Alla riscoperta di Non al denaro non all’amore né al cielo
Mauro Orlando
Garessio, 30 giugno 2001
Qualcuno ha scritto che De André cantava la vita, il tempo, le storie perse, cantando soprattutto i sogni che non si perdono. Sembrerebbe questa una contraddizione che poi è il tema che io dovrei affrontare. Naturalmente di che rapporto ci può essere tra la storia, quella che è già sui libri di testo
scolastici delle superiori, e invece quella che è la storia interna delle persone e come si combinano, come si sono combinate in questo caso. Calvino scriveva che il lavoro del poeta è quello soprattutto di inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani nello spazio e nel tempo. Vedete, i due termini spazio e tempo sono quelli più veramente difficili da mettere in rapporto al tempo e allo spazio della poesia. Ed è questo che mi ha intrigato, in questo volume di Fabrizio De André, un volume difficile per la sua importanza. Esiste uno spazio e un
tempo nel vocabolario del poeta? È questa la domanda che io mi sono posto. Esiste uno spazio e un tempo, la storia insomma nel vocabolario di Fabrizio De André? Se pensiamo alla storia come percezione della realtà e assieme avventura spirituale, allora la risposta potrà essere assolutamente positiva. Sul giornale «La Stampa», oggi c’era un titolo molto importante che diceva così: «De André, il Suonatore Jones del Sessantotto» presentando questa meritevole e importante iniziativa proprio puntando su questi due elementi fondamentali, sulla poesia di De André e sul cantore di un
determinato periodo storico. È giusto questo titolo? È quello che mi son chiesto e a cui cerco di dare una risposta naturalmente in questo mio breve intervento. Certo Non al denaro non all’amore né al cielo viene pubblicato nel 1971 ma il tempo e lo spazio della sua gestazione è il tempo e lo spazio di quel formidabile o sciagurato tempo della storia nazionale e mondiale che si chiama Sessantotto.
A una esplicita domanda nel dialogo che Fabrizio ha avuto con la Pivano sulla necessità e attualità di una rilettura del testo di Spoon River del 1971, De André risponde esplicitamente e testualmente: «... decisamente sì, a questo punto ho pensato che valesse la pena di calarne i temi che si adattassero ai tempi nostri». Questo ci autorizzerebbe oggi a rispondere affermativamente alla domanda, che ci siamo posti, che mi sono posto io, sapendo di fare un lavoro improprio riguardo a un’originale rilettura postuma del poeta De André in questi anni. In De André c’è tanta favola e mito e allora sarebbe opportuno chiedersi in quale spazio della storiografia porre il linguaggio della favola e dei miti. La scrittura poetica uccide, si dice, uccide essenzialmente il tempo, il tempo che vorrebbe annientare e superare. A tale proposito De André scriveva: «Certe cose vengono fuori da
quello che chiamiamo altro, quello che ci suggerisce il subconscio». A me oggi il compito di richiamare alla memoria questo altro; della cronaca e della storia di quel tempo.
Ricorderò quel tempo per titoli giornalistici: 1970, politica interna «Divorzio, Golpe, decretone, un ’70 torbido e incerto». Altro titolo: «La lunga rivolta di Reggio Calabria, dieci mesi di caos»; «Approvata la legge Fortuna, il divorzio divide gli italiani»; «Nessuno riesce a prevedere gli anni di sanguinosa violenza, le Brigate Rosse arrivano in sordina»; «Le prime azioni degli estremisti palestinesi, settembre nero semina terrore»; «Il lungo cammino dell’opposizione operaia in Polonia, la rivolta di Danzica». Come vedete sono tutti titoli emblematici di germi di cambiamento
e di sconvolgimenti, in un anno complicato e difficile. «A Palermo la misteriosa fine di De Mauro, il giornalista scomparso»; «Paolo VI ad Hong-Kong, una sommessa speranza di dialogo!». Economia e lavoro: «Approvato lo statuto dei lavoratori; nuovi diritti, protagonista Luciano
Lama»; Mondiali di calcio in Messico: «Secondi gli azzurri, Gigi Riva il nuovo idolo». Questi alcuni titoli e sono emblematici della pesantezza iniziale di questi anni. Ludovico Garruccio, in una nota intitolata: «Lo spirito di un anno», sintetizza questo anno in questo modo: «... erano gli anni
della contestazione giovanile con la rimessa in questione ininterrotta, come succedeva in Cina con la Rivoluzione Culturale, delle strutture istituzionali e delle élite del potere. Non era un’ipotesi puramente teorica ma doveva generare nella società un cambiamento continuo in modo da
bloccare la formazione di nuove classi, di nuove egemonie, di nuove autorità e di ricacciare indietro i vecchi e i nuovi padroni della politica, dell’economia e della scuola». Questa è l’analisi del ’71.
L’anno ’71, politica interna: «Divisi i partiti sulle elezioni presidenziali, vince Leone»; «Cronaca di un colpo misterioso e ridicolo; la notte di Borghese»; «Gli anni oscuri degli opposti estremisti, la verità impossibile»; «Muore Nikita Chruscëv, fine di un pensionato»; «Pietro Scaglione
assassinato dalla mafia: magistrati nel mirino»; «Orrendo delitto a Genova, il caso di Helena Sutter»; «Un progetto politico quotidiano, l’aggressivo manifesto della nuova sinistra, il primo numero del “Manifesto”»; «Scompare Louis Amstrong: il silenzio della tromba d’oro»; «Sulla
piazza grande della musica Lucio Dalla nasce a Sanremo». È l’anno del riflusso, il ’71. L’inefficacia politica dei grandi movimenti studenteschi e sindacali, del periodo ’68-71, le
frustrazioni che ne derivano ai loro attori, spiegano la permanenza di una carica di risentimenti e di collera. La ricerca di canali di sfogo in una simile atmosfera giustifica una sorta di indignazioni per episodi di trapelanza neofascista e per le ipotesi di trame golpiste. E queste, naturalmente,
sono confermate, effettivamente da oscure manovre eversive. Alimenta questo, nelle generazioni del tempo, una sorta di antifascismo quasi ossessivo, con fantasmi neri dappertutto. Questo è il quadro, la cronaca dei fatti più importanti degli anni che la stampa raccontava. Ma questo che cosa c’entra con i due dischi più belli e più interessanti da questo punto di vista: La buona novella e Non al denaro non all’amore né al cielo? Per me proprio l’esame di questi titoli giornalistici fa ancora rilevare di più la peculiarità e l’importanza della poesia di Fabrizio De André. Ecco allora ancora più limpide culturalmente, interessanti le risposte di De André con l’album: La buona novella, e soprattutto Non al denaro non all’amore né al cielo. Perché il poeta, e Fabrizio De André è un poeta a tutto tondo, non ha bisogno della realtà, è inattuale per definizione, ma ha bisogno dell’attesa e del sogno.
Ho preso in citazione dei versi di Fabrizio, a giustificazione di quello che sto dicendo: «... nella stagione del tuo amore - dice Fabrizio - passa il tempo sopra il tempo ma
non devi aver paura sembra correr come il vento, però il tempo non ha premura». De André recita la vita, attraverso la realtà e i sogni, in una tensione lirica nel ritmo che filtra e raccoglie i segni del tempo e li trascende. Racconta la politica vivendo il tempo delle generazioni, confrontandolo con
il suo tempo interno, evitandone la sua inattualità, il pericolo della metastoria, della separatezza o della metafisica. Cogliendo i fatti nascosti che si sono fatti segreti, misteri carsici, che camminano dentro di noi e che ci affannano e la sua capacità onirica, il compito incompreso del presente, dell’attesa di queste fuoriuscite nel rumoroso e tragico cicalare del tempo della cronaca e della storia di quei tempi, De André ci ha cantato e ci ha lasciato in memoria, il canto della
vita, il tempo senza tempo, le storie perse, i sogni che non si perdono. Nelle figure del giudice, il matto, il blasfemo, il suonatore Jones, in particolare, mentre noi in quei tempi eravamo sordi e frastornati da rumori di fondo e non riuscivamo a distinguere quel che era la musicalità del tempo che Fabrizio coglieva e noi eravamo, così, ottusamente testardi anche nel non voler capire questa sensibilità che emergeva in questo testo. Perché oggi io ne faccio ammenda personale, non avevo capito, non avevo orecchie per intendere questa musica, perché quei titoli di giornale, quegli avvenimenti anche tragicamente pesanti, non mi davano la possibilità di una limpidezza mentale e di cuore di poter capire questa proposta, questi personaggi. Ci ha insegnato a non subire il fascino della tirannia della presente e anche tragicamente, coinvolgente storia, né tantomeno la prigione mentale delle ubriacature ideologiche, della morale, della storia. Ce lo ha insegnato, come diceva lui, con una specie di sorriso, il sorriso del pescatore, che è emblematico e fondamentale per cogliere il suo modo di comunicare. Non ha avuto l’esigenza di rappresentare il vissuto storico delle persone o i fatti pesanti di quel tempo se non nella loro indecifrabile nudità e universalità, evitando la saccenteria di chi propone categorie etiche o storiche, troppo generali ai limiti della metafisica. Evitando anche il pericolo di rifugiarsi in isole di creatività tra i luoghi indecifrabili dell’essere e le voci assordanti e rumorose di un esserci nel tempo, di un tempo esagitato e fuori le righe. Ci ha suggerito l’immagine del poeta combattuto tra la necessità di non smarrirsi nella realtà, di
non farsi prendere, di non farsi ingabbiare il cuore, di non lasciarsi catturare negli archetipi universali che sono oltre la storia. Due versi emblematici, per chiudere: «... che grande questo tempo, che solitudine, che bella compagnia...».