giovedì 28 gennaio 2010

Elisir d'amore per .......un recupero "paesologico"


.....la "paesologia" èun nuovo modo di guardare,pensare e preservare le pesone,le cose naturali e artificiali che l'uomo ha lasciato sui nostri territori.Anche il recupero architettonico rientra nel suo spazio conoscitivo......Un esempio è il recupero di questo spazio spirituale irpino ....il Goleto





armin

Non godevo della fiducia dei miei genitori e quando sono uscito di casa non ho goduto della fiducia del mio paese, ovviamente. I miei amici non mi hanno curato come avrei voluto, né io mi sono preso cura di loro come avrebbero voluto. Accade così in un paese manicomio, accade che le amicizie sono luoghi di incuria. Mi ha fatto molto male questo perenne embargo emotivo verso la mia natura più vera. Piano piano mi ha disposto a ritirare nel profondo le mie parti molli e a esibire in superficie una sorta di fantoccio che poteva essere colpito a piacimento. Forse sono stato sfortunato, forse a un certo punto ho trovato conveniente questa situazione perché mi permetteva di scrivere. Uscivo e mi umiliavo, tornavo a casa e scrivevo.

Ho già raccontato questa storia, questa mia vita nel paese della cicuta, forse dovrei raccontare meglio quello che mi accade adesso coi nuovi amici. È ancora e sempre una guerra affidata alle parole. Tutta la mia vita è segnata dalle parole, quelle che scrivo, quelle che mi rivolgono le persone. I miei genitori mi ritenevano pazzo, per i miei amici ero un egocentrico e un narcisista. Siamo sempre nella sfera del patologico. Quando da noi la gente si aspetta il peggio, inevitabilmente è il peggio che riusciamo a dare. Canetti diceva che si tratta solo di capire per chi ci scambiano. Declinando in chiave paesologica questo pensiero si può dire che in paese l’equivoco avviene sempre al ribasso. E qui è il punto. Io sono un egocentrico strano, uno che tende ad attribuire agli altri un valore più grande di quello effettivo. Le mie relazioni con gli altri sono pertanto sempre inquinate da un senso di delusione e recriminazione. Ho passato la vita a recriminare, a pensare che gli altri non mi hanno mai raggiunto dove li aspettavo. Capita anche adesso quando esce un libro, quando pubblico un articolo in rete o su un giornale. Direi che questo mio ossessivo scrivere e parlare, che viene facilmente rubricato come una prova di egocentrismo, sia invece dovuto a una costante attesa dell’altro, a una perenne tensione a un’amicizia, a un amore più grande.

Anche il mio costante pensiero della morte non è la paura di non esserci, ma la paura di andarmene senza avere avuto risposte. Continuo a produrre domande o forse continuo a fare sempre la stessa domanda, pensando che ci sia qualcuno da qualche parte che possa ascoltarmi. La mia è una ribellione all’autismo corale, una ribellione al quieto vivere, al traccheggio, all’indugio. Mi piace la presa diretta, mi piace chi vaga per il mondo a viso scoperto. E invece è tutto un ballo in maschera. La società della comunicazione induce a smerciare parole a cui non si crede. Sono anni che vagheggio di murarmi in un silenzio impenetrabile, sono anni che vagheggio di sottrarmi ad ogni forma di commercio, ma ho bisogno di parole perfino per chiarirmi questo sentimento. Oggi anche il silenzio è colmo di parole. In principio fu il verbo e doveva servire a dare luce alle cose che portiamo dentro. Oggi il verbo è al principio e alla fine. Nasciamo e moriamo in un pulviscolo di parole, non c’è modo di uscirne. Siamo estenuati dal nostro stesso parlare e da chi ci parla. L’amicizia e l’inimicizia si nutrono delle stesse parole. La verità e la menzogna viaggiano con gli stessi aggettivi. L’altro è scomparso, ma siamo scomparsi pure noi, annegati in un mare di parole. Gli altri non avvistano noi ma le nostre parole. Noi non avvistiamo gli altri, ma le loro parole.

In effetti è il mondo che parla, è una fisarmonica squarciata che suona anche se non la tocca nessuno. Ed è un suono che confonde tutto. In questo frastuono è difficile capire cosa stiamo diventando, cosa vogliamo essere, cosa vogliamo dare. Io chiamo guerra una situazione del genere e ci sono morti e feriti, come in tutte le guerre. Ci sono generali, colonnelli e soldati semplici. Il fronte non è lontano, è dietro la nostra fronte, è nei neuroni intossicati della nostra coscienza.

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