mercoledì 2 marzo 2011

Elisir d'amore per ........Oratorio bizantino





prefazione di franco cassano a oratorio bizantino



franco Arminio è una figura di intellettuale insieme tipica e asso­lutamente originale nel panorama del nostro Sud. Egli, pur pos­sedendo tutte le qualità per farlo, non è mai partito, non ha mai usato la sua intelligenza per scappare altrove. È rimasto invece fedele al-la sua terra, senza sacrificare a tale fedeltà la sua mobilità intellettuale o il suo spirito critico, di cui le pagine di questo libro sono un documento ricco e vibrante. Infatti per Arminio, e questo è un altro tratto singolare, l’amore dei luoghi nasce non, come spesso accade, dalla rimozione dei loro veleni, delle loro miserie e delle loro impotenze, ma da uno sguardo lucido, che non nasconde nulla e non fa sconti a nessuno. Ci sono trop­pi che, deprecando, sbattono la porta e se ne vanno altrove e di lì ponti­ficano a distanza. E troppi, tra quelli che rimangono, che sono convinti che la modernità sia soprattutto vendersi e sapersi vendere. Troppe vol­te oggi l’amore dei luoghi è diventato un’industria, un modo per venderli nel grande mercato globale, marketing territoriale, l’idea che si possa di­ventare commercianti della propria identità, e quindi parte della grande simulazione e dello spettacolo globale. Ma i luoghi di Arminio, i paesi dell’Irpinia, non sono stati assaltati direttamente, non sono stati invasi da turisti. Dall’esterno i cambiamenti sono minori, anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silen­ziosa, da una «modernità incivile», che ne ha disinnescato l’anima, tra­sformando gli abitanti in profondità.

La paesologia, la disciplina che Arminio ha messo al mondo un po’ per gioco un po’ sul serio, è una «scienza arresa», non mira a vendere, ma a far capire, non è seduzione, ma un gesto di amore doloroso e insieme inaffondabile. In questo Oratorio bizantino, che raccoglie scritti che at­traversano più di un decennio, s’incontrano all’improvviso delle descri­zioni commoventi, ci s’imbatte nell’Irpinia d’Oriente, una terra alta e battuta dai venti, una vera e propria «Mecca dei venti», uno dei pochi luoghi nei quali può venire in mente l’idea di un Museo dell’aria. Ma que­sti venti, che prendono la rincorsa da altre terre alte e arrivano da lonta­no, sono anche e soprattutto un luogo dell’anima, sottolineano la di-stanza dell’altura dai riti fescenninici della costa, dall’opulenza volgare e rumorosa di un mare fatto non più da marinai e navigatori, ma dalle ple­bi estive notturne e accaldate, dai terremoti sonori scagliati nel buio a de-cine di miglia di distanza, testimonianza di quella perdita del rapporto con i luoghi che li rende una discarica dello stordimento, un fondale do­ve il rumore annega in un solo colpo la bellezza e la coscienza, «una fos­sa comune dello spirito».

Ma questa nobiltà dell’altura, questa diversità riservata e austera, non diventano mai in Arminio la caduta in una sorta di mitizzazione, perché il benessere pesante e volgare non è rimasto confinato sul mare, ma è ar­rivato fino sui monti dell’Irpinia, in una forma fredda, ma non meno ve­lenosa, e ha trasformato l’antica ritrosia in un collettivo voltare le spalle non solo ai luoghi e alla loro cura, ma a tutte le storie collettive. È come se sulla comunità fosse caduta una bomba silenziosa quando sono arri­vati prima il trauma del terremoto dell’80 e poi i soldi, che hanno rico­struito le case, ma sembrano aver seppellito nelle loro fondamenta anche le coscienze: «Quello che una volta era il popolo della sinistra è un infor­me ammasso di solitudini e disperazione guidate da larve di una stagio­ne politica cupa e disfatta».

I segni esterni di questa «disfatta antropologica» non sono clamo­rosi, ma non sfuggono al sismografo del paesologo, a chi possiede me­moria di ciò che era e sa cogliere le differenze anche nei segni più pic­coli, nei vuoti che si dilatano nelle strade, nell’estraneità che cresce an­che nei paesi dove ci si conosce tutti. Oggi, dice Arminio, in questi paesi le porte sono chiuse, sempre chiuse. Ognuno sta dentro la pro­pria casa, ha come unico dio il proprio utile privato, si è ritirato dalla comunità, le ha chiuso la porta in faccia, lasciandola fuori in preda ai venti. La bomba è esplosa dentro, producendo una mutazione delle anime. E quello che succede fuori scompare, sostituito dalla televi­sione, che ti fa abitare altrove, che ti rende cieco con un’orgia di im­magini. Si incontra qui uno dei bersagli polemici privilegiati di Ar­minio, quella piccola borghesia che vive la propria casa come un rifu­gio antiatomico, che non riesce più a vedere i propri luoghi, omolo­gata fin nel profondo dell’anima, arredata dai miti del consumo nel proprio immaginario, spenta nelle passioni collettive. E quando esce di casa, questa classe lo fa solo per esportare la chiusura dell’anima e la «planetaria fornicazione dei mediocri», per incrementare il suo bot­tino privato. È da questo grado zero della passione che inizia a pro­sperare una politica non politica, trasformata in affare da chi la fa, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino. Ecco perché domina la vigliac­cheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il pro­prio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla.

Arminio detesta il compromesso non per moralismo, ma per una ra­gione più tellurica e profonda: il compromesso porta al tradimento dei luoghi, spinge ad abitare in essi come se si fosse degli uccelli predatori, emissari di un Occidente minore, volgare e arraffone. È questa fedeltà che lo rende molto di più di un don Chisciotte: il suo legame con la ter­ra non è libresco, ma sensoriale, è un rapporto con le passioni collettive, quelle che hanno abitato in tanti suoi amici e coetanei e poi si sono pla­cate lentamente, arenandosi in una waste land dello spirito. Il suo sogno è quello di un paese capace di ritrovare se stesso, i propri legami, capace di uscire dalle case, di aprire quelle porte chiuse che separano le anime le une dalle altre, è la fatica, ma anche l’ebbrezza dell’azione collettiva, l’u­nica impresa oggi paragonabile alle gesta dei cavalieri, ma che, al contra­rio di quelle, deve essere fondata su una grande mobilitazione di tutti. L’eroe di questa epopea non vuole essere solo o il primo, anzi vede la pro­pria solitudine come una sconfitta, come il prologo della sua riduzione, nella migliore delle ipotesi, a un tipo originale, un po’ matto e diverso, un poeta e uno scrittore, uno che sarà anche una brava persona e avrà let-to tanti libri, ma forse proprio per questo non è in grado di accettare la realtà. Qualcuno da tenere buono e da lasciare solo.

In effetti qualcosa di vero in tutto questo c’è: solo a uno come Franco Arminio poteva venire in mente di proporre la nascita di una nuova di­sciplina, la paesologia, la scienza arresa, che proclama il primato dell’e­sperienza sul logos. Che si tratti di una «scienza arresa» è una vera e pro­pria bugia, perché in questo vivere la condizione incerta e malferma dei paesi, specialmente di quelli più dissanguati, si può cogliere il rovescio delle retoriche dominanti, di quella rincorsa collettiva che ha riempito le bocche e le case, ma ha succhiato via ogni momento di vita comune, di riconoscimento negli altri. Una scienza, quella della paesologia, che non può nascere dagli algoritmi dello scienziato sociale, ma solo dallo stare dentro, da un legame con i suoni, gli odori, le case, i panorami, e da un rapporto forte con la memoria, il legame più pericoloso, perché ricorda i momenti in cui tutti sono stati migliori di quello che sono diventati, in cui non avevano ancora il piombo nelle ali, in cui non erano ancora di­ventati vigliacchi, vittime ma anche e soprattutto complici del potere, di un piccolo potere fatto di interni arredati con vasche per idromassaggi e di esterni con vacanze ai tropici, come nei cinepanettoni e nel racconto di un’Italia tutta ruotante intorno ai genitali e alle carte di credito.

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