sabato 30 gennaio 2010

Elisir d'amore per ......la "Fratta" di Grottaminarda


......La Fratta..... il borgo medioevale di Grottaminarda (av) a riddosso del recuperato Castello D'Aquino nelle memoria fotografica resta l'esempio dell'incuria nel tempo civile e della negligenza abitudinaria amministrativa nella consapevolezza che questi sentimenti non solo sono tardivi ed inutili ma che ci obbligano ad una rimessa in mora di una cultura meri...dionalista degna ma inappropriata per ridare o far riemergere dall'abbandono" la grande vita" dei "piccoli paesi "




1.

Scrivo sperando che le parole producano un’alterazione della loro stessa natura e si facciano lievito, carne, corpo, fiato che posso respirare insieme agli altri. Faccio questo parlando della paura della morte (niente di più privato, niente di più comune) e dell’agonia dei paesi. Parlo di questa terra-carne che continua a ferirmi, parlo di questo muro contro cui ogni giorno sbatto la testa.

Le strade, le piazze che attraverso sono camere ardenti. Raccolgo ormai da anni il lamento funebre sul paese che non c’è più. Sono il cronista di un funerale senza fine, perché la salma del paese non si può inumare. Anzi, assisto a varie operazioni di maquillage dell’abbandono, di restauro della cenere. Ogni giorno faccio l’autopsia dal vivo, come se vivere fosse solo un modo di esplorare la morte della vita.

2.

Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro.
Sono infinitamente stupidi i cittadini che quando arrivano in un paese fanno sempre la solita domanda: ma qui di cosa si vive? È la domanda di chi pensa di essere in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla conquista di chissà che. Il paese, se accogli la sua lingua, ti dice che sei un cane, che devi dismettere l’arroganza di chi pensa di essere il padrone della terra.
Il paese è una creatura che sgretola qualunque narcisismo, per questo le vetrine sono sempre un po’ fuori posto (il paese è una creatura intimamente puberale e se gli metti il doppiopetto diventa ridicolo).
L’uomo che va in giro per i paesi, il paesologo, in realtà è un cane, ha il punto di vista del cane. La sua è una scrittura sgretolata, ha la postura accasciata di chi è stato colpito da un male fraternamente incurabile e non può che congedarsi dalla letteratura come prova titanica di un autore che pretende di spiegare il mondo.
Non ci si arrende solo rispetto all’idea di inseguire il mito dello sviluppo, ci si arrende all’idea di essere qualcosa o qualcuno. Per uscire dall’autismo corale ci vogliono posture nuove. È tempo di tornare a una fisiologia meno velleitaria, a un quieto vagabondare nel mondo che gira, nell’aria che non sta mai ferma, nella polvere in cui luccichiamo ad occhi aperti insieme al sole e alle stelle.

3.

La paesologia è una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.
Ci vuole un’idea di sé scucita dagli abitini classici e rassicuranti dell’ego cartesiano. Noi siamo materia esposta alle intemperie esattamente come un albero, come una casa cantoniera. Non siamo una fortezza da cui spiare l’infantile disastro del mondo.
Un amico architetto mi diceva che lui vorrebbe qualificarsi come paesologo. Mi diceva che l’ottica paesologica contiene in sé tutto quello che lui fa e non gli dà molto piacere definirsi architetto. È lo stesso motivo per cui non mi sento a mio agio a sentirmi definire scrittore o anche poeta. Mi sembrano parole che parlano di esperienze troppo diverse. Con la paesologia io me ne vado da un’altra parte, definisco un territorio fatto di volpi e di poiane, di lampioni rotti, di cani randagi, di gatti, di vecchi sulle panchine, di vecchine che girano per strada con una busta in mano. Questo territorio è la goccia di sangue sotto il vetrino. Ma non c’è bisogno di microscopio. La vista è dilatata dall’ansia, dal tremore di stare nel cratere del proprio corpo, un cratere che trema, trema da sempre.
La paesologia non è una nuova scienza umana, è una forma d’attenzione verso il fuori, attenzione intensa perché provvisoria, perché il paesologo parte dagli abissi del suo corpo e ci torna continuamente. Il suo guardare è un tentativo perenne di venire al mondo che pare non riesca mai a compiersi del tutto. Ma proprio qui si avverte la grazia, il vorticare confuso delle cose che stanno fuori, la distesa immensa delle creature deposte nel lieto inferno della terra tonda.
Per me oggi non ha senso essere scrittori, sociologi, architetti. Forse non ha senso neppure definirsi umani. Siamo chiamati ad ascoltare l’aria e l’aria ci dice che i nostri saperi sono chiodi di gesso a cui non possiamo appendere niente. La paesologia è una disciplina inerme, ma non arresa. Non partecipa alle marcette e alla marchette accademiche. Allinea dettagli, avanza, indietreggia, inciampa e forse è con questo inciampare che riesce a essere più dentro, più vicina alle cose.

Il paesologo non ha in programma la salvezza dei paesi, non tutela i campanili, i dialetti, le manfrine del rancore, la fregola delle confidenze e dello stare vicini. A volte combatte, s’indigna, chiede tutela per gli esseri e le cose che stanno in alto, lontane dai vaneggiamenti delle pianure, ma questo filo di ardore subito s’intreccia al filo della mestizia. Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore.

La paesologia non dà ricette per curare, ma si prende cura di guardare, di aggirarsi senza meta, di indugiare o anche di andare via alla svelta. Non ci sono regole, questionari da riempire, non c’è un formulario da approntare. Si esce per poche ore oltre la prigione domestica, oltre la prigione della propria professione, si va nei luoghi più nascosti e affranti e sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare.
Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere fra cento anni. Fra un secolo i paesi avranno una piega più chiara, saranno morti o saranno vivi e vegeti e allora non avranno più questo crepuscolo che li rende così particolari. Si è aperta una piccola finestra e da questa finestra il paese ci fa vedere il delirio e la gloria di stare al mondo
Andate nei paesi allora, andate dove non c’è nessuno in giro. Abbiate cura di credere alla bellezza sprecata del paesaggio, portate il vostro fiato alle sperdute fontanelle del respiro.

4.

Ci sono giorni in cui sento che è impossibile scrivere versi. Non c’è musica nella testa, non c’è ritmo. Il respiro nasce da luoghi sparsi, la vita è un peso sullo stomaco, niente di più. In giorni come questi la scrittura prende necessariamente la via della prosa. Per lunghi anni ho conosciuto la fermentazione che trasforma la testa in una fabbrica di versi. Adesso sono sempre più frequenti le giornate in cui mi è possibile solo la prosa. Sono le giornate in cui vado nei paesi e mi affido a loro, uso i luoghi come pinze per tirare fuori le parole infilzate nel mio corpo. La paesologia non è una nuova disciplina, non è una scienza, è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo. È una scrittura che viene da fuori e che passa dentro solo per tornare fuori.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza dunque, morale e civile, una resistenza mestamente privata ma non per questo priva di una sua venatura politica. Al paesologo non bisogna chiedere cosa fare per impedire la morte dei paesi, ma come usare questa morte per dare un senso alla nostra, per renderla meno insignificante. Qui ormai non è in gioco la lietezza e neppure sorti magnifiche, in gioco è la capacità di dare un colore più vivo alla propria fine e a quella delle cose che ci circondano. In certi paesi le giornate sono fatte solo di epiloghi, ogni persona, ogni avvenimento sembra ruotare intorno alla dismissione, alla resa, al fallimento. Forse c’è un solo modo per non cadere nella disperazione: svolgere una serena obiezione all’esistente, immaginare che dai paesi più vuoti può venire uno sguardo che risana, perché quando si è in pochi nessun cuore è acqua piovana.

di franco arminio

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