
prefazione di franco cassano a oratorio bizantino
franco Arminio è una figura di intellettuale insieme tipica e assolutamente originale nel panorama del nostro Sud. Egli, pur possedendo tutte le qualità per farlo, non è mai partito, non ha mai usato la sua intelligenza per scappare altrove. È rimasto invece fedele al-la sua terra, senza sacrificare a tale fedeltà la sua mobilità intellettuale o il suo spirito critico, di cui le pagine di questo libro sono un documento ricco e vibrante. Infatti per Arminio, e questo è un altro tratto singolare, l’amore dei luoghi nasce non, come spesso accade, dalla rimozione dei loro veleni, delle loro miserie e delle loro impotenze, ma da uno sguardo lucido, che non nasconde nulla e non fa sconti a nessuno. Ci sono troppi che, deprecando, sbattono la porta e se ne vanno altrove e di lì pontificano a distanza. E troppi, tra quelli che rimangono, che sono convinti che la modernità sia soprattutto vendersi e sapersi vendere. Troppe volte oggi l’amore dei luoghi è diventato un’industria, un modo per venderli nel grande mercato globale, marketing territoriale, l’idea che si possa diventare commercianti della propria identità, e quindi parte della grande simulazione e dello spettacolo globale. Ma i luoghi di Arminio, i paesi dell’Irpinia, non sono stati assaltati direttamente, non sono stati invasi da turisti. Dall’esterno i cambiamenti sono minori, anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silenziosa, da una «modernità incivile», che ne ha disinnescato l’anima, trasformando gli abitanti in profondità.
La paesologia, la disciplina che Arminio ha messo al mondo un po’ per gioco un po’ sul serio, è una «scienza arresa», non mira a vendere, ma a far capire, non è seduzione, ma un gesto di amore doloroso e insieme inaffondabile. In questo Oratorio bizantino, che raccoglie scritti che attraversano più di un decennio, s’incontrano all’improvviso delle descrizioni commoventi, ci s’imbatte nell’Irpinia d’Oriente, una terra alta e battuta dai venti, una vera e propria «Mecca dei venti», uno dei pochi luoghi nei quali può venire in mente l’idea di un Museo dell’aria. Ma questi venti, che prendono la rincorsa da altre terre alte e arrivano da lontano, sono anche e soprattutto un luogo dell’anima, sottolineano la di-stanza dell’altura dai riti fescenninici della costa, dall’opulenza volgare e rumorosa di un mare fatto non più da marinai e navigatori, ma dalle plebi estive notturne e accaldate, dai terremoti sonori scagliati nel buio a de-cine di miglia di distanza, testimonianza di quella perdita del rapporto con i luoghi che li rende una discarica dello stordimento, un fondale dove il rumore annega in un solo colpo la bellezza e la coscienza, «una fossa comune dello spirito».
Ma questa nobiltà dell’altura, questa diversità riservata e austera, non diventano mai in Arminio la caduta in una sorta di mitizzazione, perché il benessere pesante e volgare non è rimasto confinato sul mare, ma è arrivato fino sui monti dell’Irpinia, in una forma fredda, ma non meno velenosa, e ha trasformato l’antica ritrosia in un collettivo voltare le spalle non solo ai luoghi e alla loro cura, ma a tutte le storie collettive. È come se sulla comunità fosse caduta una bomba silenziosa quando sono arrivati prima il trauma del terremoto dell’80 e poi i soldi, che hanno ricostruito le case, ma sembrano aver seppellito nelle loro fondamenta anche le coscienze: «Quello che una volta era il popolo della sinistra è un informe ammasso di solitudini e disperazione guidate da larve di una stagione politica cupa e disfatta».
I segni esterni di questa «disfatta antropologica» non sono clamorosi, ma non sfuggono al sismografo del paesologo, a chi possiede memoria di ciò che era e sa cogliere le differenze anche nei segni più piccoli, nei vuoti che si dilatano nelle strade, nell’estraneità che cresce anche nei paesi dove ci si conosce tutti. Oggi, dice Arminio, in questi paesi le porte sono chiuse, sempre chiuse. Ognuno sta dentro la propria casa, ha come unico dio il proprio utile privato, si è ritirato dalla comunità, le ha chiuso la porta in faccia, lasciandola fuori in preda ai venti. La bomba è esplosa dentro, producendo una mutazione delle anime. E quello che succede fuori scompare, sostituito dalla televisione, che ti fa abitare altrove, che ti rende cieco con un’orgia di immagini. Si incontra qui uno dei bersagli polemici privilegiati di Arminio, quella piccola borghesia che vive la propria casa come un rifugio antiatomico, che non riesce più a vedere i propri luoghi, omologata fin nel profondo dell’anima, arredata dai miti del consumo nel proprio immaginario, spenta nelle passioni collettive. E quando esce di casa, questa classe lo fa solo per esportare la chiusura dell’anima e la «planetaria fornicazione dei mediocri», per incrementare il suo bottino privato. È da questo grado zero della passione che inizia a prosperare una politica non politica, trasformata in affare da chi la fa, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino. Ecco perché domina la vigliaccheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il proprio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla.
Arminio detesta il compromesso non per moralismo, ma per una ragione più tellurica e profonda: il compromesso porta al tradimento dei luoghi, spinge ad abitare in essi come se si fosse degli uccelli predatori, emissari di un Occidente minore, volgare e arraffone. È questa fedeltà che lo rende molto di più di un don Chisciotte: il suo legame con la terra non è libresco, ma sensoriale, è un rapporto con le passioni collettive, quelle che hanno abitato in tanti suoi amici e coetanei e poi si sono placate lentamente, arenandosi in una waste land dello spirito. Il suo sogno è quello di un paese capace di ritrovare se stesso, i propri legami, capace di uscire dalle case, di aprire quelle porte chiuse che separano le anime le une dalle altre, è la fatica, ma anche l’ebbrezza dell’azione collettiva, l’unica impresa oggi paragonabile alle gesta dei cavalieri, ma che, al contrario di quelle, deve essere fondata su una grande mobilitazione di tutti. L’eroe di questa epopea non vuole essere solo o il primo, anzi vede la propria solitudine come una sconfitta, come il prologo della sua riduzione, nella migliore delle ipotesi, a un tipo originale, un po’ matto e diverso, un poeta e uno scrittore, uno che sarà anche una brava persona e avrà let-to tanti libri, ma forse proprio per questo non è in grado di accettare la realtà. Qualcuno da tenere buono e da lasciare solo.
In effetti qualcosa di vero in tutto questo c’è: solo a uno come Franco Arminio poteva venire in mente di proporre la nascita di una nuova disciplina, la paesologia, la scienza arresa, che proclama il primato dell’esperienza sul logos. Che si tratti di una «scienza arresa» è una vera e propria bugia, perché in questo vivere la condizione incerta e malferma dei paesi, specialmente di quelli più dissanguati, si può cogliere il rovescio delle retoriche dominanti, di quella rincorsa collettiva che ha riempito le bocche e le case, ma ha succhiato via ogni momento di vita comune, di riconoscimento negli altri. Una scienza, quella della paesologia, che non può nascere dagli algoritmi dello scienziato sociale, ma solo dallo stare dentro, da un legame con i suoni, gli odori, le case, i panorami, e da un rapporto forte con la memoria, il legame più pericoloso, perché ricorda i momenti in cui tutti sono stati migliori di quello che sono diventati, in cui non avevano ancora il piombo nelle ali, in cui non erano ancora diventati vigliacchi, vittime ma anche e soprattutto complici del potere, di un piccolo potere fatto di interni arredati con vasche per idromassaggi e di esterni con vacanze ai tropici, come nei cinepanettoni e nel racconto di un’Italia tutta ruotante intorno ai genitali e alle carte di credito.
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