martedì 6 aprile 2010

Elisir d'amore per.......un umanesimo delle montagne





per un umanesimo delle montagne

dal “il manifesto” del 4 aprile 2010

di franco arminio

In un piccola provincia la gente pensa che la storia si produca altrove. Si aspetta che arrivi una scossa da un centro che non c’è più. Il mondo è rotto e questa rottura ammala gli uomini. Gli uomini non sono mai stati tanto malati. A parte le affezioni diagnosticate dall’industria medica, gli uomini portano in faccia i segni di uno sfinimento che non si sa come lenire.

Io giro per i paesi per vedere i segni della peste ma anche quelli di una futura guarigione. Siamo in questo passaggio stretto che soffoca entusiasmi e passioni, ma il futuro arriva, arriva sempre, solo che non si sa mai quando e mai come. Il futuro è come un tumore. Ti svegli una mattina e senti una pallina nel collo. Il futuro è questa pallina che il tuo corpo ha fabbricato mentre tu facevi altre cose. Noi adesso siamo assonnati e stanchi e in questa stanchezza possiamo solo prenderci cura di chi ci capisce e di chi capiamo. Non è tempo di stare con tutti, non è tempo di fare ogni cosa. Possiamo fare solo poche cose, dobbiamo ridurre i nostri impegni, sgravare il carico che portiamo addosso. Non abbiamo bisogno di tanti amori e di mille amicizie, non abbiamo bisogno di tre lavori. Dobbiamo lasciare un po’ di vuoto nelle nostre giornate, dobbiamo lasciare che tra un impegno e l’altro non ci sia niente.

La nostra fortuna sono le giornate bianche e queste giornate nei paesi sono più facili. L’importante è starci senza dare confidenze ai guardiani del passato, senza stare dietro a quelli che pensano ai paesi come un vuoto da riempiere con materiale che viene da fuori. Adesso è il momento di alzarsi e fare le cose in cui crediamo rivolgendoci ai vicini e ai lontani. Non dobbiamo riempirci la testa dei pensieri degli altri, dobbiamo raccontare i nostri.

Il panorama è sconfortante. Viviamo in un continente fermo, la nostra particolare fortuna è che siamo ai margini di questo continente. Il veleno che ha bloccato il sistema nervoso dell’Europa non ci ha raggiunto del tutto. E allora possiamo fare ancora qualche scatto, muoverci in direzioni impensate.

La comunità che dobbiamo costruire non guarda alle comunità che ci sono altrove, ma è una comunità impensata. Non dobbiamo importare sempre nuove esperienze, ma sforzarci di capire perché falliscono le nostre, perché il bene che proviamo a fare non dura. Non abbiamo più la coperta della politica, non abbiamo più la coperta di un pensiero collettivo in cui accasarci. Dobbiamo procedere nei deserti dell’autismo corale con le persone che ci sono care, producendo ammirazione e riguardo più che rancore e lamenti.

Il futuro forse non arriverà da fuori, ma sbucherà dalle nostre vene. Dobbiamo immaginare che qui ed ora siamo in un luogo nevralgico, perché viviamo contemporaneamente il fallimento della modernità e quello della civiltà contadina. È da questo doppio fallimento che può uscire l’ idea per un nuovo umanesimo delle montagne. Qui dove non è mai riuscito niente può accadere l’impensato.

Di colpo la guerra delle parole si placherà e ci stupiremo del suo esaurirsi. Forse fra poco riprenderemo a tacere, torneremo a nascere e morire senza essere istigati dal turbine del volere sempre ricavare qualcosa. Vivremo finalmente in un tempo muto e piano piano tornerà il bisogno di parlare, ma sarà una lingua nuova, inaudita.

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