martedì 1 marzo 2011

i vivi al mio paese sono morti

li ho visti oggi con le spalle al sole

spingevano per entrare al cimitero


franco arminio






…con la coda dell’occhio del filosofo-paesologo.

Pensando da lontano alle passate girnate “paesologiche” per caricarmi di ottimismo intelligente e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio testo di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa.Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione del ruolo del filosofo-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot descrive in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il filosofo-paesologo di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.

mauro orlando

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