A Mauro, amico caro,
che mi parla indossando vesti d’angelo
e dicendo, come angelo, di chiamarsi Mercuzio.
Mercuzio, personaggio scespiriano
considerante la vita come sequenza pura di episodi
e, nell’episodio,
rappresentante se stesso,
ispirato ad allegria, a sensualità, a gioco.
Un Mercuzio, quello scespiriano,
che piroetta mattacchione
sul palcoscenico della vita
nascondendo così il suo pessimismo doloroso.
Ridi pagliaccio sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t'avvelena il cor!
Altro è il discorso di Mauro in veste d’angelo,
pur se il suo è un piroettare filosofico allegro.
A Mauro, e ai suoi amici, non piacciono
meditazioni austere, noiose.
da affiliati alla trappa..
Mauro lo sa e quindi
inventa ossimori
come quello dell’angelo cogitante
che ha nome Mercuzio,
angelo scherzoso,
allontanante da sé vaniloquentia et iactatio.
Discorso sereno, gioioso il suo,
che nasconde con astuzia la tristezza,
come il Mercuzio scespiriano,
la tristitia rerum tenuta a bada finché può;
il suo è frugamento dell’anima braccante qualcosa
che doni al dubbio
parvum amuletum
ad animum nostrum modice confirmandum,
rincuorante noi, amici suoi,
rimestanti lepidezza e seriosità insieme,
bevitori d’indiche, aromatiche tisane fumanti
intercalando senza metodo cartesiano
parvenze di sillogismi e facezie,
distesi su divani in salotto d’ospite
discepola di Jung
o in raffinato bar mitteleuropeo,
all’ora solita,
cotidie,
noi,
soggetti smarriti.
Caro Mauro,
ho letto con invidia la tua capacità di comporre un dialogo di tipo platonico mischiato con sprazzi pirandelliani (“Ciò che raccontiamo di noi è realtà, pura realtà. È realtà!” “No, no, è fantasia, siete tutti matti. Via di qua!”), condito con il riso multicolore di un angelo/clown, come si fa di solito con amici che soprattutto amano calorosi rapporti umani.
Amici disdegnanti aride solitudini e stupide presunzioni.
Risponderti non è facile dopo la lettura di vorticose illuminazioni. Io sono invece un vulcano in via di spegnimento, al fondo del quale ci sono braci esalanti spirali di fumarole.
In verità l’immagine del vulcano è ben lontana dall’esprimere quel che sono stato nella vita.
Nella vita ho amato le quiete distese del mare, i soffusi tramonti color pastello del mio lago, i sereni pendii dei monti e le rocce, quiete nel tempo che irreparabile fugit.
Parto dalla fine del tuo dialogo dove ad un tratto parli dell’amore, esperienza umana tra le più belle e più rare. Un parola (l’amore) che non è semplice flatus vocis, ma è realtà pervasiva che ci ha dato la vita (siamo nati in seguito ad una attrazione amorosa sprigionata dai sensi) e che “muove il sole e l’altre stelle”:
L’amore è sempre stato, per me, un tranquillo flusso che mi ha legato ad alcune esistenze sotto il segno di Venere che ad “amar conforta”, ovverosia “esorta, sollecita”. Questo è il maggior bene che abbia avuto dalla vita, molto più del sapere. Non mi importa affatto conoscere le mirabili scoperte matematiche di Gauss, se nel contempo non avessi l’amore; e potrei proseguire, sull’esempio di Paolo di Tarso (vedi Ia Corinzi), nell’elenco dei saperi. Non potrei lasciarmi affascinare dalle Disquisitiones Arithmticae di Gauss se non mi innamorassi della loro bellezza. Su questa mia asserzione il nostro amico Sebastianus, mathematicarum artium peritus, at a philosophiae cogitationibus abhorrens, senz’altro ─ opinor ─ sarà d’accordo. Ne sarei felice.
Penso che il fluire dell’amore nella sua completezza, cioè se è corrisposto, lo si ravvisi, sia pure allo stato apparentemente elementare, nella natura inorganica. Il mondo atomico è un microcosmo di relazioni incredibilmente complesse in cui particelle subatomiche chiamano altre particelle. L’acido solforico è un’unione di elementi ( H2SO4 ). Certo, siamo nel regno della necessità; questi legami sono forze che, necessariamente, in date circostanze, si attraggono e si uniscono. Mi viene il desiderio di leggere, a sostegno della correlazione fra mondo fisico e mondo umano in tema di attrazione, lo scritto di Goethe Le affinità elettive dove si allude a quel particolare fenomeno chimico per il quale due elementi associati, sotto l’azione simultanea di due altri elementi dotati di certe determinate proprietà, si disgregano, associandosi con questi ultimi in due nuove coppie, per legge di reciproca attrazione (è la storia raccontata nel romanzo, la storia di Eduard, Charlotte, Ottilia e il Capitano), per necessità, come se il carattere di ineluttabile necessità, che è proprio delle leggi della natura, si sia trasmesso anche al sentimento degli uomini. È come se una forza magnetica, analoga a quella che impera nel mondo, agisca anche sopra le anime, entro le anime.
Non dice forse Francesca che “Amor,… al cor gentile ratto s’apprende” (Inf. c. V, v. 100), cioè che Amore trova facile accesso in cuore gentile? Il cor gentile è l’ animo nobile. Poi (v. 103) Francesca esclama: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, Amor che non permette (perdona) che chi è amato non ami la persona che l’ama.
In verità, amore è forza primigenia, che è un tutt’uno con l’istinto di vita, il desiderio, la volontà di vivere. Si ama, si desidera vivere. La radice di amare sembra derivare dal sanscrito ka, kam, che significa appunto desiderare, amare; e dal greco maomai “bramo”, connesso con menos “animo, principio di vita e di forza; principio di volontà, brama”. L’infante appena nato s’attacca alla mammella della madre per trarne alimento e vita. Le carezze della madre lo rassicurano dopo il trauma di apparire alla vita.
Amore quindi è energia che percorre il nostro esserci,; forza che permette a noi di esserci, non in modo caotico, confuso, disordinato, informe (un qualcosa che è simultaneamente orecchio ed occhio oppure lingua e naso, e così via). Una energia intelligente, nel senso che si muove secondo strutture razionali, funzionali, in cui agisce il caso, a sua volta condizionato dalla selezione naturale secondo la quale una farfalla sopravvive perché con i suoi colori si confonde con la corteccia di un albero e quindi facilmente non diviene preda di uccelli predatori. Il colore delle ali della farfalla non è voluto consapevolmente dalla farfalla stessa, ma dal caso. Ciò nonostante, al caso si unisce la necessità che sopravviene con le sue leggi fisiche, chimiche, biologiche per cui una farfalla è una farfalla, e non un gatto. Quindi, le farfalle e i gatti hanno una loro storia, benché di questa essi non siano consci. Ecco, appare per la prima volta il termine coscienza, dal latino conscire, “aver coscienza, consapevolezza di”.
Ma sulla coscienza, dopo.
Quando si parla dell’amore, lo si deve intendere come forza che si dispiega in mille forme, da quella semplice che si identifica con l’amor vitae (istinto di sopravvivenza), all’amore materno, filiale, coniugale; l’amore/amicizia tra persone che non hanno legami di parentela, Comunque abbiamo a che fare con un sentimento che è definito con parole contenenti la stessa radice, am─. Si può anche amare un paesaggio, il proprio paese, che è diventato un luogo dell’anima, il ricordo di un viaggio che suscita visioni che fanno parte essenziale della nostra vita; si può amare un animale e piangere sulla sua morte; si possono amare fiori e piante con cui alcuni sono addirittura capaci di porsi in comunicazione. L’amore per il Bene e la Giustizia può essere tanto forte da spingerci ad offrire la nostra vita, a testimonianza, dinanzi a chi perversamente li nega, della loro presenza sacra in noi.
So benissimo che qualcuno può qui obiettare che, quando parliamo di Bene e di Giustizia, entriamo nella sfera della soggettività. Questo è un altro problema da discutere a parte per la sua complessità. Qui mi limito a dire che, allorché si parla di Bene, si dovrebbe fare riferimento a un bene concreto, non ad una idea astratta, che per la sua astrattezza è vuota. Si può invece, analizzando la realtà e utilizzando quindi gli strumenti scientifici della ricerca antropologica, che nell’uomo esiste l’impulso alla conservazione di sé all’interno di una società non conflittuale in cui emerge la consapevolezza di darsi delle leggi. Quali leggi? Vi sono leggi buone e leggi non buone. Le leggi sono soggette ad evoluzione storica. Dovremmo parlare di evoluzionismo culturale. Per il momento parliamo dell’impulso alla vita e all’amore. Quelli che faccio sono rilevamenti desunti da fenomeni. È un metodo pragmatico. L’amore è una energia che percorre la nostra esistenza biologica, come la corrente elettrica fluisce lungo i filamenti di rame o altro materiale per dare luce. Per nobilitare questa forza, questa energia (en─, “dentro”; érgon, “opera, fatto azione”) è stata assegnata ad essa una parola, che muta nelle varie lingue e che significa “spirito”.
Lo spirito di vita. L’amore che muov soli e stelle, e ci dà la vita, non solo quella biologica, ma pure quella psichica (sentimenti, affetti, desideri …).
Vero è che l’amore è multiforme. Può essere passione coinvolgente i sensi, dolce contemplazione di persone, di esseri od oggetti che ci affascinano. L’amore è relazionalità; una relazione può interrompersi, svanire, sostituita da un’altra. Caratteristiche dell’amore sono la specificità e la prossimità. L’amore è specifico perché le varianti delle esperienze individuali sono infinite, non imitabili se non con artificioso imitazione. Inoltre, l’amore tende a porre in atto tutta la sua energia solo in rapporto al suo prossimo (Ama il tuo prossimo come te stesso). In questo caso il prossimo non sono tutti gli altri, ma solo quelli o quello/quella che sono vicini a te. Prossimo infatti deriva da proximus, “vicinissimo”, contenente la radice di prope, l’avverbio significante “vicino, presso”. L’amore, icona della massima prossimità, è quello ricordato con struggente nostalgia da Francesca da Rimini, e cantato con passione solare nel Cantico dei Cantici, canto sacro e sublime, che ha il grande privilegio, secondo la interpretazione ebraica, di essere simbolo dell’unione di un popolo con Dio: ciò significa che l’amore tra uomo e donna, da cui è generata la vita, è il vincolo più grande e più bello di tutte quante le relazioni umane, ove l’attrazione sessuale si coniuga con il sentimento dell’amicizia, che qui raggiunge l’acme dell’intensità, ove l’uno non può far a meno dell’altra.
Poi vi sono gli altri, più o meno prossimi, vicini, meno vicini, lontani, più lontani
Così s’allontana l’oggetto del nostro amore, e appaiono tutti gli altri, sterminati, lontanissimi, non più visibili, ma di cui abbiamo sentito vagamente parlare, tutto quello che comunemente, ma erroneamente, chiamiamo prossimo; erroneamente, perché prossimo non è. Questa lontananza spaziale si riduce e quasi scompare; quando, però, si creano rapporti culturali, per cui si può amare una lingua diversa dalla nostra, si conosce l’arte di un altro popolo, il suo modo diverso di vivere, e così via. Si può arrivare ad amare una persona lontana e non mai vista. Jaufré Rudel cantò un “amore di terra lontana”, un amore irraggiungibile. Si può amare, attraverso parole che superano i secoli, una poetessa lontanissima nel tempo, Saffo.
Ci si accorge che la vita su questo piccolo globo lega i popoli fra loro, avviati verso un futuro che attende tutti. Un futuro da noi creato.
Che cos’è allora l’amore verso la specie umana, se non un amore intellettuale che s’identifica con quello di cui parla Spinoza quando definisce l’amore di Dio verso le sue creature un “amore intellettuale” ? “Dio ama se stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicarsi attraverso l’essenza della Mente umana, considerata sotto specie d’eternità”(Spinoza, Etica, parte 5(a), prop. XXXVI).
Concludendo, e riassumendo, l’amore è una forza che tutto pervade, anzi è l’essenza, l’elemento base, costitutivo di tutti gli esseri inorganici e organici, dell’aria, dell’acqua, della terra, dell’ameba, del tentacolo del polipo, del bacherozzolo che è immerso nel molle terriccio e non vede mai il sole senza sentirsi minimamente triste, del nostro cuore e delle nostre dita.
L’amore spinse Botticelli a dipingere Afrodite che nasce dalle acque.
L’amore spinse Mendel a studiare i piselli e l’impollinazione dei fiori.
Veramente l’Amore muove tutto ciò che esiste nell’Universo infinito ed eterno. È un tutt’uno con l’Universo. È l’Universo, la Totalità che è (voce del verbo essere), vive, esiste, qui, ora: la vediamo in quel piccolo sasso arrotondato che fu portato dal ghiacciaio sulla spiaggia del nostro lago.
L’Amore è ll fiume eracliteo, l’Uno plotiniano, l’ipostasi trinitaria cristiana, il Dio come natura increata e creante di Scoto Eriugena, che contemporaneamente è natura creata e non creante,
il Deus contractus di Cusano, il Dio di Giordano Bruno che è anima delle anime, vita delle vite, essenza delle essenze. il Dio spinoziano, natura naturans che si identifica con la naturata naturata, l’Assoluto di Hegel che si realizza nella storia.
Dio è parola inflazionata. Il secondo comandamento biblico (Non nominare il nome di Dio invano), prima di essere inteso come divieto morale di non pronunciare il tetragramma, con cui lo si raffigura, come una parola qualsiasi sminuendo in tal modo la sua immensa sacralità, innanzi tutto dovrebbe essere interpretato teologicamente, nel senso che il tetragramma, significante Io sono colui che è, si pone, nella sua incomprensibilità, totalmente al di sopra della nostra esistenza, sicché è vano nominarlo, in quanto vuoto di significato, pura emissione di voce, cui ci riferiamo per analogia, rapportando all’Essere tutto quello che consideriamo buono, bello, giusto. In fondo è quello che poi dirà Kant con i suoi postulati (Dio, l’immortalità dell’anima e la libertà del nostro agire morale).
Possiamo procedere solo per aenigmata.
Ci soccorre l’Uno plotiniano che genera tutte le cose in un processo di emanazione. Queste sono considerazioni nostre (vale per Plotino e per tutti gli altri) che non si identificano con il pensiero dell’autore citato: è il nostro metodo, interpretare cioè i Maestri, con tutto il rispetto loro dovuto, per farli nostri.
Precisato il metodo seguito, possiamo paragonare l’emanazione plotiniana con la sequenza infinita dei numeri che seguono all’infinito, sicché la mia identità è rappresentata simbolicamente con il numero 2 elevato ad una potenza n.
L’Uno è l’unità assoluta, l’Essere che tuttavia, per essere deve diventare molteplice, deve essere seguito dagli altri numeri, ossia, fuor di metafora, dagli altri esseri per comporre la propria Storia, Historia Dei per animalia inanimaque, parafrasando la celebre storia di Gregorio di Tours (“Historia Dei per Francos”).
L’Uno è presente come essere in ciascun numero: l’ 8 contiene, per esempio, otto volte l’uno. L’Uno è l’essenza di ogni numero, all’infinito (∞), e quindi è Totalità, che, per esistere, diventa necessariamente pluralità, senza la quale rimane un Deus otiusus (“Privo di forma” dice Plotino, riveduto e corretto, “non è nulla di determinato, né qualità, né quantità, né intelletto, né anima, né mobile, né immobile, né in luogo, né in tempo, ma è in sé stesso uniforme, anzi informe”); in conclusione, sarebbe il Nulla, se dalla Totalità potenziale (l’Uno) non seguissero .innumerevoli serie di esseri.
Seguendo il metodo della conjectura (metodo suggerito dal nostro Cusano), Dio è il Pater procreator omnium rerum visibiluim et invisibilium: energia in potenza non oziosa, ma necessariamente, in aeternum, attiva. Le creature, inorganiche e organico, sono il Figlio, se vogliamo usare una allegoria cristiana.
Poiché Dio non può non amare se stesso, così ama le proprie creature con cui si identifica, senza le quali non può essere. L’Essere esige necessariamente la pluralità degli esseri; inoltre l’amore per il proprio Figlio non può non concedere a questi la libertà, altrimenti il Figlio, cioè noi, saremmo semplici marionette che si muovono in seguito agli impulsi di un burattinaio che ha già scritto il copione di una storia infinita.
L’emanazione plotiniana è un processo di degradazione. L’esistenza del singolo essere non può giungere alla perfezione; se ciò avvenisse, sarebbe un duplicato della Totalità pura, cioè il Nulla. Non si può pensare il non essere perché il pensiero e l’essere sono la stessa cosa. Così dice l’altro nostro amico, l’eleatico Parmenide.
Il Padre emette lo spirito suo nella storia; anzi, è Spirito d’Amore che partecipa alla Storia, è storia, è l’Uno che diventa Altro e, quindi, per necessità intrinseca all’Essere, che deve manifestarsi uscendo dal Nulla della Totalità, subisce la contractio, la degeneratio. Lo Spirito divino, per amore di sé, non può accettare di rimanere nella ipotetica staticità astratta. Lo impedisce la potenza immensa di energia di vita, una potenza che dovremmo misurare con un numero avente come esponente l’infinito (∞).
Lo Spirito divino è in noi, anzi, lo Spirito divino è tutta la nostra struttura fisica/biologica/psichica. Ciascuno di noi è figlio/emanazione di Dio.
Queste mie considerazioni possono essere utili per comprendere l’intuizione cristiana della Trinità.
Nelle nostre discussioni appare il dilemma riguardante la concezione di un Dio impersonale o personale. Se assumiamo la concezione panteistica, come avviene in questo mio ragionare, parrebbe che la impersonalità di un Dio che, come Potenza/Energia/Spirito, costruisce il mondo secondo sequenze logico─matematiche obbedienti a rapporti di pura necessità, sia la ipotesi più probabile. Il grado di consapevolezza di sé in un sasso levigato da antichi ghiacciai su una delle spiagge del nostro lago, è del tutto assente. Almeno così sembra; lo stesso dicasi di un’alga che ondeggia nell’acqua del mare; credo che la vita psichica in un nido di processionarie verosimilmente abbia un tasso assai debole di vita psichic, prevalendo una attività regolata da istinti, e quindi assai scarsa, se non priva, di autocoscienza.
Per concludere, il problema dell’immanenza dello Spirito nella contingenza storica, con la quale si identifica, va visto in un’ottica evoluzionistica. Abbreviando il discorso arcinoto sull’evoluzione naturale (arcinoto in una semplificazione elementare), affermiamo che nell’uomo nasce l’autocoscienza, di cui la scienza ci spiega o spiegherà il meccanismo, senza che, con questa spiegazione scientifica, l’autocoscienza cessi di essere tale.
Il paesaggio che vediamo dal nostro lungolago (la distesa dell’antico Benàco e i monti che lo circondano) ha una storia geologica di cui i monti e il lago non sono consci, ma che noi raccontiamo, inserendo la nostra storia nella loro.
Il Dio persona − il Dio incarnato − è la nostra persona. Nessuno di noi ha mai visto Dio; per conoscerlo devo vedere in faccia un uomo. Gesù, cioè ognuno di noi, è vero Dio e vero uomo. Il fallimento nostro è il fallimento di Dio. Il dolore nostro è il dolore di Dio. La felicità nostra è la felicità di Dio. La Totalità, inverata nella storia, non può, essendo Totalità, non conoscere la deminutio. Il Male morale è l’ irrazionale che mette sottosopra il nostro mondo interiore, né più né meno di una imperfezione della sequenza del DNA che provoca una inerzia biologica di fronte all’attacco di virus e batteri, oppure è responsabile di deficienze biologiche gravi, tali da distruggere la persona. Nel Cottolengo di Torino si potevano osservare mostri, aborti della natura.
La contractio, necessaria allo Spirito per esistere nella pluralità delle cose e degli esseri, riduce lo Spirito a vivere nel tumulto della Storia. Non esiste un piano divino, una Provvidenza che tutto regoli, che tutto alla fine giustifichi. Il Regno della libertà si evolve conoscendo naufragi e lieti approdi. Il dubbio, l’ansia, la paura, lo smarrimento sono realtà della vita dello Spirito, come sono reali le opposte e complementari esperienze quali la certezza del conoscere e dell’agire, la serenità, il coraggio, la fede. È l’umanità a decidere della stessa sorte di Dio, perché essa è Dio, sia nel bene, sia nel male.
“Siccome i mortali … invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono, così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel mondo che di grandissimi regni ed imperi umani e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna, parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo, e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.” (Leopardi, Cantico del gallo silvestre).
Lo splendido brano di Leopardi, caro Mauro sotto la specie di angelo, ci fa sentire il dramma esistenziale della incomprensibilità del mondo in cui viviamo, quando rinunciamo a voler dare un senso al mondo, alla nostra vita. Il bisogno dell’uomo di capire come è fatto il mondo, di fare progetti, di guardare al futuro, di fare ipotesi non irragionevoli, questo bisogno, che è elemento essenziale della natura umana, come ci insegna una analisi antropologica condotta secondo un metodo pragmatico, basato cioè sui fatti, sulla realtà, è la risposta all’angoscia leopardiana, che è pure la nostra.
I cosmologi ipotizzano che l’Universo sia in espansione e che al termine di essa vi sarà una lentissima contrazione, alla fine della quale tutta la materia/energia/spirito si ridurrà al punto iniziale precedente il big-bang, un punto iniziale avente una massa enorme, inimmaginabile.
Questo punto in cui si riduce tutta la materia dell’Universo (galassie, stelle, pianeti, satelliti, e tutta la materia vivente) è il raggio di luce che vide Dante nella sua trasfigurazione mistica: “Oh luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi … dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige” (Par, XXXIII, vv. 123-131).
Saremo là, eterne effigi, ātman, epifanie dello Spirito che in noi si è incarnato, nelle nostre essenze individuali, che, irripetibili, sono e saranno parte di quella Totalità, di quel fulgore di luce che vive eterno nella storia infinita degli esseri Pure Emanuele Severino si rivolge ai suoi eterni, nella sua recente rimembranza della moglie, scomparsa di recente (Il mio ricordo degli eterni, 2011),
Cosmologi hanno recentemente teorizzato universi paralleli seguendo le tracce di Giordano Bruno che intravide con la fantasia mondi infiniti; già Origene, uno dei Padri della Chiesa, nel II/III secolo d.C., scrisse di mondi che concludono la loro storia e di altri che si formano. Esempi questi di intuizioni poetiche o di visioni profetiche che sono servite di stimolo a ricerche scientifiche o a successivi mutamenti culturali essenziali nella evoluzione della cultura umana.
Vorrei citare, caro Mauro, per non apparire sognatore farneticante, un maestro del pragmatismo americano, William James, “la cui tesi, in La volontà di credere, è che, poiché la funzione del pensiero è quella di servire all’azione, il pensiero non ha il diritto di inibire o bloccare credenze utili o necessarie ad un’azione efficace nel mondo. Ciò non implica certo il diritto di credere a tutto ciò che si vuole. Occorre che l’ipotesi prospettata nella credenza sia di quelle che non è possibile dimostrare né vera né falsa; occorre pure che sia un’ipotesi viva cioè che faccia un reale appello allo spirito di chi se la prospetta; e occorre infine che essa sia importante, cioè decisiva per la vita dell’individuo e non si riferisca a questioni banali.. Ma se un’ipotesi ha questi tre caratteri, l’uomo ha il diritto di credere, senza aspettare che essa diventi un’ipotesi dimostrata … Mentre la rinuncia alla fede è rinuncia a tutti i vantaggi eventuali che da essa possono derivare, la fede invece ha questo vantaggio: può provocare la propria verificazione. Questo è vero soprattutto nei rapporti fra gli uomini. La simpatia, l’amore si conquistano con la fede nella loro possibilità. E ogni organismo sociale, piccolo o grande che sia, si regge sulla fiducia che ognuno farà quello che deve, ed è quindi una conseguenza di questa fiducia. Ma James estende il principio anche alla struttura morale dell’universo. Anche qui l’uomo ha da fare con un può essere e deve assumersi il rischio della fede. Che, per esempio, la vita sia degna d’essere vissuta, è cosa che dipende unicamente dalla fede, giacché la vita è tale quale noi la facciamo dal punto di vista morale. Certamente, la fede nella bontà del mondo visibile si può verificare solo sul fondamento della fede in un mondo invisibile. Ma James ritiene che questa fede stessa possa, in certa misura, produrre la propria verificazione e che l’uomo si trovi anche qui di fronte a un può essere, di cui gli convenga accettare la responsabilità e il rischio” (cfr, The Will to Believe & other Essays, Watchmaker Publishing, 1919; il brano citato sopra è tratto dalla Storia della filosofia di N. Abbagnano, vol. VI, cap. VIII, pp. 222-223).
Il grande compito che attende le prossime generazioni è quello di liberare le concezioni religiose dai miti che si sono fossilizzati nel tempo a supporto del potere ecclesiastico che fa da stampella a quello politico, precipitante spesso in forme totalitarie cui il dogmatismo religioso è un utile alleato. Più che liberarsi dai miti, sarebbe fondamentale, ai fini di una riforma religiosa, rendersi consapevoli che essi sono tali, cioè espressioni poetiche, nate in altri tempi, da interpretarsi ricorrendo ai progressi della scienza moderna.
Nietzsche annunziò che “Dio è morto”, ma questo suo annunzio è da intendersi nel senso che “la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile” (La Gaia Scienza, par. 108, 125, 343). Esso è stato assunto come impegno di un rinnovamento del cristianesimo per ricuperare la purezza del suo messaggio. È nata così una nuova teologia di cui i massimi esponenti sono Bultman e Bonhoeffer. Questa teologia contrappone la fede alla religione istituzionalizzata, nega la trascendenza di Dio ed è quindi un panteismo, che trasferisce nel mondo della storia la speranza escatologica.
Penso, tuttavia, che in una visione panteistica in cui la storia è eterna, la visione escatologica non può essere intesa come fine della storia, ma come progressione temporale i cui esiti ad infinitum se non sono inseribili in un disegno divino predeterminato, soggiacciono comunque ad una evoluzione in cui dalle forme più semplici si è passati a quelle più complesse, più evolute sino all’apparizione dell’autocoscienza e della libertà. L’umanità, in cui s’è rivelato lo Spirito di Libertà (ecco il vero senso della rivelazione cristiana) ha la caratteristica precipua di progettare e di realizzare il Regno di cui parla l’Apocalisse che, per inciso, non significa “fine del mondo, catastrofe”, come nell’accezione comune, ma rivelazione.
Lo stesso calcolo della probabilità, in una serie infinita di possibilità, dovrebbe confortare e rassicurare la nostra fede secondo la quale l’uomo, antropologicamente mutato, costruirà un mondo migliore. Teilhard de Chardin, antropologo e teologo, sostiene che la terra, in un processo ascensivo (dagli atomi, alle molecole, alle cellule e così via) è stata avviluppata da una nuova sfera, la noosfera, al di sopra della biosfera. Il Regno esiste già; iniziò ad esistere molto tempo fa, quando i primi uomini di Neanderthal e di Cro-Magnon cominciarono ad avere la conoscenza del Bene e del Male. Furono i primi Adami. Dovettero porsi i primi problemi riguardanti la responsabilità delle scelte: “Faccio bene, faccio male?”.
Teilhard de Chardin ( in Il fenomeno umano ) ritiene che l’evoluzione, nei suoi momenti successivi di materia (H2O), vitalizzazione della materia (l’ameba delle origini), l’ominizzazione della vita, non sia ancora terminata, e che l’umanità si diriga verso una super-umanità futura, costituita da persone mosse dalla solidarietà e dall’amore. L’amore fra gli uomini, sostiene Telhard de Chardin, trova il suo centro e la sua meta nel punto Omega, che è il termine inscritto nella materia primordiale ed il fine immanente dell’evoluzione. Egli identifica il punto Omega con Cristo e con l’incorporazione dell’Umanità in Lui, concepito come coscienza e Persona infinità che fonda e dà un senso a tutte le coscienze e le persone finite.
Penso che, in una concezione panteistica, si debba rettificare la conclusione cui arriva Teilhatd de Chardin. Innanzi tutto non esiste una meta nel ciclo evolutivo. La storia di Dio, che si identifica nella Natura, è una manifestazione di Dio che è tale (Dio rivelazione) perché è potenza che necessariamente diventa atto. È Dio che parla creando un cristallo, un prato di margherite, un ciuffo di viole, una distesa di fiordalisi, un lombrico, il pelér, vento che spira ogni mattino sul nostro lago quando v’è il bel tempo. La Totalità non è un libro con pagine sulle quali non è scritto nulla. Il microcosmo è tale (cioè Totalità che s’evolve nel tempo) perché infinitamente ricco di individualità. Il macrocosmo (la Totalità) contiene il microcosmo, anzi è il microcosmo. Macrocosmo e microcosmo sono la stessa cosa. Il Cristo di cui parla la mitologia cristiana è ciascuno di noi, figlio di Dio e figlio dell’Uomo, come si legge nei Vangeli parlando di Gesù, che può essere inteso come icona vivente dell’Umanità.
La Totalità è il Tutto che non ha avuto inizio, ma è sempre stato, è, e sempre sarà. Il nostro atman (l’essenza di noi che sopravvive perché nulla si dilegua nel nulla) rimane nello svolgersi dell’evoluzione in quanto particella necessaria al Padre che, nella sua intelligenza e nel suo amore (qualità inscindibili) non può abbandonare il frammento prezioso della nostra vita, svoltasi nel bene e nel male, quest’ultimo patologia diffusa negli esseri che non conoscono la purezza totale. Nessuno è santo. La santità nella contingenza della storia non esiste. Esiste solo, in quelli che vogliono essere buoni, solo l’aspirazione ad essa, ammesso che s’intenda la santità nel suo giusto significato, come dedizione agli altri, come amore. Noi sempiterni siamo destinati a nuove vite trascinati dal fiume eracliteo che ci condurrà verso una evoluzione di noi, come tutte le cose. L’evoluzione, per la sua intrinseca necessità, ci condurrà verso maggiori consapevolezze. Così è capitato nel passato quando un animale a quattro zampe ha cominciato a pensare e a volere. Così, non alla fine dei tempi, ma in un tempo futuro (alcuni milioni di anni?) avremo possibilità, ora inimmaginabili, tra cui ritrovare il nostro passato che è eterno, non per ripeterlo, in eterno ritorno, ma per custodirlo e ammirarlo come un’opera d’arte. Anche oggi si cerca di custodire il bello creato dall’uomo e di rappresentare artisticamente il male per rispetto di quelli che lo patirono, nel perdono/comprensione di coloro che lo compirono, vittime, a loro volta, di una patologia biologica e spirituale.
L’evoluzione in atto ci spinge verso una fede che il nostro esserci si spiritualizzerà in forme diverse, molto più complesse, più ricche di vita, incomparabili con quelle attuali dove la morte ci angoscia. La nostra storia non finirà.
L’universo, meglio sarebbe dire “gli universi”, è eterno. Il Padre di tutti noi esiste, quel Padre che mia moglie un giorno disse di essere accolta, dopo la morte, tra le sue braccia come una bambina.
Che vi sarebbe stato prima del big-bang? Perché qualcosa sarebbe apparsa 13,73 + / − 0,12 miliardi anni fa? Perché l’Energia, che è vita, non avendo avuto inizio. ma è sempre stata, dovrebbe a un certo punto finire?
Verrà giorno in cui sapremo molto, molto di più di quanto ora sappiamo, compreso il nostro essere eterni. Rinascerà Pitagora a spiegarci il significato vero, per ora nascosto, del cerchio e del perché la luce viaggi alla velocità di 300.000 al m/s. Sapremo che vi sarà pure la velocità del Pensiero nell’immensità dello spazio (immenso significa, lo sappiamo bene, sine mensura), Pensiero che vedremo coincidere con l’Essere. Non vi sarà né passato, né presente, né futuro che ci potranno arrestare, cancellare e ridurci a nulla. È assai probabile, anzi è deduzione ragionevole che universi infiniti paralleli al nostro mondo esistano già ab aeterno. Sono universi già divenuti paradisiaci. Anche il nostro lo sarà: Il Regno che ci trascende nel tempo che verrà in cui l’Umanità futura sarà una Super−Umanità, costituita da individui uniti fra loro da solidarietà e da Amore.. Mitologicamente parlando, questo Creato superominizzato sarà il Pantocrator.
Un nuovo concetto di trascendenza appare senza essere affatto una realtà diversa dall’immanenza in cui il Creatore si identifica con il Creato.
Ateisti aborrenti dal profetismo, quello sorretto da fede libera, serena e dotata da conjecturae rationales, questi ateismi ipocondriaci, gioiosamente e dogmaticamente proclamati, non sono in grado (per un loro complesso ipocondriaco e masochistico) di elaborare progetti e speranze riguardanti la sorte dell’uomo. Il risultato di rifiutare la virtù della fede (jamesianamente intesa) provoca quella cultura diffusa e dominante che Emanuele Severino ha chiamato tecnocrazia.
Sono alla conclusione del mio conversare e mi accorgo di aver solo accennato alla coscienza il cui problema occupa tanto le tue pagine di risposta all’amico Clown.
Mi sembra che lui, l’amico Clown, e tu andiate in cerca del freddo nelle lenzuola. Con ciò non voglio dire che il tema dell’Io e della Coscienza non siano complessissimi e suscettibili di diverse ipotesi. Sono d’accordo con te che l’Io, cosciente o non, è un contenitore multiforme, una specie di Proteo.
Ma, vivaddio, l’Io dell’uno è diverso da quello dell’altro. L’Io è pure Persona, cioè un individuo che ha avuto dal momento in cui è stato concepito, esperienze completamente diverse da quelle di tutti gli altri, a cominciare dall’eredità genetica.
Poi, dalla prima infanzia sino alla vecchiaia, siamo i recettori di stimoli, informazioni, contenuti provenienti dall’ambiente in cui viviamo, e da altri tempi e spazi: sono gli Altri che ci parlano. Quante volte abbiamo discusso sull’alterità, sulla relazionalità! La relazione tra Io e Tu è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della nostra persona, sempre uguale e sempre diversa. Noi due siamo diversi perché, ad esempio io, fra mille e mille esperienze, non conosco l’Irpinia se non dai tuoi racconti e da quello che mi dice la storia, qualora volessi approfondire l’argomento; ma non potrò mai conoscere la Tua Irpinia che fa parte integrante della tua esperienza. Ecco in che consiste l’identità di una persona. Giambattista Vico non è Emanuele Kant. Tu, Mauro, non hai fatto la mia esperienza di guidare, all’età di nove anni nel 1938, il battello a pale Zanardelli, nel tratto tra Castelletto e Gargnano sorretto dal marinaio-timoniere Ceccon perché le mie braccia di fanciullo non riuscivano da sole a sorreggere il timone. Un’esperienza che ha contribuito a costruire la mia vita. Te lo immagini un bambino che guida un grosso battello della flotta del Garda?
Siamo uno e centomila perché innumerevoli furono le esperienze e le conoscenze che via, via aggiunsero qualcosa di piccolo o di grande alla nostra persona senza con questo disgregarla, perché il pilotaggio che feci sullo Zanardelli lo conservo gelosamente nell’animo come conservo il ricordo del braccio, divenuto giallastro, di Carlo Vischioni lasciato per alcune ore in un fossato dopo il bombardamento del Viadotto, il 22 luglio 1944. Frammenti della memoria, meglio, per stare nel tema, della coscienza: frammenti che brillano alcuni di gioia, altri provocanti dolore.
Uno e centomila, ma non nessuno, con buona pace di Pirandello. Nel vuoto contenitore indicato dalla parola nessuno non può essere collocato il rapporto tra me, ragazzo quindicenne, e il braccio abbandonato per alcune ore sotto il sole del 22 luglio 1944.
Ich und Du (“Io e Tu”) è il nucleo della filosofia di Martin Buber. Né l'Io, né il Tu vivono separatamente, ma essi esistono nel contesto Io-Tu. Non voglio ora soffermarmi sulla filosofia di Buber, che tu conosci bene. Dico semplicemente che la relazione con gli Altri dà la possibilità di convivere nella polis salvo che le leggi scritte non contrastino con il nostro sentire, un sentire dell’animo, della nostra coscienza (si veda il contrasto tra Creonte/Gengis Kahn/Napoleone/Hitler, e Antigone).
Antigone segue le leggi del cuore, l’impulso che a lei proviene dal profondo del suo essere. Antigone, nella libertà di spirito che non conosce servilismo, sa ascoltare quello che natura (in verità lei parla di leggi divine, ma noi modernamente traduciamo) le ha instillato sin dalla sua nascita, cioè l’impulso a dialogare con gli altri, a vivere armonicamente con essi senza ricorrere alla violenza, ad aver bisogno di essi in un reciproco dare. Questa è una morale naturale, laica, non discesa da alcun monte in quanto dettata da un Dio che alcuni pretendono parli dietro nubi tempestose.
Ti saluto caramente, in attesa di altri nostri conversari.
Simone