venerdì 22 luglio 2011

Elisir d'amore per ......la "paesologia".....

...quando le parole osano ancora farsi sangue,terra, carne......anima e cuore e ricacciare sotto il tappeto o in soffitta le parole pensate e ripensate,affinate ,sottili, ciniche,sarcastiche fino all' inesistenza o la perdita di senso....schiacciate dalle esigenze della sfumatura per essere accettate senza essere amate, inespressive a forza di esprimere tutto, spaventosamente e ferradamente precise, colme di stanchezza,di pudore e di reticenza, discrete fine alla volgarità e alla piaggieria come un resoconto di un incubo......labirintico in una sintassi di rigore e di dignità cadaverica nella superficialità del senso comune e del fare senza......anima




di franco arminio
Non ho mai veramente messo piede in questo paese, non ci sono mai stato. Sono rimasto sui fili dei nervi ad osservare le grandi nuvole che arrivano da oriente. Paese a bocca aperta contro il vento, con il cuore pieno di neve. La stessa nuvola che dimora qui di pomeriggio nel mattino era a Sarajevo. Terra senza alberi, terra di grano che cresce sulle frane, terra di accidia che alligna nelle piazze: mezze anime contorte e verbose rigano le sere coi loro graffi di saliva. Qui di giorno e di notte mi luccicava dentro la paura della morte, con lei mi sono arrampicato a vedere i vermi che hanno bucato l’anima delle cose. Adesso è tutto come sfiatato, perfino l’inclemenza dura poco. Tra me e il mio paese è finita per sempre. Non abbiamo più niente da dirci. Pavese diceva che un paese ci vuole, ma io questo paese non l’ho mai avuto, non mi ha mai tenuto tra le sue braccia. La poesia è nata da qui, da questi alberi storti, da questa torre disertata ormai pure dai corvi, da questa piazza che è l’epilogo e l’ossario delle forme. Ormai esco poco, nego alla discordia il mio tributo. Esco quando c’è una bella luce, ma proprio allora sento il buco, sento che non c’è modo di raccogliere questi cani con le vene piene di ortiche. Vado per la mia strada, per la mia strada senza uscita. Ho dato fondo a ogni amarezza, ma non mi basta, non mi basta ancora. Voglio consumare l’intero universo, bucarlo in questo punto, nel punto suo più duro. Lo so, sotto non c’è niente, né dio e neppure i morti, non c’é neppure il niente a cui sembriamo appesi, ma io insisto, deve esserci da qualche parte il modo di parlare alle cose, di entrarci dentro e di farle entrare dentro di noi.
Fare le condoglianze è uno dei pochi motivi per uscire. Stringere la mano agli addolorati, ma senza perdere troppo tempo. Si spinge ai funerali come se si dovesse entrare allo stadio. Si ha fretta di sfilare davanti ai parenti dell’estinto e di tornarsene sollevati ad accudire la propria estinzione.
È quasi mezzanotte al mio paese, i ragazzi sono nelle pizzerie, davanti al bar Millennium o alla sala giochi, qualche marito ha già esaurito la sua foga, molti televisori sono spenti, nelle case di chi non è tornato, domani i ragni festeggeranno Pasqua da soli, i morti non sapranno e non vedranno nulla, come sempre. Noi siamo qui, noi chi?
L’altro ieri l’edicolante del mio paese mi raccontava della scena a cui aveva assistito il giorno dopo la lettura di Saviano di un mio testo in un programma televisivo di enorme ascolto. Lui si aspettava che qualcuno tirasse fuori l’argomento. Invece niente. A un certo punto avrebbe voluto parlarne lui, ma ha resistito ed è rimasto in silenzio per vedere se un qualche riferimento sarebbe prima o poi venuto fuori. Ma i clienti dell’edicola, sempre animosi e ciarlieri, quel giorno non solo non parlavano di Saviano, non parlavano di niente, erano muti, come se temessero che aprendo la bocca poi si poteva in qualche modo arrivare a parlare di Arminio.

C’è un altro sud che sta nascendo, ma è piccolo, bambino. Il sud che resiste è quello decrepitamente democristiano, allungato verso le solite mete: la casa e il denaro. É un sud allegro con i suoi compari e se vuoi ti accoglie nella sua disonestà senza destino. Se ti opponi veramente alla lobby dei vermi diventa cupo, feroce, ti brucia la casa ti fa emigrare.
Una ragazza mi ha scritto: Bisaccia è nera e silenziosa ma piena di energia. Lo so, vivo in un paese sotto sforzo, che cerca di tenersi per non franare a valle. È un paese in cui restano vivi in pochi, molti finiscono inghiottiti nelle faglie. Ce n’è una molto grande proprio in piazza, al centro, e gli ignari passeggiatori ci finiscono dentro.
Io dico che il sindaco non serve a niente, il vicesindaco pure e tutti gli assessori e tutti i consiglieri dell’opposizione, e gli impiegati della posta e i maestri della scuola, e i bidelli e i contadini, non serve a niente chi si ubriaca nei bar e chi vede la televisione, e chi passeggia in piazza e chi compra il giornale, adesso gli unici che servono a qualcosa sono quelli che sono partiti, quelli che sanno sparire, quelli che sanno liberarsi e andare via, via dai paesi e dalle città, via dai partiti e dalle chiese, dalle mogli e dai mariti, via dagli amici, via da ogni cosa vecchia e via da ogni cosa nuova, semplicemente via, via dalla banalità e anche dalla poesia.
Sono un viaggiatore ipocondriaco. Sinceramente io non guardo il mondo ma il mio corpo che vaga per il mondo, spinto e trattenuto dalla morte, instancabile viaggiatrice sempre in gita nel mio corpo.
Voglio la neve, l’inverno più feroce e non questo sole scialbo, questi giorni appesi al niente e questo niente che si è fatto paese e che seguiamo ogni giorno sparsi e senza voce fino all’imbuto della sera, paesani senza sguardo, camerieri dell’orrore, incapaci di aprirci al vento, alle cose vere. Oggi l’unica felicità possibile nei paesi è farsi straziare, non conservare nulla, essere semplici come una mela, non badare a ciò che accade, pensare al nostro io come una mosca morta nella ragnatela.
Il sud ha bisogno di osservazioni più che di teorie. Una realtà che vuole essere guardata e riguardata più che analizzata. L’eminenza da riconoscere è una sola: l’eminenza della percezione.
Il mondo è in decomposizione e gli uomini al potere sono gli enzimi che lavorano alla putrefazione dello spirito, putrefazione sulla quale pone il suo edificio necrofilo la dittatura imperante. Tutti abbiamo lo stesso problema di scegliere ogni giorno se essere radicali e impervi oppure pieghevoli e disponibili al compromesso. Spesso si decide proprio per la via di mezzo: un po’ siamo radicali e un po’ pieghevoli. Accade in famiglia, a scuola, nei partiti, con gli amici, la partita tra libertà e dittatura si svolge ovunque e noi spesso decidiamo di perderla volutamente, per pigrizia, per mancanza di coraggio. Ma il motivo più grande è che abbiamo scelto di sopravvivere più che di vivere, abbiamo deciso di decomporci prima di morire.
Esisteva l’inizio e la fine del giorno, l’alba e il tramonto, Dio e le tenebre. Il mondo non era ancora diventato così piccolo da sembrare il ventre di una zanzara. Siamo tutti lì dentro e tutti insieme produciamo un ronzio penoso.
Al sud molta gente si ammala per colpa dei medici che fanno politica.
Per qualche minuto il mondo mi pare sopportabile, poi sono di nuovo inchiodato a un’impazienza insopportabile. Un paesologo è tale proprio perché la corrente che lo lega al mondo non è mai salda, è una cosa che va e viene, una luce che si accende a intermittenza, la luce dell’impazienza più che la pubblica illuminazione.
A me pare che ogni vita alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella, oppure una mela che appassisce quietamente.
Mi sveglio col peso che mi ha lasciato il giorno precedente. Avanziamo negli anni sempre più carichi, bestie da soma che vagano per il mondo per lasciare un peso e passare al successivo. Possiamo essere frenetici o apatici, possiamo essere furbi o ingenui, il nostro giorno è sempre lo stesso, è il giorno dell’asino.
Ma come sono gli altri? Cosa pensano veramente i disertori che si sono fatti la villa in campagna, quelli che passeggiano a passi brevi alle sette di sera? Non lo so, forse non lo sa nessuno. Ogni tanto provo a capirlo, getto uno sguardo alla piazza, mi ritiro: gli altri siamo noi, non sono quelli che vediamo in giro.
Siamo rimasti qui, ma è come se ognuno a tutti gli altri avesse detto addio e da questa infima distanza ci scambiamo un po’ di smorfie. Così passa il giorno del paese, aspettando inutilmente un abbraccio che sia vero. È già tardi, la cena è apparecchiata intorno a un buco nero.
Di una cosa sono sicuro: qualcosa è svanito, qualcosa che era nel mondo se n’è andato. In fondo io vado in giro per registrare questa perdita. L’altra mattina svegliandomi nel centro storico di Cosenza per un attimo ho sentito un’energia che veniva dal luogo, ma è stato solo un attimo, mi sono messo in macchina per andare a vedere i paesi e già ero nella solita trafila, il minuto prima cancellato dal minuto successivo, un albero, una curva, una pompa di benzina, tutto inutile, tutta una matassa di coriandoli per avvolgere una coppia che non c’è più, la coppia che era costituita da ognuno di noi e dal mondo. Noi non siamo morti e neppure il mondo è morto, ad essere morta è la nostra congiunzione. Forse quello che è accaduto non è un incidente imprevisto, è accaduto proprio quello che volevamo, volevamo rompere questo incanto di stare al mondo, volevamo che diventasse una semplice incombenza da gestire a piacimento e questo è accaduto.
Se esce un po’ di sole prendo il paese sottobraccio come un vecchio zio un poco scemo e me lo porto a spasso.
Quello che conta per chi scrive è solo la furia, la commozione lo smarrimento, la vita è vera quando è spezzata, quando la testa brucia. Dio non c’è quando siamo gentili, quando siamo pazienti, quando ogni parola è puro sfogo, labile isteria. Dio crede in noi quando siamo in croce, quando buttiamo fuori l’inferno che abbiamo dentro, quando non misuriamo niente, ma vaghiamo fuori dai nostri nidi. La vita è fuori, è sgomento e avventura, non è appendere i coglioni alle grate della nostra clausura.
Prima di dormire ho letto qualche pagina di “ecce homo”, poi sono entrato lentamente in un sonno di carta velina. A un certo punto mio padre mi ha telefonato per dirmi che mia madre era morta, saranno state le quattro. Adesso sono le sei del mattino, ho già aperto la posta, l’alba mediatica è senza luce e fuori c’è la stessa nebbia di ieri sera. Sarà un giorno di marzo, i miei giorni difficili di marzo, il mese in cui è morto mio padre e la nonna che mi somigliava, il mese in cui l’inverno finisce e ricomincia molte volte, perché marzo prosegue anche ad aprile. Ieri sera ho chiesto aiuto, adesso non mi sento di chiedere niente. Se è vero quel che penso, se penso veramente che siamo all’autismo di massa, dovrei solo calmarmi, riprendere a leggere “ecce homo” o andare in qualche paese, camminare in silenzio dentro il suo silenzio.
Ai tempi di Socrate non esisteva la questione meridionale.
Siamo illuminati quando ci accade qualcosa di brutto, siamo in piedi quando tremiamo, altrimenti ci accatastiamo come vermi in un letamaio depressivo in cui ognuno compiange la scomparsa di qualcosa, la mancanza, la non coincidenza. Siamo gli eroi di un tempo aggrovigliato e non poteva essere altrimenti visto che siamo ormai molti miliardi e stiamo tutti su un balconcino, protesi a vedere o a farci vedere.
Ci sono tre sud, almeno. Il primo è col muso per terra, pronto a raschiare ogni briciola, un sud accattone, reso ancora più volgare dall’abito piccolo-borghese. Il secondo è un sud verboso che combatte infinite guerre senza mai morire: il segreto è che la lotta non è vera. Il terzo è un sud affranto e silenzioso seduto sulle sedie vicino alla porta a prendere il sole, un sud con le ossa rotte dall’artrosi, un sud solitario e appartato. È il sud che cerco nei miei giri, facce che sembrano sospiri.
C’è un’ora del giorno, tra le quattro e le sei del pomeriggio, in cui il paese diventa un sasso in mezzo alla giornata. È una vecchia pena, non puoi aggirarlo, devi salire fino in cima a mani nude e poi cadere verso il buio e la cena.
Il sud me lo ha già detto troppe volte che non mi vuole e io sono rimasto qui a rifargli le suole per calpestarmi meglio.
Qui ho vissuto senza vivere, qui mi sono attorcigliato a me stesso, mi sono avvinto, mi sono sedotto, mi sono sparecchiato e rotto, adesso vago ogni giorno tra le mie parole, ho fatto tutto un paesaggio con le mie parole, boschi, laghi e fiumi, strade e montagne. Non manca niente, manca solamente il sole.
Quando vado nei paesi, a volte dopo aver mangiato il mio panino, dopo aver guardato i manifesti e le panchine, mi vengono i miei pensieri più veri, quelli che non puoi dire dentro un bar o dentro una sezione di partito. Allora chiudo gli occhi e mi chiedo quanto spazio ci sarà da fare dall’ultimo respiro al non respirare.
A me pare che ogni vita alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella, oppure una mela che appassisce quietamente.
Viviamo in un mondo di individui sciancati, siamo l’osso e la carne di noi stessi e c’è solo una cartilagine sottilissima che ci lega agli altri. Spesso sentiamo questi legami proprio quando si squarciano, quando la cartilagine non tiene. A vent’anni non pensavo di arrivare a cinquanta. Mi sentivo in una combustione che mi avrebbe bruciato prima. E invece sono ancora qui. Non ero malato, ma sentivo il cuore battere troppo in fretta e alla cieca. Usavo il mio cuore per scriverci sopra, lo battevo come si batte un tappeto. Non scrivevo col cuore, scrivevo sul cuore.
Non ho mai giocato a carte, ho usato il paese solo per scrivere. Ogni tanto ho cercato di infiammarmi assieme agli altri, ma il sud non resiste, quando si sporge troppo si ritira. Io ho sempre sognato un cuore comune, una corda che si tende senza paura di spezzarsi. Ho sempre sognato che accadesse fuori quello che accadeva a casa mia. Molte volte ho scritto in ginocchio l’ultimo rigo, l’ultimo castigo.

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