domenica 28 novembre 2010

Elisir d'amore .....per una nostalgia paesologica.

Poserò la testa sulla tua spalla

Solo alla fine del mio viaggio

e farò,inventerò un sogno di mare con orizzonti lunghi

come le idee che cerco

ma poi torno ai sogni verticali di collina

e ai domani con un fuoco di legna,

e pane caldo e profumato di sole

perché l'aria azzurra diventi casa comune

con amici che amano raccontare

di sé e dei piccoli uomini

con le unghie conficcate nella terre e nell’anima

Chi sarà a raccontare?

Chi sarà?

Sarà solo chi rimane........

o le porte saranno spalancate all'aria

e a tutti i pellegrini

alla perenne ricerca di un Dio

che ama nascondersi dentro di sé

e non negli uomini e le cose

.....per tutti i naviganti di sogni

e i nomadi e viandanti delle speranze

delle transumanze umane ed ideali……..

io ....seguirò questo migrare,

seguirò questa corrente di ali.




Se uno ,con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso” Platone.

L’amicizia è ancora un sentimento fondativo ed essenziale della esperienza esistenziale e culturale della nostra vita affettiva,culturale e sociale?E’ dissolta,nascosta o momentaneamente accantonata per i tempi migliori? Forse siamo vittime inconsapevoli degli ultimi sviluppi tecnologici delle società di massa che incollandoci davanti a un computer a consumare le nostre bulimie affettive per esorcizzare la solitudine,lo sradicamento , il silenzio,le offese e le amnesie delle identità. Sempre più l’amicizia non praticata diventa difficile,impraticabile nello schema e nella funzione della ‘fiction’.La pratica praticata intorno a noi delle conoscenze utili e degli scambi di favori che aiutano le relazioni ipocrite e convenzionali che possono diventare vantaggiose…..non ci aiuta .La nostra grammatica sentimentale e sociale ci obbliga oggi a ragionare al ‘singolare’ o al ‘plurale’.Nel singolare coniughiamo la solitudine dell’anima che progetta e vagheggia mondi ideali o ancestrali, eden e paradisi perduti, radici nobili che la società ha corrotto ,dimenticato o deviate,ideazioni e sogni che non possono essere declinate in pubblico o nei rapporti comunitari. Al singolare possiamo vivere il dolore e il morire con dignità e autenticità e al massimo ci permette di avere il coraggio di esporci nelle nostre piccole comunità. Al plurale siamo costretti sempre a dare prova di sano realismo, apertura,tolleranza e pluralismo, di stare ai fatti, di controllare le emozioni, le rabbie, i sogni ,le speranze, a dare risposte agli altri e contenere e controllare le domande per essere accettati,riconosciuti,identificati e in qualche caso applauditi. L’amicizia può permettersi di coniugare il singolare al plurale ….e non è un gioco di parola. I nostri antenati greci ( spero di non offendere altre convinzioni) avevano in uso il ‘duale’ come forma verbale che esprimesse la valenza simbolica del linguaggio quando doveva esprimere i momenti e i furori sentimentali dell’innamoramento come “stato nascente” in cui non si riesce a pensare a se stessi senza l’altro. L’amicizia comunitaria come l’amore abita e vive al duale rifiutando l’anonimato e l’ipocrisia nel pubblico e la solitudine e l’afonia in privato. Ecco perché la scelta comunitaria e paesologica e altruista e rivoluzionaria e l’amicizia in più ci permette di comprendere tutte le eccedenze di senso che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia ,di idealismo,romanticismo ma in privato una possibilità di ascolto accogliente e generoso delle nostre intime verità e sentimenti. Per questo anche nella nostra vita comune e quotidiana si possono auspicare molte amicizie che possono corrispondere alle sfaccettature delle nostre anime che non possono essere svelate alla legittimità di custodire intimi segreti che altri segretamente custodiscono. Le nostre azioni pubbliche e comunitarie non devono necessariamente cercare consenso, conforto o confidenze ma sviluppare la necessità di alterità e apertura nei ritmi intimi della propria anima che non hanno voglia perdersi nella solitudine dolorosa o nei rumori assordanti e omologanti del mondo. Per questo io sono per sviluppare e non mortificare nella nostra esperienza comunitaria il sentimento e lo stato dell’amicizia per derimere e combattere la falsa alternativa tra l’anonimato o l’adeguamento nel pubblico e la solitudine dolorosa o gloriosa nel privato. Nelle caotiche e anonime società del nord e nell’isolamento delle società dei piccoli paesi e delle colline l’esperienza politica deve sempre più ricreare,favorire o promuovere primaditutto l’incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso e vedere in un amico lo sguardo accogliente che ci invita a fare un viaggio assieme per scoprire le proprie radici per poter continuare i propri racconti personali ad altri a cui hanno mortificato la coscienza , vietato le storie ma sopartutto gli hanno tolto le parole per raccontarle e continuare a viverle amichevolmente e politicamente insieme agli altri.

mauro orlando

domenica 14 novembre 2010

Elisir d'amore per .....la poesia amica.





“io non voglio languire in questa sonnolenza,
voglio crepare e far crepare la mia ansia,
voglio uscire dal mondo senza uccidermi
e senza morire, voglio uscire adesso,
adesso che è quasi mezzanotte,
e non c’è nessuno al mondo,
tutti uccisi dal sonno e dalla televisione,
sono l’ultimo che è rimasto in questo paese,
non c’è nessun altro,
non ci sono nemmeno i morti al cimitero,
non ci sono gli alberi e le panchine,
non ci sono nemmeno i muri delle case
e le nuvole e i fanali delle macchine,
sono rimasto talmente solo
che fuori di me l’universo
è più leggero di un ago
e questa ago è il mio cavallo, il mio aereo,
la mia nave, il tappeto volante
con cui voglio viaggiare.”
franco arminio
Le poesie di franco arminio , mi emozianano….e le emozioni hanno un effetto di stimolo alla mia sensibilità filosofica scoperta. Egli scrive,,,,,”adesso gli unici che servono a qualcosa
sono quelli che sono partiti,
quelli che sanno sparire, quelli che sanno liberarsi
e andare via, via dai paesi e dalle città, via dai partiti
e dalle chiese, dalle moglie e dai mariti, via dagli amici
via da ogni cosa vecchia e via da ogni cosa nuova,
semplicemente via, via dalla banalità
e anche dalla poesia.”
Non è così ,ovvero non è semplicemente così. I poeti,( a diffrenza dei filosofi che partono come Platone per fondare pòlis ideali o che scappano dalle loro responsabilità ),hanno la capacità di disporsi in uno spazio aperto illimitato, e «all’interno di un ‘nòmos’ nomade, senza proprietà, confini o misura» (Deleuze), di stimolare la vita nella sua erranza infinita al di fuori dei canoni precostituiti e dagli spazi e i tempi definiti e reali. L’essenza della lirica come racconto dell’ “io” ha portato alla moltiplicazione di voci che devono essere ascoltate sulla questione del senso dell’essere, della verità in direzione della trasparenza e dell’intelligibilità della vita. Non sono più le parole a contare, ma la questione del senso, e in questa ricerca l’incontro, come a un viandante disperso in un bosco (la selva delle voci), dell’evento che rifugge da ogni prevedibilità, del chiarore che lascia apparire la profondità della vita, delle «vere presenze».o delle presenze “inutili” come “… il sindaco …
il vicesindaco pure e tutti gli assessori
e tutti i consiglieri dell’opposizione,
e gli impiegati e la posta e i mastri della scuola,
e i bidelli e i contadini,
non serve a niente chi si ubriaca nei bar
e chi vede la televisione,
e chi passeggia in piazza
e chi compra il giornale…..”
Concludo con una breve poesia di Emily Dickinson, in cui, come nella celebre Ode a un’urna greca di Keats, i concetti di bellezza e di verità sono strettamente uniti………per un poeta e forse anche per un fiosofo non del tutto pentito……
Morii per la bellezza, ma ero appena
composta nella tomba
che un altro, morto per la verità,
fu disteso nello spazio accanto.
Mi chiese sottovoce perché ero morta
gli risposi «Per la Bellezza»,
«E io per la Verità, le due cose sono
una sola. Siamo fratelli» disse.
Così come parenti che si ritrovano
di notte parlammo da una stanza all’altra
finché il muschio raggiunse le labbra
e coprì i nostri nomi.

martedì 9 novembre 2010

Elisir d'amore per ....i sentimenti comunitari.....

....Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio nel contado di Agobbio appari un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini, in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s'appressava alla città, e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s'eglino andassono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e' vennono a tanto, che nessuno era ardito d'uscire fuori della terra.

Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano.......







LA DONAZIONE DEGLI ORGANI.

pubblicata da Elda Martino il giorno martedì 9 novembre 2010

E’ l’autunno più piovoso che ricordo. L’acqua è entrata dappertutto, la nebbia si è infilata nei vestiti, prima, poi ha penetrato gli organi, il cuore, gli occhi. Camminano i miei simili tutti affannati. Vanno sempre di corsa. Le donne sono quelle più agitate. Quando ti fermano ti parlano per interminabili minuti dei loro problemi. Il -come stai- iniziale serve solo da introduzione ai loro discorsi, monologhi sul precariato, i figli, i soldi. Penso spesso che non capisco più il mio sesso. Ho amiche che si sono trasformate in animali da riproduzione, nell’arco di pochi anni sono diventate mucche da latte. No, peggio delle mucche, quelle sono generose, il loro latte lo danno a noi, agli altri. Le mie amiche mamme sono furenti come tigri e spente come mozziconi di sigaretta nei tombini. Stiamo assistendo ad una sorta di delirio collettivo. Tutto il mondo deve girare intorno a due o tre cose al massimo che, a loro volta, sono una nostra superfetazione, i figli, il lavoro, la vita, la nostra vita, s’intende. Esco e piove. Da sempre, da che mi ricordo, ho sempre pensato ai cani quando piove. Mi immagino i loro rifugi, me li trovo davanti, bagnati che camminano sotto la pioggia, e penso a dove andranno a ripararsi, dove troveranno un posto per dormire. Mi piace pensare che riusciranno a entrare in una delle decine di case in costruzione, scatole di cemento inerti, vuote, e che così solo così quelle case serviranno davvero a qualcosa, prima di diventare un’altra prigione, un altro nido dove intrappolare altre menti, altri cuori in inverno.

Adesso c’è un cane cieco, non ha più l’iride, gli è diventata tutta bianca, sta in una casa vecchia che tra poco verrà abbattuta, sta lì tra i copertoni, la plastica. Gli portano da mangiare ogni giorno. Lui non vede, ma riconosce le voci e cerca anche di fare festa a modo suo. Un cane randagio me lo portai a casa anni fa, i vicini avevano già chiamato l’ASL per farlo portare al canile. Un altro l’ho salvato a Cairano quest’estate. Poveri stupidi esseri minuscoli gli uomini, hanno paura per i loro mostriciattoli a due zampe. Non accarezzare i cani che mordono, non li toccare ti portano le malattie, non ti avvicinare sono pericolosi. Siete voi quelli da cui stare lontani, voi, merda secca buona nemmeno per concimare la terra, fatta com’è dalle schifezze di cui vi ingozzate. Voi dovreste dormire sui calcinacci. Voi e non loro. Voi dovreste stare appesi a Pasqua con un gancio nella gola esposti come macchinine a sgocciolare il vostro sporco sangue che non donate mai a nessuno, che tamponate appena viene fuori, invece di salassarvi continuamente. La mia regione è quella con una delle più basse percentuali di donazioni di organi. La morte celebrale non esiste, gridano alcuni, ci si può sempre svegliare dal coma. Ma non lo vedete che state già vivendo in un costante coma? Che le vostre esistenze reggono solo per quella finzione di respiro che credete di emettere, per i gas che producete, per l’acqua che consumate? Non li donate i vostri occhi, il vostro cuore, non lo fate mentre ancora state in piedi, portateveli nelle tombe e fateli trasformare in qualcosa di utile dai vermi, dalle mosche. Siete così concentrati su di voi da non accorgervi che non esistete o che esistete solo se ve lo dicono gli altri. Tu che scrivi tutto il tempo dannandoti perché siamo mortali, perché oggi o forse domai si potrebbe morire, tu che tremi per un mal di testa, per una fitta allo sterno, tu non lo dare il tuo cuore. Non te lo strappare dal petto come in un antico sacrificio azteco e non lo mettere nelle mani di qualcuno. Tienitelo ben stretto il tuo cuoricino pulsante e tremulo, accarezzalo, fallo stare tranquillo, non lo sfiorare nemmeno con una piuma. Voi che abitate le vostre case, che le tenete pulite come specchi, che non fate entrare le persone dalla porta principale per non rovinare i pavimenti, e voi che guidate a centottanta chilometri in autostrada per correre chissà dove e chissà perché e che, quando vi fermate, subito avete il cellulare da impugnare, lunghi discorsi da affrontare con persone che nemmeno sapete se esistono, che, forse, sono solo voci, altre voci come voi. Tu che per anni hai spedito le tue innocenze a mani inesperte e pronte a ghermirti a insultare il tuo splendore, che hai piegato la tua natura alle paure altrui, alle bassezze ti sei umiliato, alla meschinità ti sei inchinato. Hai detto scusa quando ti hanno offeso e per favore e ti prego. Tu che hai detto -ti bacio- al mondo intero e non hai mai baciato veramente nessuno, tu che di attenzioni ne hai ricevute al prezzo di svendere la tua arte, ora che farai?Io ti dico che è venuto il momento di prendere un aratro e di colmare la frana, o di scivolare pattinando sulle argille. Alzala quella benedetta testa e guarda oltre la polvere, oltre questo trascorso secolo che ha seminato solo morte e perfidia nei nostri cuori. Torna indietro, viaggia nel tempo, offri il tuo sacrificio alla natura, alla vita e alla morte. Dona i tuoi organi da vivo e, poi, da morto. Calati morbidamente sulle ginocchia e prega con queste parole. Oppure cercane di nuove e falle vibrare, fai tremare il mondo degli umani con la forza che ti nascondi dentro, riconosci i tuoi simili e disprezza apertamente i vili, gli ipocriti, i servili. Combatti la tua guerra e offri petto e viso al nemico. Guardati allo specchio e digli: sei mio, ti ho vinto.

(e.m.)

martedì 2 novembre 2010

Elisir d'amore per .....la comunità....





Comunità e moltitudine

Nella morsa delle categorie interpretative di “comunità e moltitudine” ricerche territoriali sul malessere del Nord si esercitano sempre più su una “questione settentrionale” che non coinvolge minimamente la vecchia e residuale “questione meridionale”. Finalmente superato d’amblais tre secoli di “magnifiche sorti progressive”, cominciati con le utopie della Rivoluzione francese e dell’illuminismo europeo nelle parole “libertè,egalitè fraternitè”. Nella abitudine rottamatoria sono finite le parole classe, Stato, nazione, comunità e territorio lasciando una possibile e attardata “questione meridionale” agli storiografi di riporto o a sconclusionate improbabili derive politiche o antipolitche “leghe” borboniche, sanfediste, massoniche e quant’altro. Quali le conseguenze nella cultura politica e antropologica per la società civile e politica del sud con “il trionfo della moltitudine” come fenomenologia di una massa priva di coscienza di sém rappresentanza e rappresentazione e la liquefazione dei ceti medi e della neoborghesia non più proprietaria dei mezzi di produzione ma dei flussi globali? Nelle dinamiche sociologiche e culturali sempre più le distanze dei ruoli e delle funzioni delle classi dirigenti meridionali si sta facendo drammaticamente seria e conseguente. Mentre al Nord si discutono le parole del Novecento con neologismi ricchi di problematiche nominalistiche e di prospettive politiche al sud ci si mortifica o ci si attarda su sensi di colpa e improbabili e cervellotiche riscoperte identitarie fuori luogo e fuori tempo. Che ne è al Sud del “proletariato della diaspora”, dei “creativi messi al lavoro nella società dello spettacolo”, del “General Intellect”, della “neoborghesia dei flussi”? Accettiamo supinamente e senza sospetto la fine del conflitto fecondo tra economia e società e in nome di una ‘neutralizzazione’ indolore della funzione dello Stato come regolatore e redistributore di interessi e diritti senza alternative e futuro possibile C’è anche al sud una agenda politica seria ed articolata che riveda e rilegga criticamente ma concretamente la ridefinizione del potere politico e della statualità o ci affidiamo agli “spiriti animali” di un neofandamentalismo provinciale e comunque di fatto gregario ai populismi antipolitici elitari e governativi del Nord e delle sue classi dirigenti . Incanalando improvvidamente gli scontenti , i conflitti e le fibrillazioni sociali e territoriali in progetti e decisioni che si prendono elitariamente dall’alto a Milano, capitale della postmodernità politica, finanziarie ed economica e dal basso tra le “moltitudini” leghiste nella valli bergamasche delle medie imprese,del capitalismo molecolare e dei distretti economici e nelle Banche a vocazione locale e poteri territoriali. Il tutto declinato nella postdemocarzia amorale o extramorale del tramonto berlusconiano che cerca palcoscenici epigonali e farseschi nella tradizione peggiore della “commedia dell’arte napoletana” tra “immondizie,discariche e termovalorizzatori” salvifici in palese offesa, sottolineatura e denuncia della inadeguatezza e irresponsabilità delle classi dirigenti economiche, politiche ed amministrative meridionali in concorso di fatto con la società malavitosa. Tutto questo nella “coscienza infelice” della vecchia e nuova diaspora della migrazione meridionale interna che dalle residenze ovattate del Nord vede montare un soffuso, diffuso e metastatico “razzismo di Stato” e una ridiscussione continua della “identità nazionale” e su improbabili e riscoperte del tema del conflitto tra ‘etnie’ in base al principio di “sangue e di suolo” a discapito di un recupero fattivo del tema della ‘cittadinanza’ e di ‘responsabilità’ da sempre in agenda delle migliori democrazie europee ed occidentali. Di fronte alla selvaggia globalizzazione finanziaria e alle non regolate moltitudini migranti tutte le categorie antropologiche e politiche risultano insufficienti al governo dal Nord ma soprattutto diventano esplosive e distruttive per la società economica, civile e politica nelle realtà meridionali con tutti i ritardi e le contraddizioni che tutta la storia unitaria ha prodotto e alimentato nel corso del tempo tra denunce analitiche e irresponsabilità politiche varie ed eventuali che non aiutano comunque a trovare vie d’uscite non salvifiche e soluzioni concretamente possibili e governabili.
mauro orlando

lunedì 1 novembre 2010

Elisir d'amore per .... i defunti del cimitero di Grottaminarda

......Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita, me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena trascritto i nomi......





un attimo di bene

metto qui un pezzo di Franco Arminio uscito oggi sul manifesto

Oggi niente paese, niente casa, niente libri, niente piccoli giri in bicicletta, niente computer. Un giro nei paesi, ma non quelli lontani, un giro vicino, sempre a mezz’ora da casa.
Pensavo di fermarmi a Guardia e invece scendo sull’Ufita e poi mi allungo fino a Grottaminarda. C’è traffico, è il paese coi commerci, con l’autostrada e il suo indotto. Fa anche caldo. Mi viene l’idea di andare al cimitero. Ci sono passato tante volte e non ci sono mai entrato. La scritta in latino è molto bella: ti sia lieve la terra, dice. È una frase esemplare che i vivi possono dire ai morti. E forse c’è una frase che i morti possono dire ai vivi. Forse è per ascoltarla che entro nel cimitero, è una frase che non può avere parole, è un qualcosa che ti entra dentro senza la furia che hanno i vivi. La faccia di un morto su una lapide è come un albero, come un gatto. È qualcosa di irrimediabilmente innocente, qualcosa che ha dismesso la fosca battaglia per stare in mezzo agli altri. Ho voglia di vedere facce. Un cimitero è anche una grande mostra fotografica. Qui a Grotta non c’è nessun visitatore. Il parcheggio era affollato, ma sono andati tutti al mercato. Mi segno nomi e date, guardo specialmente quelli che sono nati dopo il sessanta. Camminando nel cimitero sento che il cuore si è rimesso a battere con precisione, prima sembrava disordinato, impaurito. Adesso cammino e faccio attenzione a quello che vedo. Il cimitero di Grottaminarda non ha marmi scintillanti e lapidi di forme strambe, non somiglia per niente all’orrenda piazza da poco realizzata. Insomma, c’è molto più ordine di quello che c’è fuori.
Adesso che sono qui a casa, adesso che sono passate molte ore, non so dire di preciso come mi sentivo stamattina, non so dire come la morte educava i miei passi e i miei pensieri. La nostra testa è fatta di lampi deboli e lontani oppure di un cielo basso e grigio e inerte. Basta poco e non sappiamo dove siamo, cosa pensiamo. E allora arrivano le parole da cui sfiliamo altre parole e altre ancora per non trovarci di fronte all’esatta insensatezza di appartenere a una specie che ha perso il filo del suo viaggio nel mondo. Stamattina non pensavo alle cose che sto scrivendo. Pensavo solo di mettere sul computer i nomi e le date che andavo trascrivendo sul taccuino. Villanova Antonio (1963-1998), De Paolo Concettina (1965- 2005), Michele Iacoviello (1972-2009)Palumbo Pasqualantonio (1958-1995), Maurizio Grillo (1970-1994) Romano Generoso (1962-1991), Romano Massimo (1970-1991), Carla Formato (1947.1997), Del Viscovo Michele (1960-1992), Dario Bottino (1963-1984), Amalia Minichiello (1984-2001), Blasi Guido (1968-1983), Di Vito Giulio (1977-1996). Stamattina ognuna di queste persone mi ha consegnato una sua frase, ognuna delle loro facce mi ha fatto compagnia per qualche attimo. Di più non è possibile.
Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita, me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena trascritto i nomi.
Uscito dal cimitero sono andato verso l’alto,verso la sobria bellezza di Frigento. La via panoramica chiamata Limiti era mossa da un vento senza fiamme. Poca gente in giro e tanta terra davanti a me. Contento di essere lì, sicuro di avere fatto bene ad andarci, contento di stare seduto senza far niente su uno scalino all’ombra.
È nuovamente tempo di scendere, vicino c’è un altro posto con una sua intensità. Vado alla Mefite. Un pozza di acqua e fango che ribolle può essere poco. Oggi è molto, il vento muove le canne, si sente che il luogo ha avuto una sua storia e io sento che è bello stare qui a bocca aperta, farsi entrare nel petto quest’aria che può sembrare l’alito di angeli ubriachi.
Vado verso Villamaina. So che c’è un boschetto con alberi poco fitti. Scendo a fare una foto e vedo una mamma di cinghiale con sei cuccioli. Non se ne scappano e non me ne scappo nemmeno io. Loro si avvicinano e mi avvicino pure io. Faccio tranquillamente le mie foto. Io sono un cacciatore di desolazione e non di animali. Li guardo con allegria, mi sento felice del fatto che non faccio paura, che questi animali smuovono la terra vicina ai miei piedi senza alzare lo sguardo verso di me. Forse hanno capito che vago nel mondo da disarmato. Li lascio a malincuore, ma questo bosco ormai è un altro luogo che mi appartiene, un luogo sacro come tutte le cose che ho visto oggi.
La giornata volge al tramonto. Passo per Gesualdo. Anche questa è una bella Irpinia. Mi basta vedere il castello da lontano e sono felice. Il mio passaggio dura poco più di una stretta di mano. Sento amicizia per questo luogo, mi basta averlo visto, gli voglio bene, voglio bene alle sue pietre. Oggi ho visto i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, ho viste tante cose , tutte bagnate in questa Irpinia d’agosto che non è né vuota né concitata. Un’Irpinia che sarebbe bello se avesse questi abitanti anche d’inverno.
Sono nuovamente a Grotta. I morti sono al loro posto e le macchine fanno i soliti giri. È ora di tornare a casa. Ci torno per scrivere, per onorare la bellezza semplice e appartata delle cose osservate.

Ho voglia di scrivere senza la lingua sporca che uso quando parlo con le persone. A parte qualche mezza frase che viene ogni tanto, il mio eloquio è vanamente concitato. Parlo e sento che non dovrei parlare. Dovrei soltanto far suonare il mio corpo. Scendere a picco sulle cose e risalire in verticale. Basta coi giri obliqui, tutti questi giri che mi hanno fatto impallidire. Voglio tornare a essere secco e delirante, voglio portare gli altri davanti al mio furore o alla mia calma e non sempre davanti a questa poltiglia di stati d’animo che cambiano aspetto appena li smuovi, appena ti ci muovi dentro. Voglio essere come le cose che ho visto oggi: i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, i cinghiali del bosco, le pietre di Gesualdo. In alcuni giorni, in alcuni minuti c’è un attimo di bene che vaga per il mondo. È il caso di riconoscerlo e nominarlo.

armin



Elisir d'amore per .......il Circo dell'ipocondria.....


Corpo e paesaggio
di Franco Arminio , Circo dell’ipocondria, postfazione di Valerio Magrelli



.........Sono le cinque del mattino, ancora non si capisce che cielo avrà la giornata. Oggi il cielo ci sarà sicuramente, noi non lo sappiamo in quale luogo saremo, nel luogo della vita timorosi di morire o morti come sempre in cerca della vita.

In principio c’era un luogo in cui dovunque ti trovavi eri sempre allo stesso punto, questo luogo era il paradiso e dunque il luogo era Dio. Poi è comparso un albero e un albero è già una cosa sola, una cosa divisa, se stai sotto la sua ombra sei in un luogo preciso, nessun albero dà la stessa ombra di un altro. Dal momento che siamo usciti dal paradiso abbiamo cominciato a costruire un nostro luogo, esiliati in cerca di casa. I poeti sono esiliati come gli altri, semplicemente non riescono a vedere riparo in alcuna casa. Il poeta più che la casa cerca il giardino. Ogni giardino, dal più umile al più sontuoso, forse dice di questo tentativo di rifare sulla terra il paradiso, cioè il luogo felice, cioè Dio. Una rosa non è un fiore ma una prova di forza teologica, una prova sempre fallita perché, come dice Caproni, non riusciremo mai a dire cos’è nella sua essenza una rosa. La questione non è il paradiso che c’era, ma quello che non c’è mai, quello a cui tendiamo indefinitamente senza mai raggiungerlo. Fare un giardino significa fare un luogo buono, un luogo etico prima ancora che estetico, un luogo che sta da una parte e non da un’altra e quindi fuori dal divino. Fare un giardino significa lavorare la terra, questo grembo fecondo e irrimediabilmente chiuso, terra come recinto in cui moriremo col nostro corpo che è il luogo più drammatico della terra, il luogo in cui la forza della vita e quella della morte si danno quotidiana battaglia.

E questa battaglia coinvolge anche il paesaggio, perché pure il paesaggio è un corpo. E il mio paesaggio è un corpo martoriato: penso alla lunga emorragia dell’emigrazione e poi agli improvvisi ribollimenti del cratere, alle faglie che lo attraversano. Dal giardino al paesaggio, dal paesaggio al paese, grembo che marcisce senza farmi uscire. Il paese come utero inverso, luogo da cui non si esce, né in forma umana, né come rivolo di sangue. Utero, ossario, recinto dell’apprensione dove una siepe spinosa di pensieri infelici ogni tanto vira e stringe verso l’imbuto dell’angoscia. Abitare il mio paese e abitare il mio corpo a un certo punto sono diventati una cosa sola, un solo abisso. A un certo punto ho capito che scrivere è annusare la rosa che non c’è, che non ci sarà mai. Scrivere era tentare di fare sulla pagina il giardino, partendo da un costone d’argilla e cianuro. Al mio paese c’è sempre il vento, ma come se non bastasse questo movimento aereo, ce n’è un altro, viscido, sotterraneo. Il paese è appoggiato su una zolla di terra che scivola, si spacca e porta in superficie le sue fenditure. Come si fa a non temere la morte in un paesaggio così malato? Come si fa a non temere la morte quando il corpo del paese e il nostro corpo sono una cosa sola? Quello che chiamiamo io è una prova, un tentativo di interrompere questa congiunzione mortale. Ho abitato il mio paese più di quanto abbia abitato il mio corpo. E qui il fegato è diventato un campo da semina. E’ stato ed è tutto un lavoro nell’amaro. Il fegato è vero, il fegato è nostro. L’io è una protesi, un arnese che appartiene a un’invenzione dei nostri primi giorni in questo mondo, un modo per accomodarsi nello sgomento o per uscirne. E la scrittura, in quanto strumentazione dell’io, è protesi di una protesi, artificio a oltranza e come tale esposta a logoramento. La scrittura non può essere una guaina che ti riveste completamente, che ti evita l’abrasione dall’interno e dall’esterno. Se la guaina funziona verso il nemico interno non può riparati da quello esterno e viceversa.

Forse anche per questo da un po’ di tempo scrivo meno e ho preso a usare un’altra protesi, la videocamera. Quando esco ho sempre qualcosa da filmare. Sono uscito anche stamattina, alle sei. Al paese nuovo i primi ambulanti si preparavano al mercato del sabato. Sono andato a vedere se si vedeva il Gargano, è quella la misura della luce. Se non si vede il Gargano non c’è la luce giusta per andare sull’altura e allora sono sceso in piazza. Il barista puliva davanti al marciapiede. Un manovale scapolo della mia età alzava la saracinesca di un bar che non è suo. Uno dei due Giuseppe che sta sempre in piazza prima fumava seduto poi si è messo a camminare per dare sfogo ai suoi nervi. A un certo punto è comparso il falegname che porta il mio stesso cognome e che pare avviato a una sobria vecchiaia dopo una giovinezza da alcolista. Ho filmato il loggiato del castello, la facciata di una casa, il rosso di un divieto di accesso, un uccello che passeggiava per strada e un cane che faceva uno strano lamento mentre suonavano le campane. L’ultima apparizione è stata Vito, quello che lavora alla forestale e che non smette di abbrutirsi e io non smetto di riprenderlo perché nelle sue espressioni trovo un sapore che tante facce non hanno. C’era un vento fresco stamattina a ricordarmi che neppure a giugno qui c’è pace. Però tutte le cose erano ben presenti e il semplice arrivo di un pullman mi ha dato una sottile esultanza per il fatto di poter vedere le infinite scene del mondo. Dovunque sei, il paesaggio non manca mai, non manca di niente. Siamo noi l’unica cosa che manca al paesaggio, quella che non riusciremo mai a filmare.

(pag. 101 – 104)

Elisir d'amore per ......."il dolore del mondo"

.......Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata..........






Il dolore del mondo di elda martino
Il punto in cui mi trovo è definitivo. Sento chiaramente la morte, la morte del mondo e degli umani. La specie che ha creduto di poter dominare la terra, corpo celeste,è moribonda. Non ha risposte, non sa dove andare, è smarrita senza riuscire a vedere il suo smarrimento, è sfinita senza avvertire la sua condizione.
Ci siamo presi troppa cura di noi stessi, e per troppo tempo. Ognuno per sé, e poi, ognuno per il suo nucleo, la famiglia,il paese, la nazione, la specie. Nuclei sempre più piccoli, sguardi miopi.
Possiamo agitarci quanto ci pare, l’unica vera via è ripensare, ripensarci come parte di un tutto molto più importante e grande di noi.
Giorno dopo giorno le speranze si affievoliscono e le possibilità di rifondare l’umano si fanno vane. Rifondare l’umano, ripensandolo.
Io non so dire, ora, come fare, non ho indicazioni, scelte, istruzioni per l’uso. E credo giusto che sia così. Poiché l’umano, per ripensare se stesso, deve prima rinunciare a se stesso. Deve oggettivizzarsi, guardarsi dall’esterno, sciogliendo ogni legame con gli schemi dell’antropocentrismo falsamente razionale che lo hanno condotto a questo.
Quando dico oggettivizzarsi intendo proprio l’azione di distrazione dal proprio io, la possibilità di iniziare a considerarsi come una cosa, una qualsiasi, di questo mondo. Una pietra, una formica, un albero.
Le tentazioni new age sono dietro l’angolo, ma non mi sfiorano, poiché, nel mio rimandare a un estraniamento dell’io da sé, non vado conseguentemente verso un annullamento dello stesso. È un processo più complesso e singolare, ossia singolarmente vissuto.
Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata.
Lo scontro, quindi, non è, come sempre si è detto, tra fùsis e lògos, non c’è scontro. Lo scontro è tra singolarità, ego, e collettività, altro. E questo altro, questo altro da sé non può più essere inteso nella semplicistica accezione di umano.
Qui si tratta di creare una nuova umanità, che comprenda ogni singolo atomo di questo universo, che riduca l’uomo solo a una minuscola parte di esso, che lo conduca a una visione più grande, illimitata, ma capace di indicargli, poi, i suoi confini, i confini dell’intelligenza e della ragione.
La strada passa prima di tutto per il dolore, per l’avvertimento del dolore e per la lacerazione. Oggettivizzarsi significa aprirsi, squartarsi, esporsi. Mettere il proprio corpo, prima ancora che la mente, se davvero sono divisi, sul campo. E abbandonare le categorie di specie, di genere, di razza. In questo ordine. La specie va negata come tale. La scienza continuerà ad occuparsene e a studiarla, ma questo non deve implicare più una ricaduta etica in senso negativo, nel senso di un giudizio di merito di superiorità. Lo specismo va minato dalle basi.
E il dolore del mondo va ascoltato, pure quando diviene insopportabile per la sua enormità.
Se vogliamo sentire di nuovo la vita, aspirare alla felicità non come condizione contingente, ma come stato, dobbiamo passare per il dolore, il dolore della distruzione di noi stessi, e il dolore per la distruzione che abbiamo, invece, imposto all’altro. A tutto ciò che, da sempre, abbiamo considerato indegno di sentimenti, di sofferenza, di anima (e uso questo termine in modo del tutto laico).
So bene che non siamo pronti per tutto questo, perché è più semplice chiudersi nelle celle sempre più ristrette di una personalità egotica che non sente e non vede nulla, se non la propria immagine, riflessa nello schermo del pc, ora, negli specchi , prima.
Ma io non posso più tacere di fronte allo strazio che sento, lo strazio che infliggiamo e per il quale non veniamo puniti da nessuna forza soprannaturale, poiché essa non esiste, se non come ente da noi stessi creato per assolverci dal male che produciamo.
Il male vero, il più grande è quello che portiamo al mondo, è l’indifferenza verso ciò che non è, non riteniamo umano. Il male che facciamo agli altri uomini è innato, esso nasce con noi, ce lo portiamo dentro, e non c’è piacere più grande per l'uomo che quello di vincere sugli altri annullandoli.
La differenza sta in questo. Pure se dovessimo abolire il male “umano”, noi non saremmo mai innocenti, non lo saremo mai fino a quando non usciremo da queste prigioni che sono i nostri corpi, fino a quando non diventeremo ciò che, in fondo, siamo: terra, acqua, sangue, carne, aria. Proprio come tutto il resto, come tutto ciò che da sempre ci guarda e ci teme.

e.m.