“Guardala , la terra è più tenera
del cielo.
Non restare tutta la vita
Con le unghia conficcate
Nella tua anima o in quella degli altri.
Porta il tuo paese in testa come si porta
l’immagine dell’amata.”
RELAZIONE
Il parco dell’Irpinia d’ Oriente si costruisce con progetti che usano la gomma più che la matita. Dobbiamo togliere e non mettere. Dobbiamo cucire in una nuova alleanza il vuoto e il silenzio e la luce e il cibo e il pensiero e l’arte di trascorrere il tempo. Dobbiamo cucire fabbriche nuove, come quella del vento, a fabbriche antiche, come quella del pane.
Il parco già c’è, bisogna solo usarlo. E’ un piccolo angolo di quel grande parco che dovrebbe chiamarsi “parco mondiale della terra tonda”.
Alla luce dei pericoli che corre il nostro pianeta, che esiste da quattro miliardi di anni, è chiaro che bisognerebbe dichiararlo per intero “area protetta”. Gli uomini stanno in giro da tre milioni di anni. Tempo infimo, ma buono per sterminare i nostri compagni di avventura. Del miliardo di specie vegetali e animali che la terra tonda ha partorito, ne è rimasto solo l’uno per cento.
Siamo troppi: tre nuovi nati ogni secondo, 26.000 al giorno, 95 milioni all’anno. Nel 1800 eravamo un miliardo, 1910 quattro miliardi, nel 2000 sei miliardi. Continuando di questo passo, nel giro di un secolo non ci sarà spazio neppure per muovere un passo. C’è un modo di usare il mondo, che sinteticamente potremmo definire”ipercapitalista”, a cui noi ci opponiamo radicalmente.
Nel nostro parco non c’è spazio per il mito dello sviluppo. Non diremo mai che il nostro parco è un’ occasione per lo sviluppo. Abbiamo avuto l’ardire di usare questa parola perfino dopo il terremoto. Abbiamo concepito la ricostruzione come occasione di sviluppo e abbiamo visto com’è andata.
Noi siamo ambiziosi: chiediamo all’umanità di correggere la propria traiettoria. E cominciamo da qui, dai nostri luoghi, dai nostri incontri.
Lo spazio è limitato e una crescita continua può solo lacerare il delicato involucro che ci contiene.
Il nostro è il parco della decrescita. Il nostro è un granello per inceppare il meccanismo infernale a cui ogni giorno lavorano le oligarchie politiche ed economiche.
Abbiamo capito che abitare un territorio sano è la condizione per poter abitare in maniera sana anche la parti malate, anche gli altri luoghi in cui scegliamo o siamo costretti ad andare. Il nostro non è un recinto.
Siamo per l’andare e il venire. E la nostra è una frontiera fra il basso occidente e l’alto oriente.
Il nostro non è un parco contemplativo, ma lievemente insurrezionale. Qui se si fanno passeggiate sono passeggiate intimamente rivoluzionarie. Non camminiamo nel giorno di festa per riposarci dagli imbrogli dei giorni feriali. Camminiamo come forma d’ amore urgente.
di Franco Arminio
Corriere del Mezzogiorno
Sabato 3 maggio 2008
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