoli ritardi dei soccorsi del Governo nazionale (si era da poco insediato a Palazzo Chigi un precario Governo presieduto da Arnaldo Forlani) proprio da Balvano. Di Carlo è in controtendenza: “Assolutamente no, e le spiego perché. Quando si diffuse la notizia di Balvano epicentro del terremoto, il mio paese divenne sede di una straordinaria solidarietà internazionale. Non posso dire niente, da questo punto di vista. Le cose funzionarono bene”. Provo a punzecchiarlo su Emilio Colombo (che la sera del disastro partecipò a un cerimoniale ufficiale a Roma), ma la risposta è altrettanto precisa: “Vuol sapere una cosa? Emilio Colombo venne qui a Balvano, da solo, con la sua macchina, senza codazzo, addirittura la notte di Natale”. Ma Di Carlo ammette che un terremoto porta solo guai (“certo, circolano molti soldi, l’edilizia si sviluppa e, con l’edilizia, i commerci, ma ci si incarognisce, si dicono tante falsità. Si figuri che una volta in paese circolò la voce che io distribuivo a mano i soldi del terremoto. Ma è acqua passata, lasciamo perdere”). Molti in paese fanno notare che la ricostruzione di Balvano ha determinato un vulnus edilizio, e che le nuove costruzioni sono state fatte senza criterio, e con enormi speculazioni. L’ex sindaco Di Carlo è irremovibile: “A Balvano ci sono ancora 100 appartamenti in cemento armato che facemmo in quei mesi. Furono costruite come case di emergenza, e invece sono rimaste come case popolari. Cos’altro dovevamo fare?” Poi, prima di congedarci, mi mette a parte di uno studio che ha fatto in quanto medico: “La vuole sapere una cosa? Dopo il terremoto, nei nostri paesi, sono aumentati i casi di tumore al cervello, al polmone e all’intestino. E sa perché? Per colpa delle vernici dei prefabbricati, e dell’eternit, di cui non sapevamo ancora niente. E, ovviamente, anche per lo stress post-traumatico, e per le nostre scellerate abitudini alimentari. Il terremoto viene sempre accompagnato con altri mali, non viene mai da solo”. Infine mi detta la poesia che scrisse durante i giorni del terremoto, e che – m’informa – fu pubblicata sul “Corriere della sera” e sul “New York Times”. La ricopio integralmente: “Nell’aria immobile del primo inverno / freddo livore di luce / ombre lunghe di luna piena / sussulti improvvisi di terra impazzita / pietre di morte sulla mia gente”. Anche Pasquale Iacullo ha scritto alcune poesie sul terremoto – il suo libro più recente è Erano quasi le otto di sera, pubblicato dall’editore Arduino Sacco – e il suo punto di vista è molto più drammatico: “Dal terremoto in poi le cose sono cambiate per sempre. Non solo per i morti, 77, che per una piccola comunità come la nostra ha significato tanto. Ma per come è cambiata la comunità dopo il disastro. La gente non è più stata la stessa. Da allora la terra è stata abbandonata, e i giovani hanno preferito andare a lavorare nello stabilimento della “Ferrero” qui a Balvano, in cui lavorano circa 150 miei concittadini. Tenga poi conto che a causa dei 65 ragazzi morti, a Balvano manca all’appello un’intera generazione. Ma le voglio dire che la cosa più vergognosa è che il paese intero andò alla ricerca di un capro espiatorio, e purtroppo lo trovò. Tutti qui a Balvano diedero colpa del disastro a don Salvatore Pagliuca, che non aveva nessuna colpa. Dissero che la chiesa crollò per la sua incuria, per la sua disattenzione. Il povero don Salvatore è morto in solitudine nel 2006, a Muro Lucano, in una sorta di esilio. Una brutta storia. Subì anche dei processi, ma ne uscì sempre assolto”. Alle ore 19.34 di quella domenica sera, Pasquale Iacullo – attualmente impiegato comunale – che all’epoca aveva 22 anni, ed era disoccupato, si trovava in piazza, a pochi metri dalla chiesa S. Maria Assunta. Chissà se ha visto quello che in molti mi hanno raccontato, ovvero che per tentare di salvare qualcuno sotto le macerie della chiesa, molti, salendo sulle pietre crollate, schiacciarono ulteriormente i corpi seppelliti, magari ancora vivi. Ma Iacullo ha una sola ossessione: “Da allora il paese è cambiato. Anche la piazza, dopo quella sera, non è stata più la stessa”.
di Andrea Di Consoli
Tra i comuni più colpiti dal terremoto irpino-lucano del 1980 c’è sicuramente Balvano, piccolo paese a circa trenta chilometri di distanza da Potenza. Anzi, la notizia del terremoto fu lanciata proprio da questo paese, tanto che per almeno due giorni – nel mondo intero – si parlava di Balvano come dell’epicentro del terremoto. Nel 1980 gli abitanti di questo paese erano circa 2.300, attualmente, invece, sono meno di 2.000. Alle ore 19.34 del 23 novembre del 1980 la terrà tremò a Balvano per un minuto e venti secondi, con un’intensità di 11,3° della scala Mercalli. I morti furono 77, mentre nella sola chiesa di S. Maria Assunta, che crollò interamente, morirono 65 persone, soprattutto ragazzi di giovanissima età, che a quell’ora – per via della presenza in paese dei Padri predicatori – affollavano la chiesa (dove c’erano quasi 400 persone, e quindi molte si salvarono). Il sindaco di allora (democristiano, di quelli che avevano portato la DC al 78% alle elezioni comunali e regionali del 1980, per la gioia di Emilio Colombo) si chiamava Ezio Di Carlo. Di lui scrissero anche Giovanni Russo e Corrado Stajano nel libro Terremoto, che uscì nel 1981 per Garzanti. Scrisse Russo: “A Balvano, nella solita roulotte, c’è il sindaco, Ezio Di carlo, trentasette anni, medico insieme al veterinario, un commerciante, la guardia comunale e dei giovani. Il sindaco di Muro Lucano è comunista, questi è democristiano, ma si comportano allo stesso modo con la stessa efficienza brusca, senza retorica”. Oggi, a ventinove anni distanza, l’ex sindaco Di Carlo è capogruppo di minoranza nel comune di Balvano, ed è il medico più importante del paese. Dopo i primi massacranti impegni sul fronte dei soccorsi e della ricostruzione (tanto che per sei mesi, nonostante quattro figli, usciva alle 6 del mattino e vi rientrava soltanto a mezzanotte, magari mangiando scatolette di fagioli con il segretario comunale), Di Carlo ha subito alcuni processi (ben 13 capi d’imputazione), 200 firme di cittadini balvanesi contro di lui, mille accuse di appropriazione indebita di fondi destinati alla ricostruzione, alcune assoluzioni, una condanna di 8 mesi (per un recinto non autorizzato che fece intorno a casa sua, a sue spese) e ben due trionfali rielezioni. Insomma, un tipico “gliommere” di sentimenti grumosi e contrastanti del nostro litigioso e velenoso Sud paesano. Due cose sono certe, comunque: l’allora Commissario Giuseppe Zamberletti, il Guido Bertolaso di allora, prese la ricostruzione di Balvano a modello da imitare; mentre il collaboratore del Prefetto – che in quel frangente ogni sindaco aveva al proprio fianco – fu l’unico ad andarsene dopo dieci giorni, perché Di Carlo era bravo e autonomo di suo, e quindi non abbisognava di “tutor” statali. Dal terremoto, comunque, tutti ne sono usciti cambiati – in peggio, sembrerebbe – e questa è la principale lezione che Di Carlo, sulla sua pelle, ha imparato. Certo, sarà la storia a giudicare l’operato di Ezio Di Carlo, ma una cosa è certa: lui è la principale memoria storica del terremoto a Balvano: “Il terremoto lo stiamo pagando ancora oggi. 10 persone su 100 hanno disturbi ansiosi e depressivi molto gravi, e ci sono anche casi di psicosi depressive e schizofreniche. L’uso di psicofarmaci è aumentato molto, dopo il terremoto. Un ragazzo, che all’epoca sembrava sereno, e che giocava con i pompieri e con i soldati, è entrato in una depressione grave solo molti anni dopo. I danni di un terremoto si vedono soprattutto nel tempo”. Chiedo al medico Di Carlo se corrisponde al vero il fatto che i soccorsi giunsero, soprattutto nei paesi più sperduti, con colpevole ritardo – tra l’altro, l’allora Presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, lanciò la sua accusa (unico caso nella storia repubblicana fino ad allora) contro i colpevoli ritardi dei soccorsi del Governo nazionale (si era da poco insediato a Palazzo Chigi un precario Governo presieduto da Arnaldo Forlani) proprio da Balvano. Di Carlo è in controtendenza: “Assolutamente no, e le spiego perché. Quando si diffuse la notizia di Balvano epicentro del terremoto, il mio paese divenne sede di una straordinaria solidarietà internazionale. Non posso dire niente, da questo punto di vista. Le cose funzionarono bene”. Provo a punzecchiarlo su Emilio Colombo (che la sera del disastro partecipò a un cerimoniale ufficiale a Roma), ma la risposta è altrettanto precisa: “Vuol sapere una cosa? Emilio Colombo venne qui a Balvano, da solo, con la sua macchina, senza codazzo, addirittura la notte di Natale”. Ma Di Carlo ammette che un terremoto porta solo guai (“certo, circolano molti soldi, l’edilizia si sviluppa e, con l’edilizia, i commerci, ma ci si incarognisce, si dicono tante falsità. Si figuri che una volta in paese circolò la voce che io distribuivo a mano i soldi del terremoto. Ma è acqua passata, lasciamo perdere”). Molti in paese fanno notare che la ricostruzione di Balvano ha determinato un vulnus edilizio, e che le nuove costruzioni sono state fatte senza criterio, e con enormi speculazioni. L’ex sindaco Di Carlo è irremovibile: “A Balvano ci sono ancora 100 appartamenti in cemento armato che facemmo in quei mesi. Furono costruite come case di emergenza, e invece sono rimaste come case popolari. Cos’altro dovevamo fare?” Poi, prima di congedarci, mi mette a parte di uno studio che ha fatto in quanto medico: “La vuole sapere una cosa? Dopo il terremoto, nei nostri paesi, sono aumentati i casi di tumore al cervello, al polmone e all’intestino. E sa perché? Per colpa delle vernici dei prefabbricati, e dell’eternit, di cui non sapevamo ancora niente. E, ovviamente, anche per lo stress post-traumatico, e per le nostre scellerate abitudini alimentari. Il terremoto viene sempre accompagnato con altri mali, non viene mai da solo”. Infine mi detta la poesia che scrisse durante i giorni del terremoto, e che – m’informa – fu pubblicata sul “Corriere della sera” e sul “New York Times”. La ricopio integralmente: “Nell’aria immobile del primo inverno / freddo livore di luce / ombre lunghe di luna piena / sussulti improvvisi di terra impazzita / pietre di morte sulla mia gente”. Anche Pasquale Iacullo ha scritto alcune poesie sul terremoto – il suo libro più recente è Erano quasi le otto di sera, pubblicato dall’editore Arduino Sacco – e il suo punto di vista è molto più drammatico: “Dal terremoto in poi le cose sono cambiate per sempre. Non solo per i morti, 77, che per una piccola comunità come la nostra ha significato tanto. Ma per come è cambiata la comunità dopo il disastro. La gente non è più stata la stessa. Da allora la terra è stata abbandonata, e i giovani hanno preferito andare a lavorare nello stabilimento della “Ferrero” qui a Balvano, in cui lavorano circa 150 miei concittadini. Tenga poi conto che a causa dei 65 ragazzi morti, a Balvano manca all’appello un’intera generazione. Ma le voglio dire che la cosa più vergognosa è che il paese intero andò alla ricerca di un capro espiatorio, e purtroppo lo trovò. Tutti qui a Balvano diedero colpa del disastro a don Salvatore Pagliuca, che non aveva nessuna colpa. Dissero che la chiesa crollò per la sua incuria, per la sua disattenzione. Il povero don Salvatore è morto in solitudine nel 2006, a Muro Lucano, in una sorta di esilio. Una brutta storia. Subì anche dei processi, ma ne uscì sempre assolto”. Alle ore 19.34 di quella domenica sera, Pasquale Iacullo – attualmente impiegato comunale – che all’epoca aveva 22 anni, ed era disoccupato, si trovava in piazza, a pochi metri dalla chiesa S. Maria Assunta. Chissà se ha visto quello che in molti mi hanno raccontato, ovvero che per tentare di salvare qualcuno sotto le macerie della chiesa, molti, salendo sulle pietre crollate, schiacciarono ulteriormente i corpi seppelliti, magari ancora vivi. Ma Iacullo ha una sola ossessione: “Da allora il paese è cambiato. Anche la piazza, dopo quella sera, non è stata più la stessa”.
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