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     “Per vivere in un paese
  devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire.
  L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli
  altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come
  un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno
  che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di
  amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro”.Franco
  Arminio,appunti di “paesologia” 
 La questione di base è come abitare la
  terra. E l’analisi del “come”, della “terra” e delle “abitare” è quanto c’è
  di più interessante e impegnarsi  in un  lavoro anche teorico o
  filosofico oltre che un approccio esistenziale o politico .. La radice di abitare
  è quella del verbo avere. Avere la terra. Possedere la terra. Dominare la
  terra. Padroneggiare la terra. Controllare la terra. Tenere la terra.
  Prendere la terra. Occupare la terra. Appropriarsi della terra. Ognuno
  s’accorge di questo. Di fatto bisogna riconoscere che  l’ordine sociale
  espelle la natura in cui esso originariamente si è costituito. Il  trionfo dell’artificio e della
  tecnica può coincidere con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata
  sugli enti intramondani,uomini,natura e cose? 
  La filosofia e il pensiero umano o la politica come agire umano  
  hanno ancora il compito precipuo  di  espandersi nel tempo e nello
  spazio che agiscono sulla terra? La contemporaneità con gli inevitabili
  strascici del moderno e la tirannia del postmoderno tecnologico con gli echi
  mai sopiti del classico ci impone  un orizzonte del pensiero,dove gli
  strumenti della ragione sono coniugati assieme quelli della passione. Perchè
  come ricorda la poetessa Marina Cveteva, “ Il pensiero è una freccia. Il sentimento
  –un cerchio”. Queste solo alcune delle domande che l’importante primo
  incontro sulla “paesologia” che si terrà il 9 gennaio per l’intera giornata
  nel Castello d’Aquino di Grottaminarda organizzato dalla “Comunità
  provvisoria”.Una idea e non solo nata dalle intuizioni , dagli scritti e
  dagli impegni del poeta Franco Arminio 
  per poterci predisporre a vivere e pensare  una esperienza originale e autentica di
  irpini stanziali e della diaspora nel nostro possibile rapporto con il nostro
  territorio  e non solo. Un percorso
  rivolto alle  persone  disponibili
   a giocare la loro personale vita  mentale e concreta  nella
  possibile declinazione di due categorie apparentemente contrastanti ,locale e
  globale che tanto ci inquietano e ci disorientano. Ognuno di noi partendo dal
  proprio sapere e dalle proprie competenze ha l’obbligo intellettuale  di 
  delineare non solo la grammatica e il lessico rinnovato per una
  possibile nuova esperienza culturale ma assieme sentire la necessità  di
  ristabilire un rapporto di tipo nuovo con una realtà meridionale
  sociologicamente e psicologicamente immutata in un contesto di
  modernizzazione “con sviluppo e senza progresso” e una mondializzazione 
  non solo economica ma soprattutto antropologica. La “paesologia” come intuizione
  da definire e sviluppare potrebbe essere uno strumento conoscitivo originale
  e nuovo. Una persona che ha intenzione di continuare a vivere e pensare un
   territorio del sud ha la necessità  di rivendicare alla base
   della sua ricerca di funzionalità intellettuale e esistenziale
    non solo retaggi e ricchezze  culturali pregresse in modo
   consolatorio o di orgoglio identitario.Oggi bisogna rivendicare
   la categoria della “marginalità” e “fragilità”come capacità e
  possibilità  di autenticità e originalità  di stare e vivere
  contemporaneamente  il mondo  nel suo piccolo e nel suo grande. Si
  può vivere non con il vecchio schema della schizofrenia o delle
  “lamentationes” una bella esperienza emotiva e culturale a Castelbaronia e il
  giorno dopo visitare  una importante mostra alla Tate Gallery di Londra
  e una settimana dopo partecipare ad un convegno a Bombay sulle nuove
  tecnologie informatiche e il futuro delle economia mondiale e non solo in
  internet .Lo spazio concettuale libero e liquido tra centro-margine-periferia
  si è aperto incondizionatamente e  ci permette di verificare nei fatti e
  non solo nella volontà le idee ma soprattutto la nostra disponibilità e
  capacità di  attivare volontà e strumenti per condividere
  “comunitariamente” anche le nostre individuali solitudini, introversioni,
  umori caldi e freddi, inquietudini e sogni .Non  in una sorta di
  sopravvalutazione con  ‘sovrappesi’ culturali e professionali di sé
  stessi che ci costringe a costruire muri e barriere intolleranti  non
  solo psicologiche  per rifiutare  o accettare gli ‘altri’. Sapendo
  che stare insieme può essere anche una sofferenza ,un esercizio faticoso di
  ridurre frammentazioni e chiusure e alleggerire  pesantezze conoscitive
  e rigidità dottrinarie .Per iniziare questo nuovo viaggio di prospettiva
  necessita anche un viaggio nelle nostre storie mentali  costruite su un
  eccesso di sviluppo accumulativi di saperi e un eccesso di  ‘criticismo’
  sedimentato o ossifificato nelle nostre diaspore  migratorie. “Siamo
  emigrati male  e spesso ritorniamo peggio”. Ci siamo costruiti
  intellettualmente e professionalmente  con una idea di acculturazione e
  sapere  come possibile strumento per acquisire potere   e
  riscatto  su un diffidenza  e non fiducia verso gli altri in
  termini sociali e politico. Cultura e sapere non è acquisire potere  ma
  proprio una possibile  possibilità  di depotenziamento del potere e
  del sapere stesso. Con una tale idea  di acquisizione di
  conoscenze,abilità, sapere  come strumento di possibili poteri  e riscatti
  anche la categoria  economica e sociale di ‘disoccupazione’ nei piccoli
  e grandi paesi dei  “sud e del nord
  “ del mondo può acquisire slancio progressivo e ideativo e riscatto
  individuale nella propria  vita  mentale e politica  nei
  luoghi che ci è dato vivere hic et nunc. Dato per acquisito che la
   politica politicista oggi  non
  più produttrice di “ragionamenti” o di ceto politico riscattato socialmente
  ,va dunque sempre  sospettata e criticata nella sua rigidità e
  illiberalità  costitutiva e istituzionale. Ma soprattutto  perché per la nostra prospettiva
  “progettuale” ,educa a coltivare pensieri corti e relazioni corte. Abbiamo la
  necessità per motivi conoscitivi, esistenziali e politici di  ricostruire una “società civile” di nuovo
  conio e funzione non seguendo i canoni e le categorie politologiche 
  classiche e moderne  che la mettono necessariamente e unicamente in una
  sorta di separatezza e superiorità solo  concettuale con la “società
  politica”. La differenza tra società civile e società politica è che una obbliga
  a pensieri lunghi e di prospettiva  la seconda educa a pensieri corti
   e regressivi ingessati nelle istituzioni. Noi abbiamo bisogno di 
  mettere in campo con modestia e presunzione “pensieri e relazioni lunghe
  sapendo però che vivere insieme agli altri e confrontarsi non è mai stato
  perfetto,idilliaco,edenico. Bisogna diffidare chi ci ripropone “paradisi
  perduti” e chi ci lusinga con utopie di comunità utopiche e mitiche. Bisogna
  accettare le complessità e difficoltà nei possibili spazi di amori ,di sogni,
  di odi,di controversie, di rancori, di rimorsi   , sempre disposti
   al rischio ma  con “gesti eroici”ed autentici anche di
  intelligenze confuse ,provvisorie o smarrite mai  dogmatiche e
  prescrittive.  Massima vitalità anche in possibili massime disperazioni. 
Mauro Orlando 
 
 
Non sono un filosofo, non sono uno che
  produce concetti. Non sono un politico, uno che dovrebbe risolvere problemi.
  Sono uno che scrive, produco visioni senza l’obbligo che siano coerenti,
  senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in
  cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana.
  Sono costantemente sospeso tra ritiri autistici e slanci comunitari. E forse
  proietto questa mia condizione anche sui luoghi che vado a vedere o a filmare
  nel mio lavoro che definisco di paesologo. La mia terra è una terracarne che
  mi appare a volte come segno del pericolo e altre volte come segno
  dell’opportunità. In certi giorni sento che in qualche modo forse stiamo già
  guarendo, che il mondo è bene accordato e che qui forse la vita ha ancora un
  senso proprio perché persiste nostro malgrado una trama comunitaria. Basta un
  soffio e mi ritrovo in un’altra percezione. Mi pare che anche qui l’autismo
  corale abbiamo steso i suoi teloni, sia la serra in cui stiamo appesi a
  maturare le nostre indifferenze, la nostra mancanza di compassione.  
Sono nato nel 1960. Ho vissuto dentro la comunità del paese e dentro la
  comunità dell’osteria di famiglia. Quella casa era un luogo del paese, ma
  allo stesso tempo un luogo dell’altrove. Mi sono fatto l’idea che oggi nei
  luoghi in cui vivo sia accaduta una cosa molto complicata da spiegare. Mi
  pare che comunità e autismo corale stiano qui in  una forma rassegnata
  di infelice compresenza. Sono, come il nastro di Moebius, facce in cui non è
  dato distinguere l’interno e l’esterno. 
Non mi fido delle astrazioni e non mi fido delle scienze umane in generale,
  per il semplice fatto che sono appunto umane e mi pare che risentano dello
  sfinimento morale e cognitivo della creatura che le ha prodotte. E allora
  invoco altre posture, invoco un sentimento del mondo che parta da riflessi
  più semplici. Per me la scrittura è un riflesso semplice, è un esercizio
  percettivo in cui la vecchia cassa con gli attrezzi servita fin qui per
  indagare il mondo mi pare piuttosto inutile. Abbiamo un martello che non
  batte, una pinza che non stringe, un giravite che non avvita niente.  
A me pare che il discorso sull’esistenza o meno della comunità sia inficiato
  dal fatto che alla fine noi pensiamo sempre a un individuo con uno statuto
  forte, un muro di cemento che guarda il mondo come una grande palla di
  cemento. Con questa ottica nessuna comunità tiene, anzi lo stare insieme, la
  comunità diventano l’autostrada per arrivare in modo più diretto all’autismo
  corale. Il rischio drammatico che corriamo, che forse abbiamo già corso è
  quello che un volto di una donna, un albero, un telefonino, ormai siano sullo
  stesso piano, appartengano allo stesso ordine di cose e possano farci
  compagnia o darci solitudine, possano darci perplessità più che certezze. 
Ma il problema non è il nostro singolo cuore e la costruzione di un cuore
  comune, è la capacità di accettarci come creature sgretolate in un mondo che
  si sgretola. La nostra esperienza delle cose consiste nel loro perenne
  svenimento. Nel primo bacio sentiamo l’ultimo. Nella parola che diciamo
  sentiamo l’agguato di altre parole che diremo o che diranno altri. Non c’è
  tempo, non c’è salvezza se non accettiamo questa nostra radicale
  disappartenenza. Siamo estranei alla comunità paesi, ma siamo in qualche modo
  estranei anche alla comunità di organi che costituisce il nostro corpo. Il
  cuore e la mente si parlano, il fegato e lo stomaco si parlano, ma noi dove
  siamo, dov’è questa fantomatica creatura che chiamiamo io? Dovremmo essere
  capaci di accettare questa nostra radicale contumacia, questa impossibilità
  di incontrare noi stessi. Soltanto possiamo disporci verso l’esterno, come un
  lenzuolo al vento. È necessario depensare se stessi e il mondo, è necessario
  in qualche modo depennarsi dal mondo, dimettersi dal commercio quotidiano in
  cui il nostro io ogni giorno firma assegni in bianco che non può onorare. La
  comunità, la vera comunità è possibile solo nella morte. Lì si è in un regno
  senza soprusi, dove nessuno ruba il fiato ad altri. In attesa di accedere a
  quella comunità perfetta e se non vogliamo marcire nell’inferno dell’autismo
  corale, dobbiamo disporci ad accogliere forme di comunità provvisorie.  
Questo punto morto della postmodernità forse richiede di affidarsi a 
  comunità provvisorie per sfuggire ai pericoli dell’autismo corale o a
  nostalgie regressive di comunità basate su ripiegamenti localistici. Per
  comunità provvisorie intendo la costruzione di luoghi, reali più che
  virtuali, in cui le persone si incontrano esponendosi agli altri
  generosamente e cercando di fare delle cose insieme agli altri, azioni che
  possono essere di svago o di contestazione, di riflessione intellettuale o di
  produzione artistica, ma sempre con l’intenzione di tenere vivo un intreccio
  di umori e di gesti in cui sia riconoscibile allo stesso tempo la matrice
  individuale e la tensione corale. È  inutile arroventarsi,
  aggrovigliarsi. Bisogna distendersi, arrendersi al tempo che passa.  
La vita dell’individuo in lotta con tutti gli altri non ha senso, ma non ha
  senso neppure la vita dell’individuo inquadrato rigidamente nel corpo
  sociale. È un tempo che ci offre la possibilità di oscillare, di muoversi in
  diverse direzioni, non per predare il mondo un po’ qui un po’ là, ma per
  cercare nuovi  modi di sentire 
Le comunità provvisorie sono necessariamente pionieristiche e rivoluzionarie,
  non hanno un modello di società da raggiungere, né un ideale di uomo da
  compiere. Anzi, si parte proprio dal ridimensionare il ruolo dell’umano nel
  mondo, dal considerarci non la specie intorno a cui tutto ruota, ma una
  specie un po’ goffa che ha riempito il pianeta coi suoi figli e con le sue
  merci ed ora sente il petto oppresso da tanto peso.  
Le comunità provvisorie non vanno al mercato delle idee e delle opinioni e si
  abbigliano delle vesti più consone al contingente. Si preferisce
  l’inattualità, si preferisce il margine non battuto, il luogo non illuminato.
  Si abitano gli spigoli più che il centro, si sta nei territori che fanno
  resistenza all’omologazione produttivistica, nei paesaggi che segnalano il
  ritiro dell’umano piuttosto che il suo trionfo. La comunità che ci viene da
  un muro, da una busta che oscilla al vento, da una macchina parcheggiata, da
  un cane a cui diamo un pezzo del nostro panino, dal vecchio che ci guarda
  sulla panchina vicina alla nostra. Quello che propongo è semplicemente l’idea
  di congedarci dalla comunità fatta di umani, cioè di un insieme di io, ma di
  considerare una nuova alleanza tra noi e le cose che produciamo e la natura
  che ci accoglie. Bisogna prendere atto dell’inutilità di sé non in un’ottica
  nichilista e distruttiva, ma al contrario, considerando questo l’unico modo
  possibile per stare nel mondo, in tutto il mondo, nei suoi atomi, nelle sue
  parti. 
La soggettività è il risultato di un processo di produzione che serve a
  controllare l’uomo, a tenerlo a bada, a dargli, dosando bene, paura e
  diffidenza verso l’esterno, che non è l’altro uomo, ma l’altro in generale. 
La comunità non è mai esistita davvero, perché, quando c’era, era comunque
  escludente e esclusiva, la donne ne erano escluse, ne erano esclusi i cani, i
  bambini. 
La comunità non è ancora nata. Tutta la storia dell’uomo è stato un processo
  di immunizzazione che ha portato a quello che adesso possiamo chiamare
  autismo corale. Un processo che ci dà la sensazione che non ce la facciamo a
  tenerci insieme vivamente e mitemente. Viviamo un’agonia ciarliera, dove le
  parole non si capisce se sono un tentativo di guarigione o un ulteriore
  approfondimento dell’agonia. Ed è piuttosto penosa la sensazione che la
  guarigione e l’aggravamento della malattia sembrano intercambiabili, come se
  ci trovassimo di fronte a una biforcazione formale, come se la sostanza fosse
  perduta, volatilizzata. Parlo della sostanza della nostra vita. In questo
  senso più che di fine della storia si deve parlare di fine di una certa idea
  di umanità e suo avvicendamento con una moltitudine di esseri viventi (o più
  precisamente esseri esigenti).  
Adesso il principio non è la speranza né la disperazione, il principio è un
  vago sfinimento, una sommatoria di destinazioni senza destino. Lo sfinimento
  non riguarda le nostre speculazioni teoriche, non arriva al culmine
  dell’esperienza religiosa, filosofica o letteraria, arriva ogni tanto, quasi
  casualmente, quasi distrattamente, mentre parliamo al telefono, mentre
  camminiamo per strada, mentre ancora proviamo a innamorarci o a combattere.
  Arriva e ci porta via senza curarsi della nostra noia, della nostra gioia 
Le
  altre nazioni hanno il Mediterraneo sull’orlo. Noi ci stiamo in mezzo, solo
  noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale che è il nostro
  Appennino. Da qui può partire un nuovo modo di vivere i luoghi, radicalmente
  ecologico, improntato a un’idea di comunità inclusiva del respiro degli
  uomini e dell’ambiente. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un
  nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne. La paesologia è una
  forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che
  per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro
  forma. 
 
Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni
  modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come
  tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui. 
 
Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può
  partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per
  una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura." 
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