Vecchio e nuovo……. La dannazione di essere “campani o irpini”,per uno che per scelta ha deciso prima di tutto di vivere nel “profondo nord” e cercare di non perdere la sua identità irpina e costretto a difendere anche ideologicamente di essere unitario e italiano contro la barbarica e plebea “politica culturale” di Bossi e quella cinica , sofistica e manageriale di Tremonti.Tornavo in Irpina per gli affetti e le festività e negli ultimi anni per tentare di realizzare un sogno e una speranza possibile con la Comunità provvisoria costringendo le mie conoscenze e la mia esperienza esistenziale ad una analisi basata epistemologicamente sulla libertà ,sul sospetto,il dubbio e la speranza e a scelte pratiche e politiche conseguenti e alternative. L’inadeguatezza del dibattito della società politica nella nostra provincia fa più male ed è più increscioso dei “raccapriccianti e sordi” alterchi leghisti e antipolitici che siamo costretti quotidianamente a subire al Nord come attentato alla nostra intelligenza ed esperienza. Per cautelarmi da sbandate di nuova utopia o di vecchie ideologie uso ritonare ai classici del pensiero filosofico-politico e ho riletto “l’apologia di Socrate” e la attualità del dramma di Socrate rispetto alla “irenica” democrazia ateniese, non per semplice e aristocratico gusto di citazione , mi ha riproposto ancora una volta la centralità dell’increscioso ,doloroso e inadeguato rapporto Potere-Sapere nella storia e anche in Irpinia. “ vecchi intellettuali ” che si ostinano a pensare e proporre con schietto realismo machiavellico che alla fin fine :” la politica ha come fine la conquista del potere e resta legata ad una funzione da svolgere. Pur ammettendo solo teoricamente che il potere fine a sé stesso può rivela ben presto una dannazione o una attrazione mefistofelica”. Vecchio e abusato vizio del fondo cinico e doppio della nostra cultura meridionale. Io mi sono stentito per contrasto “un giovane” umanistico e antiquato guicciardiniano “di sinistra ” che si sente costretto dagli “arcana imperi” e dai “mercati postribolari” a recuperare il gusto e a coltivare la presunzione di sentirsi diversi, di immaginare diversamente il proprio futuro e a pretendere dai propri governanti sempre e comunque che i valori stiano ai principi come la chiarezza alla realtà in un contesto che ci delude e ci deprime di continuo.E abbiamo trovato anche un “pazzo ed inattuale” poeta che ci descriveva con fascino e realismo la sua strada ….”la paesologia” e ci indicava un viaggio fascinoso e leggero verso un paradosso e una sfida : Cairano ….“piccolo paese dalla grande vita”. Sapevo che dialetticamente non c’era gara , non c’è confronto possibile per la forbice sempre più divaricata tra società politica e società civile : su queste basi non si alimenta il sano “conflitto” che è il cuore e il sangue del pensiero e della pratica della “politica” che non è solo alterco e agonismo sofistico o classico tra etica delle convinzioni o etica della responsabilità. Non avevamo preso in considerazione che esiste anche un contrasto e un conflitto tra una esperienza “comunitaria” ed una moderna esperienza di “società civile” che sono ambiti distinti ed esprimono modelli sociali diversi.”La comunità indica un insieme di individui caratterizzati da rapporti di solidarietà,da interessi convergenti , da ideali e speranze condivise, e quindi coeso e compatto ; la società indica ,per contro, un organismo assai più complesso e soprattutto frazionato al suo interno,gerarchico ,scarificato socialmente ed economicamente,percorso da spinte molteplici e da interessi divergenti. Noi in questo momento stiamo vivendo questa seconda distinzione/opposizione ((comunità-società) sovrapponendo alla prima (società politica-società civile) Questa è la dannazione vera della cultura e della politica irpina : lo scarto tra una pervicace presunzione comunque di “essere figli di un pensiero nobile” ed essere soprattutto capaci di pensare e agire fatti politici per poi “costruire motivazioni” e recuperare “identità attraverso la ricerca delle soluzioni possibili” per un futuro concreto e l’insoddisfatto “istintivo” appagamento di “una identità” e “un orgoglio” che vediamo con leggerezza sulle bandiere un po’ ridicole dei “leghismi’ nostrani che circolano non sempre carsicamente tra di noi in una miscela esplosiva tra antipolitica,post-o- antidemocrazia. Dannazione di tutte le richieste di i riscatti o cambi di potere in nome dell’orgoglio identitario ideologico,autoreferenziale e approssimativo. Ulteriore smacco e offesa comunque alla Politica come “grande aspirazione a dominare essa stessa “ o “ a caricarla di risposte alle questioni e non di messaggi palingenetici sulle grandi strategie” La politica, come l’etica ,è soprattutto una scienza pratica, ossia una scienza legata alla sfera contingente dell’azione ma anche l’occasione delle esperienze esistenziali e culturali distinte e di relazioni anche “conflittuali”. E’ proprio il sano ,concreto e salutare “conflitto”(pòlemos) politico che manca in Irpinia non solo per motivi generazionali ma soprattutto culturali. Più “conflitto” perché più politica pensata e praticata. Evitando sia la retorica della testimonianza che la vuota dialettica tra “vecchio e nuovo”,come effetto di spoliticizzazione del soggetto-cittadino destinato alle accattivanti e facili fauci dell’antipolitica da una parte e “dalla libertà negativa e passiva” condannata all’inazione e appagata nella non-partecipazione politica. Infine una speranza ”….il problema del recupero della politica , partendo dalla valorizzazione della comunità come soggetto del rinnovamento” potrebbe trovarci in una discussione vera. Il viaggio esistenziale e politico che abbiamo iniziato nella “comunità provvisoria” non ha bisogno di “pesanti e ricche valigie o masserizie identitarie”da custodire o esibire durante il cammino e neanche pretendere poteri ma di cercare strumenti diversi e praticare linguaggi ricchi e idee lunghe e possibili,”sogni pratici” che ci aiutino nella chiarezza a “trovare e costruire una motivazione che ci tenga insieme” e a definire una “funzione” utile per noi ,la nostra gente e il nostro territorio .E’ questo il nostro ordine del giorno? Sono questi sogni,le speranze che coltiviamo nel cuore e nella mente? Sono queste le domande che sto ponendo soprattutto a me stesso a livello filosofico ed esistenziale perché ritengo riduttivo e pericoloso ragionare per categorie desuete considerate ancora in contrasto solo dialettico (Potere-società civile,comunità) PS: questo scritto riciclato pone domande che non richiedono risposte .E’ da leggere , se si vuole , e subito da dimenticare…grazie! Mauro Orlando
mercoledì 30 marzo 2011
venerdì 25 marzo 2011
Elisir d'amore per ...il mio Cairano del cuore.
I nostri sentieri verso Cairano
“Il corpo di Bob Bridge lo ha accompagnato per ottantasette anni. Non per molto ancora. Il tempo consumato è il corpo di Bob. Tutti i suoi organi sono in declino. I nostri corpi si sono evoluti in modo da durare solo il tempo necessario a trasmettere i nostri geni alle generazioni successive. Dopo esserci riprodotti e aver cresciuto i nostri figli, non siamo più necessari. Bob ha svolto già da tempo il suo compito biologico. Vive di tempo preso in prestito”.…
....Il corpo è ciò che ci pone in contatto con il mondo. L’uomo non ha un corpo, ma è un corpo…e allora corpo ed anima non sono separati. Pure ammettendo che tale separazione ci sia, il corpo può fungere da veicolo per la crescita e per la grandezza dell’anima.
Come Zarathustra allo specchio sconvolto un mattino vide”il ghigno deforme di un demonio….e pensò che ancora “l’erba maligna vuole passare per grano” e che anche gli amici possono andare smarriti….trascinati dai nemici ,è necessario”ridiscendere dagli amici e dai nemici”…anche a costo …..“di nuovo parlare e fare doni “e dare il meglio di ciò che trabocca dal cuore e dall’anima e scendere ancora a valle tra “le tempeste del dolore” e donare ciò che si era succhiato leggero sino in fondo sul”meteorita” ventilato, silenzioso e magico di Cairano.
Certo anche dentro di noi intravedo insidioso e accattivante” il lago solitario che basta a se stesso” ma “abbiamo bevuto profondamente alle fonti alpestri” non solo a conforto del ” nostro cuore esule” ma per alimentare un torrente d’amore e farlo scorrere con naturalezza verso il mare del sogno, della speranza e del futuro.
“O voce di colui che primamente conobbe il tremolar de la marina!”
Nella Comunità provvisoria e inoperosa irpina respiriamo e camminiamo nuovi sentieri ininterrotti e stiamo imparandoad usare “le radure e i segnavie” e anche le vecchie, logore e abusate parole ,ma per discorsi nuovi ela voglia di raccontare vite nuove di creatori e non di spettatori,gregari e ripetitori. Ci siamo stancati della vecchia lingua impastata per i vecchi discorsi della poetica,della politica ,della filosofia e della teologia.I nostri spiriti sono incamminati sui sentieri liberi e ventilati come i deltaplani policromi di Cairano .Ma non solo e sempre per volare con le ali come aquile solitarie….. e vogliono incedere come uomini anche con le vecchie scarpe ma per tracciare nuovi cammini e storie vere con la mente semplice e leggera di un bambino………….
mauro orlando
Come Zarathustra allo specchio sconvolto un mattino vide”il ghigno deforme di un demonio….e pensò che ancora “l’erba maligna vuole passare per grano” e che anche gli amici possono andare smarriti….trascinati dai nemici ,è necessario”ridiscendere dagli amici e dai nemici”…anche a costo …..“di nuovo parlare e fare doni “e dare il meglio di ciò che trabocca dal cuore e dall’anima e scendere ancora a valle tra “le tempeste del dolore” e donare ciò che si era succhiato leggero sino in fondo sul”meteorita” ventilato, silenzioso e magico di Cairano.
Certo anche dentro di noi intravedo insidioso e accattivante” il lago solitario che basta a se stesso” ma “abbiamo bevuto profondamente alle fonti alpestri” non solo a conforto del ” nostro cuore esule” ma per alimentare un torrente d’amore e farlo scorrere con naturalezza verso il mare del sogno, della speranza e del futuro.
“O voce di colui che primamente conobbe il tremolar de la marina!”
Nella Comunità provvisoria e inoperosa irpina respiriamo e camminiamo nuovi sentieri ininterrotti e stiamo imparandoad usare “le radure e i segnavie” e anche le vecchie, logore e abusate parole ,ma per discorsi nuovi ela voglia di raccontare vite nuove di creatori e non di spettatori,gregari e ripetitori. Ci siamo stancati della vecchia lingua impastata per i vecchi discorsi della poetica,della politica ,della filosofia e della teologia.I nostri spiriti sono incamminati sui sentieri liberi e ventilati come i deltaplani policromi di Cairano .Ma non solo e sempre per volare con le ali come aquile solitarie….. e vogliono incedere come uomini anche con le vecchie scarpe ma per tracciare nuovi cammini e storie vere con la mente semplice e leggera di un bambino………….
mauro orlando
lunedì 14 marzo 2011
Elisir d'amore per ......la vita umana
Alla fine della notte
di ogni guerra in ogni tempo
c'è una casa di farfalle
in mezzo al vento
C'è una casa che ho sognato
proprio quando mi han colpito
e mi son detto:
"tutto qui il dolore?"
Ma ora sento un grande caldo
e un grande gelo
e chi sa perchè
mi brucia tanto il cuore
R.Vecchioni
Tra esperienza mistica di Erri De Luca e la vita “paesologica” di Franco Arminio
Una lotta tra la terra che vuole smettere di attrarci nel vivere e il cielo che inizia nel miraggio del pensare. Tra il finito pensato e l’infinito sognato. Un infinito che avvolgendoti come vento ti arruffa i capelli…libera con le vertigini dell’altura la tua mente da tutte le zavorre e le polvere sottili della pianura evitando il rito mistico del girotondo dei dervisci. Sulle rupi e le vetti ti metti in ascolto del vento d’altura che allontana gli schiamazzi del mondo. Non si pensa all’origine del vento ma al suo suono che non è deviante come le sirene di Ulisse.Uno che va per i monti è un vagabondo uno che va per paesi è un viandante o pastore che vede lontano e in profondità perché non ha una meta ma un cammino da percorrere in avanti e all’indietro come gli animali selvatici che fiutano e percepiscono segni remoti e nascosti ai più.Il mistico cammina con la sua solitudine per lasciarsi alle spalle rumori di fondo e la babele dei non-luoghi. E a quelli che gli chiedono cosa aveva visto sulla vetta e sulla rupe risponde di aver sentito e pesato sulla rocca di Cairano un senso di spaesamento e che non aveva parole per rispondere e usava le parole della poesia : un vuoto senza ali,una luce che si infiltra nel vento,la felicità di guadagnarsi il sole, un silenzio che si fa sinfonia, un ascolto dilatato del proprio cuore,un risentire il varco doloroso materno verso la luce della smemoratezza nel tuffo e nel vuoto della vita umana, e l’appoggiarsi delicatamente al bordo della rupe non per sperimentare il vuoto o il nulla ma per sentire dove finisce il mondo e comincia il tempo, sentire la tristezza dolorante e dolorosamente umana del getsemani dell’anima turbata dalla speranza per la resurrezione del corpo, il ricordo e la ricerca che lo stordivano, il cielo stellato sopra di noi che perdeva pezzetti di comete e non ti invogliava a cercare leggi morali dentro di te ma amare la solitudine spaziosa che non ti spaura ma alimenta la tua curiosa fantasia , il non andare a verificare se la terra smette e comincia il cielo o per riportare il cielo in terra, ma ad imparare a desiderare e apprezzare di abitare e vivere il dono della terra,lo sperimentare il precipizio nel vuoto che ci ricorda la solidità terrena della memoria, il vivere come la messa a fuoco tra la salita all’infinito e la discesa al finito senza fine di continuità. La discesa nel mondo dei “piccoli paesi dalla grande vita” non è la triste e forzata discesa tra gli uomini della esperienza solitaria di Zaratustra . Ciò che ognuno di noi ha vissuto, sentito,visto e pensato sulla rupe l’abbiamo chiamata “paesologia” come presupposto della ascesa mistica ma senza il miraggio della divinità . Paesologico è praticare la poesia che sa parlare della forza che hanno le stelle quando esplodono, le assurdità che passano per il mondo, il marciapiede su cui camminiamo, la sedia su cui stavamo seduti a cinque anni,il letto su cui dormiamo.,distinguere le emozioni delicatissime dalla vacua logorrea di calibratissmi congegni letterari e semplici eruzioni egotiche, evitare gli ipocriti, gli animali a sangue freddo, coccodrilli mummificati che all’improvviso si sciolgono e spalancano le loro fauci, gli estremisti parolai e moderati, il non farsi affliggere più di tanto dagli eroi dei luoghi comuni e della conservazione , il vivere la disponibilità di spazio e di terra sterilizzando i luoghi anche dalla puzza delle automobili, sapendo che siamo noi la cosa che manca e non risponde all’appello e alla sollecitazione,l’ imparare ad accudire con fervore e generosità il mondo e il luogo che ci ospita, mettersi al capezzale dei piccoli paesi , paesi della mancanza e del vento che scompiglia ed agita,il diffidare delle parole ma anche volergli bene per non farle assomigliare ad una truffa,lo smascherare i devoti del conformismo, i luminari dell’ipocrisia, i professionisti del calcolo costi/benefici,l’andare fuori a prendere aria e cercare instancabilmente spiragli,crepe e fessura come via di fuga per una esperienza autentica,l’ educarci agli sguardi lunghi e alle passioni e sentimenti caldi,lo scegliere di lasciare dietro di noi i miraggi e le distorsioni della modernità nella nostra risalita sul meteorita che guarda simbolicamente tutta l’Irpinia per far germogliare pensieri intorno all’altura degli appennini come luogo di transito che allontanano tutte le visioni statiche e separatiste, il vivere la penuria e la lentezza come occasione per guardarsi intorno e per guardarsi dentro, il fantasticare e immaginare un museo dell’aria senza arredi e custodi, senza cartelli segnaletici o guide sulla nuca del meteorita che spunta nella valle dell’Ofanto,tra il Formicoso e la Sella di Conza, anche nell’equivoco di chi vuole pensare a un Dio come l’aria e non come lògos, un Dio ha tanti fedeli inconsapevoli e tante chiese, una per ogni polmone, per ogni acquasantiera del respiro. Questo una volta il viaggio esistenziale verso Cairano 7X che si è voluto dividere nel tempo e nello spazio non nello spirito del sogno tra ascesi mistica e esperienza ‘paesologica’.
Mauro orlando
mercoledì 2 marzo 2011
Elisir d'amore per ........Oratorio bizantino
prefazione di franco cassano a oratorio bizantino
franco Arminio è una figura di intellettuale insieme tipica e assolutamente originale nel panorama del nostro Sud. Egli, pur possedendo tutte le qualità per farlo, non è mai partito, non ha mai usato la sua intelligenza per scappare altrove. È rimasto invece fedele al-la sua terra, senza sacrificare a tale fedeltà la sua mobilità intellettuale o il suo spirito critico, di cui le pagine di questo libro sono un documento ricco e vibrante. Infatti per Arminio, e questo è un altro tratto singolare, l’amore dei luoghi nasce non, come spesso accade, dalla rimozione dei loro veleni, delle loro miserie e delle loro impotenze, ma da uno sguardo lucido, che non nasconde nulla e non fa sconti a nessuno. Ci sono troppi che, deprecando, sbattono la porta e se ne vanno altrove e di lì pontificano a distanza. E troppi, tra quelli che rimangono, che sono convinti che la modernità sia soprattutto vendersi e sapersi vendere. Troppe volte oggi l’amore dei luoghi è diventato un’industria, un modo per venderli nel grande mercato globale, marketing territoriale, l’idea che si possa diventare commercianti della propria identità, e quindi parte della grande simulazione e dello spettacolo globale. Ma i luoghi di Arminio, i paesi dell’Irpinia, non sono stati assaltati direttamente, non sono stati invasi da turisti. Dall’esterno i cambiamenti sono minori, anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silenziosa, da una «modernità incivile», che ne ha disinnescato l’anima, trasformando gli abitanti in profondità.
La paesologia, la disciplina che Arminio ha messo al mondo un po’ per gioco un po’ sul serio, è una «scienza arresa», non mira a vendere, ma a far capire, non è seduzione, ma un gesto di amore doloroso e insieme inaffondabile. In questo Oratorio bizantino, che raccoglie scritti che attraversano più di un decennio, s’incontrano all’improvviso delle descrizioni commoventi, ci s’imbatte nell’Irpinia d’Oriente, una terra alta e battuta dai venti, una vera e propria «Mecca dei venti», uno dei pochi luoghi nei quali può venire in mente l’idea di un Museo dell’aria. Ma questi venti, che prendono la rincorsa da altre terre alte e arrivano da lontano, sono anche e soprattutto un luogo dell’anima, sottolineano la di-stanza dell’altura dai riti fescenninici della costa, dall’opulenza volgare e rumorosa di un mare fatto non più da marinai e navigatori, ma dalle plebi estive notturne e accaldate, dai terremoti sonori scagliati nel buio a de-cine di miglia di distanza, testimonianza di quella perdita del rapporto con i luoghi che li rende una discarica dello stordimento, un fondale dove il rumore annega in un solo colpo la bellezza e la coscienza, «una fossa comune dello spirito».
Ma questa nobiltà dell’altura, questa diversità riservata e austera, non diventano mai in Arminio la caduta in una sorta di mitizzazione, perché il benessere pesante e volgare non è rimasto confinato sul mare, ma è arrivato fino sui monti dell’Irpinia, in una forma fredda, ma non meno velenosa, e ha trasformato l’antica ritrosia in un collettivo voltare le spalle non solo ai luoghi e alla loro cura, ma a tutte le storie collettive. È come se sulla comunità fosse caduta una bomba silenziosa quando sono arrivati prima il trauma del terremoto dell’80 e poi i soldi, che hanno ricostruito le case, ma sembrano aver seppellito nelle loro fondamenta anche le coscienze: «Quello che una volta era il popolo della sinistra è un informe ammasso di solitudini e disperazione guidate da larve di una stagione politica cupa e disfatta».
I segni esterni di questa «disfatta antropologica» non sono clamorosi, ma non sfuggono al sismografo del paesologo, a chi possiede memoria di ciò che era e sa cogliere le differenze anche nei segni più piccoli, nei vuoti che si dilatano nelle strade, nell’estraneità che cresce anche nei paesi dove ci si conosce tutti. Oggi, dice Arminio, in questi paesi le porte sono chiuse, sempre chiuse. Ognuno sta dentro la propria casa, ha come unico dio il proprio utile privato, si è ritirato dalla comunità, le ha chiuso la porta in faccia, lasciandola fuori in preda ai venti. La bomba è esplosa dentro, producendo una mutazione delle anime. E quello che succede fuori scompare, sostituito dalla televisione, che ti fa abitare altrove, che ti rende cieco con un’orgia di immagini. Si incontra qui uno dei bersagli polemici privilegiati di Arminio, quella piccola borghesia che vive la propria casa come un rifugio antiatomico, che non riesce più a vedere i propri luoghi, omologata fin nel profondo dell’anima, arredata dai miti del consumo nel proprio immaginario, spenta nelle passioni collettive. E quando esce di casa, questa classe lo fa solo per esportare la chiusura dell’anima e la «planetaria fornicazione dei mediocri», per incrementare il suo bottino privato. È da questo grado zero della passione che inizia a prosperare una politica non politica, trasformata in affare da chi la fa, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino. Ecco perché domina la vigliaccheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il proprio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla.
Arminio detesta il compromesso non per moralismo, ma per una ragione più tellurica e profonda: il compromesso porta al tradimento dei luoghi, spinge ad abitare in essi come se si fosse degli uccelli predatori, emissari di un Occidente minore, volgare e arraffone. È questa fedeltà che lo rende molto di più di un don Chisciotte: il suo legame con la terra non è libresco, ma sensoriale, è un rapporto con le passioni collettive, quelle che hanno abitato in tanti suoi amici e coetanei e poi si sono placate lentamente, arenandosi in una waste land dello spirito. Il suo sogno è quello di un paese capace di ritrovare se stesso, i propri legami, capace di uscire dalle case, di aprire quelle porte chiuse che separano le anime le une dalle altre, è la fatica, ma anche l’ebbrezza dell’azione collettiva, l’unica impresa oggi paragonabile alle gesta dei cavalieri, ma che, al contrario di quelle, deve essere fondata su una grande mobilitazione di tutti. L’eroe di questa epopea non vuole essere solo o il primo, anzi vede la propria solitudine come una sconfitta, come il prologo della sua riduzione, nella migliore delle ipotesi, a un tipo originale, un po’ matto e diverso, un poeta e uno scrittore, uno che sarà anche una brava persona e avrà let-to tanti libri, ma forse proprio per questo non è in grado di accettare la realtà. Qualcuno da tenere buono e da lasciare solo.
In effetti qualcosa di vero in tutto questo c’è: solo a uno come Franco Arminio poteva venire in mente di proporre la nascita di una nuova disciplina, la paesologia, la scienza arresa, che proclama il primato dell’esperienza sul logos. Che si tratti di una «scienza arresa» è una vera e propria bugia, perché in questo vivere la condizione incerta e malferma dei paesi, specialmente di quelli più dissanguati, si può cogliere il rovescio delle retoriche dominanti, di quella rincorsa collettiva che ha riempito le bocche e le case, ma ha succhiato via ogni momento di vita comune, di riconoscimento negli altri. Una scienza, quella della paesologia, che non può nascere dagli algoritmi dello scienziato sociale, ma solo dallo stare dentro, da un legame con i suoni, gli odori, le case, i panorami, e da un rapporto forte con la memoria, il legame più pericoloso, perché ricorda i momenti in cui tutti sono stati migliori di quello che sono diventati, in cui non avevano ancora il piombo nelle ali, in cui non erano ancora diventati vigliacchi, vittime ma anche e soprattutto complici del potere, di un piccolo potere fatto di interni arredati con vasche per idromassaggi e di esterni con vacanze ai tropici, come nei cinepanettoni e nel racconto di un’Italia tutta ruotante intorno ai genitali e alle carte di credito.
martedì 1 marzo 2011
i vivi al mio paese sono morti
li ho visti oggi con le spalle al sole
spingevano per entrare al cimitero
franco arminio
li ho visti oggi con le spalle al sole
spingevano per entrare al cimitero
franco arminio
…con la coda dell’occhio del filosofo-paesologo.
Pensando da lontano alle passate girnate “paesologiche” per caricarmi di ottimismo intelligente e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio testo di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa.Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione del ruolo del filosofo-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot descrive in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il filosofo-paesologo di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mauro orlando
Pensando da lontano alle passate girnate “paesologiche” per caricarmi di ottimismo intelligente e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio testo di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa.Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione del ruolo del filosofo-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot descrive in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il filosofo-paesologo di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mauro orlando
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