I partiti di centrosinistra hanno da tempo imitato il modello espresso dal premier. Hanno abbandonato il territorio, le persone in carne ed ossa, la dignità e i diritti delle donne anche ‘escort’, la difesa delle istituzioni democratiche , i contrappesi costituzionali e la partecipazione, per tuffarsi nei media e soprattutto nella tivù. In nome della personalizzazione autoritaria della democrazia e del marketing economico.
La società civile ha in gran parte consapevolmente o inconsapevolmente fatto esperienza del “virus” berlusconiano per il passato seguendo il parere autorevole di Montanelli.Uno che si intendeva di cultura autoritaria e di destra!
Ora , ‘noi’ singoli cittadini attivi, liberi, riflessivi,consapevoli e responsabili vogliamo seguire la linea politica e l’agenda dell’egoarca funambolico . Per rovesciargliela addosso : vogliamo praticare la “nuova” opposizione dei nostri giorni. In larga parte “suggerita” – e ispirata – proprio dall’esperienza politica di Berlusconi. Rovesciamo il meccanismo che ha tradotto il privato in un fatto pubblico-politico.,usato dal leader del PdL per coltivare consenso e di fiducia. Oggi noi lo rovesciamo contro di lui e la sua politica democraticamente autoritria e illiberale. “Privato e pubblico, retroscena e ribalta. Tutt’uno. A flusso continuo. D’altro canto, il confronto politico si è spostato – totalmente – sui media. Che sono divenuti l’unico vero campo di battaglia politica. Tivù e stampa. Stampa e tivù. Giornali e tele-giornali. Opposti fra loro. Visto che le informazioni in tivù, in molte reti, sono filtrate. Con l’alibi di non sovrapporre pubblico e privato. Politica e gossip. Come se fossero cose diverse. Come se la ribalta e il retroscena fossero ambienti separati. (Come se le interviste “politiche” del premier non fossero ospitate da Chi e annunciate in copertina da foto di famiglia. Nonno Silvio insieme a figli, figlie e nipoti)”.
Costruiamo la democrazia mediatica dei “farabutti”!
Rubiamogli la scena stabilendo noi i temi e il linguaggio non solo denudando il Re ma definendo noi le conseguenze delle sue agende e i suoi progetti futuri.
Prima di tutto dando visibilità anagrafica ai tanti ‘spettri’ che si aggirano nella menta affaticata e ‘malata’ ( a parere di Veronica) affollando tutti gli spazi mediatici della Rete inviando una nostra foto e le nostre generalità riconoscendoci nell’epiteto o anche al posto del nome ,la scritta:farabutto esibita con orgoglio e vanto. . Una sorta di movimento di opposizione cresciuto dentro a quello che il leader considera il principale soggetto di opposizione con un profilo, non solo fisiognomico, ma sociale, culturale e politico di questa popolazione.
Si accettano i giovani,gli adulti e di mezza età e..anche ‘anziani’ coetanei del premier.Donne e uomini da soli, in coppia o in compagnia.Anche intere famiglie uniti da un comune obiettivo: la libertà di informazione e di azione e espressione privata e pubblica senza censure. “Esuli” dai partiti di opposizione istituzionale in cui faticano riconoscersi e di un paese nel quale stentano a sentirsi concittadini.Spaesati .Di incerta identità …a cui B. ha contribuito a dare un nome e un senso.Farabutti. Meglio di “fannulloni”, “coglioni” che in altro occasioni ci si è sentiti sprezzantemente apostrofare.
Con una identità, senza bandiere, senza parole da dire. Senza simboli da esibire e senza riti da celebrare ma una diversità da difendere e costruire: non apparteniamo al gregge belusconiano.
mauro orlando
Il Cavaliere e la morte
di franco arminio
Berlusconi ha paura di morire. Questa paura è comune a tutti gli uomini,ma in Italia, cuore del cattolicesimo, che ha alimentato la sua potenza giocando tutto sul memento mori, il timore della morte è assai più potente.
Accumulare potere e ricchezze è un tentativo come un altro di esorcizzare la morte. Un tentativo penoso e vano, mano a mano che si invecchia, che ci si avvicina al traguardo finale L’accumulare ricchezza e potere altro non è se non un segno di questo pensiero costante che accompagna Berlusconi.
Le pantomime oscene sulla sessualità del Cavaliere che riempiono le prime pagine dei quotidiani non sono altro che il tentativo di un uomo ormai vecchio di distrarsi dall’idea della morte. La sua è una sessualità a cartoni animati, è una proliferazione di figure disegnate dalla matita della fine.
L’ironia e l’indignazione sulle depravazioni del capo indicano anche il rapporto irrisolto che gran parte degli italiani hanno con il sesso. Si può dire che il sesso e la morte sono due grandi questioni irrisolte dell’italietta laida e fascista di cui il Cavaliere è l’ultima metamorfosi.
La vicenda di questi mesi non è solo materia per magistrati e neppure per beghe politiche. Il teorema è questo: Berlusconi è governato dalla morte, Berlusconi governa l’Italia, l’Italia è governata dalla morte.
Se vogliamo che nella nostra nazione torni a spirare qualche vento di lietezza, dobbiamo deciderci a sgombrare questo enorme cadavere che tutti insieme formiamo e di cui il Cavaliere è il cuore. Non si può pensare che siamo di fronte a un depravato da rieducare. Non siamo al collasso morale di una sola persona, ma a quello di gran parte della nazione.
Il problema della morte non è solo il problema del Cavaliere. In questo senso lui non è nostro nemico, ma nostro fratello. Bisogna bonificare lo spirito nazionale da queste pozze putride prodotte dal secolare potere di una chiesa che ha messo nella nostra testa l’idea che ci aspetta l’inferno se non diventiamo suoi seguaci.
Berlusconi non lo si sconfigge con la conta in Parlamento ma con una spietata radiografia del nostro spirito, una radiografia che sappia individuare la metastasi narcisistica prodotta proprio da una crescente paura della morte, che può essere considerata come paura della vita, una vita sempre più sigillata in piccole confezioni usa e getta.
Da tempo credo che la morte non sia più un evento, una cosa che tocca gli animi. C’è stato un momento in cui era qualcosa che veniva nella vita come una faina arrivava nel pollaio. Si può pensare che questa faina abbia stampato la sua zampa su ogni tipo di religione. Adesso la morte ha cambiato faccia, è diventata l’aria che si respira, la scena madre della vita, il riassunto delle nostre giornate. È sempre bene in vista, è sempre ben esposta contro l’amore, contro la politica vera, contro i nostri slanci più sinceri. È usata come deterrente per non vivere, per dire di no a ciò di cui potremmo gioire e da cui, invece, ci nascondiamo. Si mette in mezzo tra l’anima e il corpo e ci scinde. Si mette in mezzo tra noi e gli altri e ci divide.
Non è facile dire come e quando sia avvenuta questa mutazione della morte da evento che irrompe a realtà che ristagna. Pensate a una nebbiolina che avvolge la nostra società, pensate a una nebulizzazione dell’evento traumatico e unico della fine in vapore sospeso intorno ad ogni minuto della nostra vita: tutta la rete di comunicazione di cui siamo poveri tralicci sembra che agisca solo per diffondere il senso della fine. La morte non viene dopo l’ultimo respiro, ma sembra essere il legame tra un respiro e l’altro. Non viene pavesianamente a prendere i nostri occhi, ma da tempo li apre e li chiude a suo piacimento ogni giorno. Sempre più spesso guardiamo dal balcone della morte, vediamo il mondo come se già fossimo fuori di esso. È una situazione profondamente nuova. È una condizione che dovrebbe farci leggere l’esperienza di ognuno e di tutti come un’esperienza straordinaria. E invece ragioniamo come se fossimo sempre nello stesso mondo, nella stessa psiche, nello stesso corpo. In un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta raramente dalla vita.
Arcore, la notte
di Andrea Di Consoli
Ci chiedono gentilmente di passare in un’altra stanza; non proprio in una stanza, ma in una discoteca buia, un privè claustrofobico con le tende chiuse. Sembra un bunker interrato.
Gli amici suoi, prima di salutarlo, gli fanno un cenno rassicurante, come a dire: sono ragazze a posto, nessuna di loro è fuori di testa, vai tranquillo, goditi la notte.
Nel bunker c’è musica in sottofondo, fa caldo, non si respira, è anche vietato fumare. Nel centro della stanza c’è un palo di ferro per la lap-dance, come in un locale per scambisti. Mi gira la testa, ho la nausea, forse ho bevuto troppo.
Mi guardo intorno e vedo queste ragazze che ballano abbracciate a due a due con la schiena inarcata, e ridono a crepapelle, non si capisce bene perché. Alcune sono russe, altre rumene, altre ancora brasiliane. Forse sono venti, forse di meno, e tutte si muovono a proprio agio su tacchi altissimi. Lui sta seduto su una poltrona in penombra e non capisco bene se stia guardando o se si sia addormentato – per via della testa un po’ curva, e dell’immobilità. Una ragazza – forse russa – è rimasta in tacchi e autoreggenti e si appende al palo di ferro girando più volte su se stessa; altre due – forse brasiliane – si stanno baciando intrecciando rapidamente le lingue, ma anche un bambino capirebbe che lo stanno facendo per finta. Lentamente si spogliano tutte, e rimangono in tacchi e autoreggenti. Si sentono gridolini, urlii scemi, risate improvvise.
Lui adesso si alza e si avvicina alle ragazze; ma non sorride più come prima a tavola; anzi, è cupo, ha un volto stanco e teso. Tre ragazze lo mettono in mezzo alla loro danza e lo soffocano con i loro profumi intensi e nauseanti. E’ una recita cupa, uno spettacolo buio – e, così chiusi, si perde la concezione del tempo. Alcune ragazze perdono il controllo: in fondo basta bere un po’ di champagne in più e non ci si vergogna neanche un po’ di baciare i seni freddi di una ragazza che, come te, senza capirne bene il motivo, si sta esibendo davanti a quell’uomo ricco e potente nonostante, appena ieri, fosse una bambina, e nonostante, appena ieri, vivesse in una squallida stanza in una squallida periferia di Mosca, di Rio de Janeiro o di Bucarest.
Ma si vede che il suo piacere principale è guardarle, guardare avidamente tutti questi capelli lungi e ben pettinati, tutti questi seni turgidi, tutte queste gambe lunghe, tutte queste labbra rosse, tutti questi occhi vivi: tutta questa maledetta giovinezza.
Gli piace da impazzire, la bellezza, ma non gli passa neanche per la testa la certezza che queste ragazze, domattina, al sorgere dell’alba, avranno mal di testa, mal di piedi, malumori e che andranno a dormire in brutte stanza ammobiliate o in alberghi disadorni, e che dormiranno con in sottofondo il trillo disturbante degli sms di clienti furibondi e insistenti a tutte le ore. Sul comodino avranno una busta gialla con dei soldi, ma nei loro sogni ci sono ancora cose tenere: principi azzurri e abbracci di mamma.
Ora ci chiede di fare silenzio e ci raggruppa nella parte di sala più illuminata – mentre parla, mi fisso a guardare le scie di rossetto sul palo di ferro. Con sicurezza ci seleziona – si è messo di nuovo a scherzare –, alle altre, invece, indica un posto dove andare, una via d’uscita. Rimaniamo in otto, e ci fa strada verso il centro benessere della villa, dove ci sono piscina e sauna. Faccio in tempo, sbirciando un orologio a pendolo, a vedere che sono le tre e mezza. Sono sfinita, barcollo sui tacchi e, appena arrivata, mi sdraio su una poltrona bianca. Le altre ragazze, prese dall’euforia, si buttano nell’acqua senza sfilarsi i tacchi e le calze autoreggenti. Lui è a bordo piscina e ordina alle ragazze di baciarsi. Loro lo fanno, ridendo. Lui ripete solo: “Meraviglioso, è meraviglioso”. Non dice altro. Poi chiama a sé una ragazza – sembra adulta, ma è una ragazzina ancora gonfia di quel tipico gonfiore delle adolescenti che ancora non hanno varcato la linea d’ombra – e, prendendola per mano, la conduce nella stanza dei massaggi. Tra di noi si fa silenzio; un misto di attesa, di dubbio e di stanchezza ci ammutolisce; qualcuna nuota, soprattutto le russe, che evidentemente sono abituate a farlo; altre, a bordo piscina, parlano avidamente di soldi in un italiano aspro e arrangiato. Dopo appena cinque minuti lui e la ragazza tornano in piscina e lei, sorridente, si tuffa nell’acqua. Cosa sarà potuto accadere in soli cinque minuti? Ce lo chiediamo con gli occhi interrogativi, ma senza parlare. In un crescendo di confusione, lui le chiama una per volta, e sempre si chiude per cinque minuti nella stanza dei massaggi. Finché tocca a me, proprio a me. Sento il cuore in gola, ho i battiti impazziti. Mi sembra che stia sragionando un po’ – è totalmente spettinato, e ha la faccia stravolta. Mi prende per mano e, in quel preciso momento, penso che in fondo adesso – saranno le cinque del mattino – io che non sono niente e lui che è l’uomo più potente della mia nazione, siamo due persone sole, semplicemente ammalate della stessa malattia. Chiude la porta e mi fa sdraiare su un lettino. Mi accarezza le gambe, il ventre, le braccia, i capelli, le labbra. Vorrei alzarmi per fare qualcosa – forse, in questo circostanze, si è costretti a fare qualcosa. Invece mi costringe con un gesto della mano a stare sdraiata. Provo a guardarlo negli occhi, nonostante la penombra. Forse se ne accorge, infatti abbassa la testa e posa le labbra e la bocca sulle mie gambe. Poi si alza e, con la voce rotta, mi dice: “Andiamo bellissima, è tardi”. Ma, non appena alzata, toccandomi le gambe, mi accorgo che sono bagnate. Dio mio, sono le sue lacrime! Ma non faccio in tempo – e forse nessuno in Italia fa più in tempo – a chiedergli il perché di quelle lacrime, il perché di tutta quell’infelicità.
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