venerdì 13 febbraio 2009

Elisir d'amore per ......un dolce e leggero morire.

di salvatore d'angelo.

........ci solleciti sul senso del morire. Se fosse solo questo il problema, ti risponderei che il senso del morire sta nel nostro dna: siamo una delle molteplici forme della materia vivente in continua trasformazione, ivi incluso il pensiero. Questo non ci dà alcun diritto di pensarci in termini di assoluto. O meglio, si può pensarla in questi termini, ma ciò non ci mette al riparo dal comune “morire”. La vicenda di Eluana non è solo della famiglia Englaro, ma tocca tutti e su questioni decisive. Direi che siamo a una svolta epocale, come con le vicende di Giordano Bruno, di Galilei, emblematiche della lotta tra assolutismo religioso/politico e il suo contrario.Bene ha fatto chi ha invocato il silenzio e i sentimenti di pietà e di carità. Essi, ancor prima che cristiani, sono “umani”, di tutti gli uomini, quale che sia il loro “dio”; in casi come questi è un bene abbandonarsi a questi sentimenti, e da essi lasciarsi guidare nelle scelte, perchè ci restituiscono ai nostri “limiti” e alla straordinaria bellezza di ciò. Limiti che, paradossalmente, ridanno “fiducia” all’io e al noi restituendoci alla “fallibilità” e all’irrinunciabile diritto dovere della libertà, al peso stesso della libertà.Se c’è un “progetto” chiamato dio, bisogna che vi sia un nuovo patto di libertà tra l’uomo e dio. Contrariamente alla legge antica questo non può che avvenire dentro ogni singola coscienza. Le leggi dell’ecclesìa/comunità (dello Stato) non possono sancire per tutti,nella norma giuridica, come un VALORE ETERNO E IMMODIFICABILE ciò che pertiene esclusivamente alla singola coscienza e là vive, prima di farsi riflesso/specchio offerto al confronto con l’altro da sé.Dire, con espressione mercantile, che “la vita è un bene indisponibile”, è insensato, ipocrita , crudele (e lo dico senza nessuna volontà di ferire): è proprio sulla “disponibilità” della vita che si fonda il patto tra uomo e dio; lo ha insegnato Cristo, rendendo “disponibile” la sua per la salvezza dell’ uomo,condividendo fino in fondo il tragico destino umano, in virtù della sua immensa compassione (pietas, empatia) .Ma non voglio assumere i panni del teologo; voglio solo dire che credo ci sia bisogno , in momenti di svolte epocali così laceranti, in cui si ripensano radicalmente i concetti di “naturalità” e “artificialità” della vita - l’idea stessa di vita e di morte, di non vita, di stati altri dall’una e dall’altra - di “dare fiducia” all’uomo, di rinnovare il patto tra lui e dio (di ripensare il senso del divino, per i diversamente credenti , della spiritualità per i non credenti), rinnovarlo su un più avanzato principio di libertà , non viceversa: a mio sommesso avviso, non può non fondarsi su un rinnovato patto di libertà la convivenza tra i membri dell’ecclesia/comunità/stato , che è plurale negli uomini, nelle idee e visioni del mondo. Dunque QUESTO DEVE GARANTIRE INNANZITUTTO la norma delle leggi dello Stato; vale a dire i PRINCIPI di convivenza e di reciproca salvaguardia delle volontà estreme, NON DEI VALORI ETERNI E STATOLATRICAMENTE “INDISPONIBILI” (quale mostruosità umana, ancor prima che giuridica!). A tal proposito ha detto cose sagge e moderate Gustavo Zagrebelski il 20 febbraio del 2008 in un articolo apparso su Repubblica ( e risale, dunque a un anno fa, se vuoi te lo mando per e mail); ed anche Umberto Eco ieri su Repubblica.Vorrei ricordare la dignità di Beppino Englaro, il peso della sua enorme responsabilità, assunta per amore della figlia , per pietas ed empatia; e lo ha fatto non al solito modo italico, ipocrita e clandestino, ma DENTRO la legge, richiamando TUTTI al DIRITTO DOVERE della LIBERTA’ e della RESPONSABILITA’. Quale che sia la nostra opzione etica sui problemi del fine vita e sulle nuove frontiere della scienza e della tecnica.Io spero che si facciano passi da gigante nella ricerca per alleviare il dolore ( la stragrande maggioranza delle persone in queste condizioni, se desidera la morte è per la assoluta insopportabilità del dolore) e in generale per rendere “disponibile” all’uomo una vita degna. Ma al di là di tutto questo dev’esserci sempre il diritto del singolo di “scegliere”, posto che le conseguenze della sua scelta ricadono su lui e lui solo, quale che essa sia. Viceversa, IMPORRE PER LEGGE LA SALVEZZA, O I VALORI DELLA PROPRIA FEDE, è negare due cose : la civiltà della libertà e quella dell’amore. Perché non c’è l’una senza l’altra. Ed è negare all’uomo ciò che il dio della “nuova alleanza” gli ha dato: la libertà (il libero arbitrio) di “scegliere” se “salvarsi” o meno. Non attraverso VALORI ASTRATTI IMPOSTI PER LEGGE, ma negli atti della sua singola vita.Piuttosto credo vada trovato un senso vero al vivere, al COME viviamo. E’ lì che vanno iscritte tali questioni. Io credo che non vi sia amore senza libertà, né libertà senza amore e che siamo ancora distanti dal realizzare tale civiltà.C’è una finalità, un “finalismo” nella vita? Non lo so, e poco m’ importa. M’importa come vivo : e non per dire sempre e solo “io io io” o per sentirmi solo “pensieri” mentre la carne marcisce” (L’uomo che muore, capitolo 53 de LA CURVA DELLA NOTTE, splendido romanzo di Andrea Di Consoli). Ma allora, qual è il senso del vivere e del morire? Forse una risposta sta nelle parole di commento che MICHELA ha postato nel reportage di Franco “I paesi rarefatti”, queste :
Il progresso e la tecnica hanno tolto tutto all’uomo. Ormai da tempo il cielo non è più una volta che abbraccia il mondo, le stelle non rispondono più agli dei, la luce non è più perfetta, ma un miscuglio di sette colori. Ancora, però, non sono riusciti a togliergli la poeticità della vita che è inscindibilmente legata alla mortalità: l’amore, la giovinezza, la bellezza, il piacere non sarebbero tali se noi fossimo immortali. E, per questo motivo, ricchi di poesia sono tutti questi paesini che tu descrivi (che un po’ mi ricordano Macondo), invasi dal flusso di invenzioni e di innovazioni che il mondo, pur negandosi loro, implacabilmente impone alla loro gente. Questi lembi di territorio dimenticati, simulacri di una stagione di vita, per certi versi, più felice, svelando la morte ad ogni angolo, sembrano raccogliere tutta la tenerezza dell’umanità e custodire la chiave interpretativa di tutta l’esistenza umana, ricordandoci in ogni momento che, vivendo nell’illusione di essere immortali, perdiamo quotidianamente il senso della preziosità di ogni istante della nostra vita mortale. (Le sottolineature sono mie)
Insomma,morire è nel nostro dna, non possiamo che imparare ad accettarlo. Con pietà, empatia, compassione. Ti saluto con questi versi , che tu ben conosci :
Quando morirò riempitemi le tasche
dei mandarini di Peppino,
portatemi tra i sambuchi di mio padre,
non chiudetemi gli occhi con le mani,
lasciate che l’ultima stella
mi accompagni nella notte.
(Andrea Di Consoli, da La Navigazione del Po)

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