lunedì 5 settembre 2016

......totem e tabù....


Sono sempre più imbarazzato e reticente con vecchi e nuovi amici a parlare di Renzi e il succedaneo dispregiativo ”renzismo” …..della sua esperienza di governo e di guida del PD. Questo condizionamento non solo psicologico che si esercita carsico nei toalkschow per piaggeria succube….. comincia veramente a darmi fastidio specialmente tra amici e compagni per tacita obbedienza a meccanismi automatici di condizionamento che non partono mai dal merito del problema. Anzi il merito è una forma indiretta di omologazione al potere in corso.E’ politicamente e istituzionalmente pericoloso….e il peggio rappresenta la continuità del berlusconismo con altre forme ….altri mezzi e argomenti…..è superficiale e leggero ……è la tomba della storia della sinistra e giù di lì…..Cercare analisi e argomentazioni oltre i dubbi e i sospetti è non solo casa vana ma diventa discriminante per una condanna sommaria e per consumare amicizie superficiali e sospetti di comodo.Situazione tragica in altre epoche storiche “rivoluzionarie” che per fortuna in Italia si ripete in farsa ,parodia e commedia. E allora mi piacerebbe di affrontare il problema mettendo a confronto esperienze del paradigma democratico che toccano varie situazioni che in questi ultimi tempi stanno attaccando istituzionalmente e concretamente la esperienza della democrazia così come l’abbiamo vissuto e praticata in questi ultimi decenni.Avvertendo il lettore malcapitato che la lunghezza e l’articolazione del ragionamento non è l’incentivo all’abbandono della lettura. Il tema è lo svilupparsi di una tendenza verso “una democrazia dispotica” o un “despotismo democratico e leaderistico” in occidente ma anche in altri paesi geograficamente e culturalmente distanti .Tralasciamo le esperienze che riguardano territori dove il rapporto tra Stato e Chiesa non è regolato da nessuna forma di concordato e che pone il problema della “laicità” dello stato non confuso con la semplice “secolarizzazione”.Una involuzione di vario tipo verso un dispotismo di maggioranza nelle democrazie occidentali che agevola specialmente a sinistra l’assuefazione ad un “sonno dogmatico” o “ rifiuto pregiudiziale” che arriva al paradosso di accettare un dato di fatto :il consenso elettorale non è più il criterio per giudicare buono e liberale un governo. Problema aperto anche per le democrazie costituzionali.Non prendo in considerazione il giornalismo scritto e parlato che negli ultimi tempi ha dato di sé il peggio sia per professionalità e conoscenza .Gli stessi costituzionalisti sono prigionieri del loro sapere costruito nel complesso e sofistico panorama della politica italiana dalla egemonia democristiana attraversando supine le supplenze istituzionali della seconda repubblica e i disastri culturali del ventennio berlusconiano e i suoi epigoni imitatori o oppositori .Una normale espressione delle tre categorie della scienza politica (“polity”, “policy” and “politics”) sarebbe un strumento di correttezza e di lealtà e onestà intellettuale verso chi legge la politicata e ascolta la politicante. Questi termini – che non hanno un equivalente italiano – indicano tre diverse dimensioni della politica, rispettivamente: la politics, la sfera del potere, inteso come capacità di influire sulle decisioni prese dagli individui; la polity, che si riferisce alla definizione dell’identità e dei confini della comunità politica organizzata; la policy concerne invece i programmi d’azione e i processi decisionali, ossia l’insieme di leggi, provvedimenti, politiche pubbliche attuate per gestire la res publica.Queste precisazioni aiuterebbero anche a preparare lo spirito pubblico ad articolare giudizi politici utili per chi li reclama e per chi li gestisce bene o male . In questo contesto di “confusione consapevole e responsabile” si sono vericati dei mutamenti che tentano a farsi antropologici e culturali.Il primo mutamento è quello che viene definito “metamorfosi della politics”, in cui si considera la trasformazione, formale, della dimensione processuale della politica. Tale trasformazione riflette in maniera inequivocabile un mutamento di prospettiva e di rilevanza rispetto alla funzione della progettualità politica e dunque della politics. Questo nuovo tipo di consuetudine alla lamentazione e alla denuncia non tocca solo l’impoverimento del linguaggio “della transizione”, che sviluppa moduli linguistici e formule di opinione improntate al “nuovismo” vuoto e rituale . Il linguaggio della transizione è il linguaggio della crisi, della inesorabile cesura tra un “prima” e un “dopo”, tra un “ante” e un “post”; contrassegnato da una permanente “sospensione” tra ciò che è stato e ciò che invece sarà, o non sarà mai, è il linguaggio “populistico” della democrazia plebiscitaria che fa appello al popolo sovrano e al rapporto diretto tra leaders ed elettori. Questo tipo di linguaggio ha determinato un mutamento della “forma” politica, attraverso il lessico del “nuovismo”, ossia di un lessico che non si serve di parole nuove, piuttosto preferisce rovesciare il senso delle parole vecchie; un lessico enantiosemico,( dal greco ‘enantìos’ contrario e ‘sema’ segno ) per cui quando si dice una parola si deve intendere il suo contrario, come nel caso del “federalismo” che nel linguaggio leghista è servito ad indicare l’idea di separazione, di “secessione”, non di unione. Quando il mutamento del significato delle parole è indotto, allora ci troviamo in un quadro concettuale-politico diverso, in cui dobbiamo ridefinire tutta una galassia di significati. E’ un po’ quello che avviene in 1984 di Orwell, nella ridefinizione di un lessico politico che, in quel caso, riflette una mutazione irreversibile della natura della politica. Il secondo fenomeno è quello che viene definito “catarsi della polity”, un effetto dovuto al carattere performativo del nuovo codice linguistico adottato. Il linguaggio politico diventa il veicolo, il vettore di una catarsi della polity nel fenomeno del “ populismo”: uno sfogo che preannuncerebbe un nuovo equilibrio politico-istituzionale. I due tipi di linguaggio possono essere definiti “populisti”, sia per l’avversione esplicita nei confronti dei canali tradizionali della rappresentanza della dottrina giuridica e politica , la cui destrutturazione e trasformazione ha aperto la strada a nuove forme di mobilitazione sociale e di difesa degli interessi, sia per l’appello reiterato al popolo sovrano, che sovrano non è più, evidentemente. Il terzo momento è costituito definito “neutralizzazione della policy”, ossia l’impossibilità da parte dei politici di tradurre le issues politiche e sociali in coerenti formule politiche, in progetti politici, per cui il linguaggio populista finisce per esprimere la non traducibilità di queste issues, la non formulabilità di una concreta politica (policy) di governo nell’interesse generale del paese. Perché, se queste issues si traducessero, assumerebbero la forma di stridenti e forse insuperabili conflitti sociali o, nella peggiore delle ipotesi, della lotta civile. Accanto al linguaggio politico populista prevale poi il “linguaggio del’anticultura”, che minimizza o addirittura tende ad esautorare il ruolo della cultura nei processi di legittimazione democratica. Questo ci imporrebbe di interrogarci sul ruolo della cultura oggi, riprendendo la nota formula della “politica della cultura”, coniata oltre cinquant’anni fa da Bobbio in Italia e Popper nel mondo. Alla cultura spetta il compito di restituire alla politica la sua dimensione prospettica ed etica, senza la quale essa resta vittima del presente, della precarietà e della assoluta contingenza. mauro orlando

Nessun commento: