giovedì 30 settembre 2010

Elisir d'amore per........... la poesia


Oggi siamo sempre più costretti ad esprimere tentativi artistici, letterari e filosofici volti a sperimentare la potenza del negativo e viverne le conseguenze....a portare ,comunque alla superficie un malessere che profondamente fende come una crepa l’autocomprensione del nostro tempo venire dal 'niente'....tornare nel 'niente'. Il "nulla eterno“ .......il più inquietante “di tutti i nostri ospiti.







ALTRI COME NOI

il giorno in cui moriremo
il vento come sempre passerà
in mezzo a questa casa che si chiama mondo.
altri dopo di noi
saranno allegri, tristi, moribondi,
altri come noi,
ombre illuminate da un cerino,
cerini dell’ombra.
franco arminio

Elisir dìamore per .....le parole comunitarie:amicizia

Se uno ,con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso” Platone.




L’amicizia è ancora un sentimento fondativo ed essenziale della esperienza esistenziale e culturale della Comunità provvisoria?E’ dissolta,nascosta o momentaneamente accantonata per i tempi migliori? Forse siamo vittime inconsapevoli degli ultimi sviluppi tecnologici delle società di massa che incollandoci davanti a un computer ci costringe a consumare le nostre bulimie affettive per esorcizzare la solitudine,lo sradicamento , il silenzio,le offese e le amnesie delle identità. Sempre più l’amicizia non praticata diventa difficile,impraticabile nello schema e nella funzione della ‘fiction’. Siamo sempre più prigioniere di storie e labirinti che che non necessariamente pensiamo e costruiamo noi anche quando le raccontiamo.La pratica praticata intorno a noi delle conoscenze utili e degli scambi di favori che aiutano le relazioni ipocrite e convenzionali che possono diventare vantaggiose…..non ci aiuta .La nostra grammatica sentimentale e sociale ci obbliga oggi a sceglietre tra il ragionare al ‘singolare’ o al ‘plurale’.

Nel singolare coniughiamo la solitudine dell’anima che progetta e vagheggia mondi ideali o ancestrali, eden e paradisi perduti, radici nobili che la società ha corrotto o coperte ,dimenticato o deviate,ideazioni e sogni che non possono più essere declinate in pubblico o nei rapporti comunitari perchè altri le hanno usate male e mortificate . Al singolare possiamo vivere il dolore e il morire con dignità e autenticità e al massimo ci permettono di avere il coraggio di raccontarle e di esporci nelle nostre piccole comunità. Al plurale siamo costretti sempre a dare prova di sano realismo,,tolleranza e pluralismo, di stare ai fatti, di controllare le emozioni, le rabbie, i sogni ,le speranze, a dare risposte innocue agli altri e contenere e controllare le domande scomode per essere accettati,riconosciuti,identificati e in qualche caso applauditi. L’amicizia può permetterci di coniugare il singolare al plurale ….e non è un gioco di parola. I nostri antenati greci ( spero di non offendere altre convinzioni sulle nostre origini) avevano in uso il ‘duale’ come forma verbale che esprimesse la valenza simbolica del linguaggio quando doveva esprimere i momenti e i furori sentimentali dell’innamoramento come “stato nascente” in cui non si riesce a pensare a se stessi senza l’altro. L’amicizia comunitaria come l’amore abita e vive al duale rifiutando l’anonimato e l’ipocrisia nel pubblico e la solitudine e l’afonia o l’egolatria in privato. Ecco perché la scelta comunitaria e paesologica è altruista e rivoluzionaria e l’amicizia in più ci permette di comprendere tutte le eccedenze di senso che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia ,di idealismo,romanticismo ma in privato una possibilità di ascolto accogliente e generoso delle nostre intime verità e sentimenti. Per questo anche nella Comunità provvisoria si possono auspicare molte amicizie che possono corrispondere alle sfaccettature delle nostre anime che non possono essere svelate alla legittimità di custodire intimi segreti che altri segretamente custodiscono. Le nostre azioni pubbliche e comunitarie non devono necessariamente cercare consenso, conforto o confidenze ma sviluppare la necessità di alterità e apertura partendo dai ritmi intimi della propria anima che non hanno voglia di macerarsi nella solitudine dolorosa o di perdersi nei rumori assordanti e omologanti del mondo industrializzato e di moltitudine. Per questo io sono per sviluppare e non mortificare nella nostra esperienza comunitaria il sentimento e lo stato dell’amicizia per derimere e combattere la falsa alternativa tra l’anonimato o l’adeguamento nelle società dei paesi del nord indistriale e la solitudine dolorosa o furiosa dei piccoli paesi e delle colline.Anche l’esperienza politica deve sempre più puntare a ricreare,favorire o promuovere primaditutto l’incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso nei “non-luoghi” della modernità e le vaste bellezze naturali degli appennini del mondo e vedere in un amico l’occasione e l’opportunità di uno sguardo accogliente che ci invita a fare un viaggio assieme per scoprire e amare le proprie radici non dividerci o distinguerci dagli altri ma per poter continuare i propri racconti personali anche ad altri a cui hanno mortificato la coscienza , misconosciuto le storie ma sopartutto gli hanno tolto le parole per raccontarle e continuare a viverle amichevolmente e politicamente insieme e in pubblico .

mauro orlando

domenica 26 settembre 2010

Elisir d'amore per .......un pensare del cuore


il cuore e la mente che grand’enigma!!!!!!In un momento di mia grande tritezza un'anima autentica è riuscita e rimettere al suo posto le ipertrofie della mia mente “strisciante e subdola” e .....vigliacca perchè si fa rappresentare dalle parole falsamente vive…….ma il mio cuore conosce il senso dell
sue parole anche quando per parlare della vita usano la parola ‘morte’.Grazie ,Elda, e spero che mi sentirà suo amico…..mauro





Il mondo è morto.
pubblicata da Elda Martino il giorno domenica 26 settembre 2010 alle ore 13.41
il mondo è morto.facciamoci le condoglianze l’uno con l’altro. il mondo degli umani, degli uomini e delle donne è morto dopo un’agonia di centinaia di anni. forse è morto un giorno di febbraio del 1600, mentre giordano bruno bruciava sul rogo a campo de’fiori. o forse era già morto prima, quando la peste nel XIV secolo dimezzò la popolazione europea. o forse è morto un poco dopo, quando eleonora pimentél de fonseca fu impiccata senza mutande a piazza mercato mentre il popolo dei lazzari napoletani e sanfedisti le guardavano sotto il vestito.no, il mondo è morto molto prima, quando la logica ha preso il sopravvento in maniera strisciante e subdola sull’istinto. quando in nome della nostra presunta superiorità di specie, abbiamo iniziato ad allevare e ad uccidere, quando abbiamo deciso di costruire mura intorno alle città, insediamenti puzzolenti di merda e di piscio dove ogni spazio delimitava una solitudine, una casa abitata da altri morti che litigavano con i vicini per il confine, per le pecore, per la proprietà. la morte è un evento definitivo, e noi abbiamo bisogno solo di eventi definitivi, unici, senza scampo. per troppo tempo abbiamo creduto di poterci salvare, mentre invece non c’era alcuna salvezza e già stavamo morendo. abbiamo usato la filosofia per convincerci che sapevamo pensare, che sapevamo usare la testa e che, quindi, eravamo vivi. nella nostra testa non eravamo noi a muoverci, ma i vermi, le sinapsi erano il loro strisciare, la terra che spostavano. gli occhi già non c’erano più, e quello che abbiamo visto era solo una rappresentazione consolatoria, un’immagine che ci eravamo costruiti ad arte. siamo bravissimi a prenderci in giro, a iluderci della nostra vitalità curiamo i nostri corpi, produciamo merci, le acquistiamo e così ci riempiamo la vita. ma quale vita? la vita non c’è più in questo mondo, è fuggita via, è andata a nascondersi quando ha visto come volevamo usarla, che commercio intendevamo farne, come pensavamo di esporla, di metterla in ridicolo, di svilirla. il mondo è morto quando l’ultimo lupo è stato ucciso e appeso per la gola nel paese più disperso degli appennini. quando i pescatori hanno smesso di lottare alla pari con i tonni nel canale di sicilia, quando abbiamo costruito i lager dove alleviamo i polli che poi le nostre mamme danno da mangiare, slavati, bianchi, ai bambini, bianchi e slavati pure loro, senza anima, senza cuore, destinati a diventare altri morti e ora solo in fase di coma irreversibile.nessuno grida più, nessuno piange veramente, nessuno si abbraccia con vero calore.facciamo il funerale a questo nostro misero mondo. scambiamoci frasi su come eravamo buoni e bravi. portiamo lunghi vestiti neri adatti al lutto e stiamo in silenzio. spegniamo le comunicazioni, annulliamo le parole, che restino solo pochi gesti semplici e poche, pochissime cose, quelle essenziali. smettiamo di correre, tanto siamo morti, non facciamo progetti, non investiamo denaro. i morti non le fanno queste cose. i morti sono composti, silenziosi, dignitosi e veri, qualità che abbiamo perduto da troppo tempo per poterci definire vivi.solo la morte può renderci di nuovo belli e furenti. la morte non è una cosa brutta, la morte è pulizia, è rinascita e inizio.non ci ha uccisi nessuno, siamo morti da soli, guardando il nulla, pensando al futuro, accumulando o dissipando, muovendoci o stando fermi, a letto, per strada, vicino a un camino o ad una festa.nessuno ci ha ammazzati, o tutti.ora possiamo organizzare un bel funerale, un funerale di stato, un funerale mondiale. e poi stare fermi, immobili, austeri finalmente, finalmente dignitosi e innocenti.torneranno le selve sui nostri mostri, sulle strade, sulle case, e negli stessi cimiteri. e torneranno altri uomini, insieme agli animali, ai rovi. ed è chiaro che tutto questo noi che siamo morti non lo potremo vedere. ma dobbiamo lasciare questo mondo, dobbiamo liberarlo dalla nostra ingombrante presenza, togliergli le mani dal collo, lasciarlo respirare.si riorganizzerà più velocemente di quanto crediamo, il mondo, perché non è nostro, non lo è mai stato e solo noi abbiamo creduto di poterlo comprare. ma l’aria non si compra e nemmeno il vento, il mare, la neve. non si compra tutto questo immenso splendore del quale noi non partecipiamo, mai abbiamo saputo partecipare.smettiamola di agitarci e fissiamoci nella nostra posizione di defunti, sorridenti come gli etruschi, ieratici come gli egizi. scegliamo quella che più ci piace e diamoci pace perché siamo morti, finalmente e inesorabilmente morti.

e.m.

Elisir d'more per ......una fuga dalle caverne....




Pensando da lontano alla giornata di Nusco per caricarmi di ottimismo intelligente e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio testo di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa.Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure.
Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione del ruolo del filosofo-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot descrive in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il filosofo-paesologo di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.

mauro orlando

ps…..per abundantiam cordis!

lunedì 13 settembre 2010

Elisir d'amore per .....il dolore e la paura

Stai scrivendo troppo
mi diceva ieri una persona molto lucida
e molta cara
ed eccomi qui a scrivere
mentre da via Caravaggio guardo
l’alba che arriva sulle case di fronte:
una di solo intonaco
e abitata, mi pare,
solo da un vedovo,
l’altra tra il giallo e il marrone
abitata, mi pare, da parenti
del vedovo.
A questo punto del giorno, sveglio
a leggere e scrivere da più di tre ore,
sarebbe il caso di tornare a dormire,
ma sento, ed è tanto,
una certa curiosità per il giorno
che sta per venire.
franco arminio





Il cuore mi si colma di commozione e di dolore. “Triste è l’anima mia fino alla morte “, tale è la mestizia e lo spavento che io provo nell’intimo del mio cuore. Dopo la tragica morte di Angelo Vassallo i miei pensieri impauriti e offesi sono le cose più incredibili e difficili: affollano al mia mente e il mio cuore e mortificano nella carne il mio amore per il Cilento, il suo mare ,i suoi uomini ,i suoi paesaggi e arrivano da ogni parte, sono uno sciame di cose belle , tranquille e anche paurose ed atroci.Qualcuno ha scritto che una “terra” è un divenire,un sogno, una speranza non solo una radice o una nascita. Certo, quando un uomo nasce, può scegliere le sue condizioni di vita ma non la terra di nascita o di adozione come non può scegliere i genitori e familiari .Può scegliere gli amici e le ragioni delle sue amicizie .Si può scegliere gli avversari da contrastare e combattere ma non i nemici da scansare e rifiutare. Può viaggiare o pensare, sposarsi o restare solo, leggere libri o conquistare o abbandonare e amare nuove città e nuovi territori: ma niente si può fare da soli…. non c’è nessuna differenza fra un solitario, un eremita e un viaggiatore, tutti si consumano, entrambi sono ben fragili fortezze se non si prefiggono di pensare e vivere “comunità….aperte e libere” ma isole felici o gabbie dorate. Uno preferisce farsi di pietra, l’altro di vento, ma alla fine tutti sanno e si preparano tutti a vivere e anche a morire come processo naturale e non violento .
Con la nostra terra noi abbiamo un patto di riconoscenza e possiamo essere in armonia con lei, se cerchiamo di vivere un’ora d’ozio al giorno, di leggerezza assoluta, senza rancori e senza rimorsi, disincantati e liberi.Essa può essere la mappa esistenziale in piccolo e planetaria in grande con l’abbandono di ogni presunzione di perfezione o di ideale. Ognuno con la sua terra entra in ‘koinonia’ nella presenza della vita e anche del prematuro e tragico morire dei nostri amici e familiari.E allora. Eccoci qui, nudi e indifesi. Le maschere le abbiamo lasciate lì, addossate al portale della chiesa di Acciaroli, e qui nessuno entrerà. Ma ricordiamo e sappiamo che quelle maschere sono anche la nostra storia, le nostre spernze. Non illudiamoci di essere sempre nudi e puri. Santi o uomini ,mortali o immortali, veggenti o folli – è un destino di cui ho appena intravisto l’orrore e la bellezza in un gesto violento e una morte indesiderata.Non viviamoci indispensabili, anche se siamo portati a pensarlo, ognuno con le sue eccellenti ragioni. Tutti andiamo e veniamo dalla stessa porta. Ognuno di noi ha il suo volto gioioso e il suo incubo privato: la paura non è neppure un sentimento, è uno stato. E’ sangue della nostra carne, prendiamola con noi. Noi che amiamo la gioia e l’armonia sappiamo con lei passare anche le nostre ore.Essere vivi è sempre e solo un distacco. Tutta la vita è un raffinato vagare nelle strategie personali dell’addio.Questa dolorosa notte di Acciaroli è stata lunga e irripetibile: teniamola dentro la nostra memoria come un evento, una possibilità …uno scongiuro. Non spegniamo il fuoco e torniamo a vivere nelle piazze e a non morire lentamente nelle nostre case. Non cerchiamo mai di mortificare o di rassegnarci alla vita ma di esserne consapevoli e liberi, innanzitutto. Di sorprendere e meravigliarci sempre . Mai dormire in se stessi ma addormentarsi fuori di sé, per uscire dai nostri corpi e dai nostri pensieri, lasciando a chi resta l’insegnamento del sogno e qualche gesto o persona da ricordare.

mauro orlando

venerdì 10 settembre 2010

Elisir d'amore per .......la poesia

noi siamo in ciò che vaga
nella polvere della vita
nella ruggine della morte
siamo in tutto tranne che in noi
ed è per questo che ci danno un nome
per l’illusione di sapere
il come e il dove
della nostra sorte
per dimenticare che siamo sposati
ad una bolla,
avvinti al soffio
che si apre
all’aprirsi di una porta.
f.arminio
In Can’t explain The Who


Tragedia di un progetto utopico
non realizzato
che sembra morto
senza essere mai nato.
M.C.Baroni

Chi l’avrebbe mai detto o immaginato che in questi tempi di tristezza e deriva politica il pericolo più insidioso alla democrazia e alle piccole comunità potesse venire da un pensiero troppo innamorato di sé stesso e ancora una volta impaurito dalla poesia quando non si chiude in sé stessa ma osa puntare il dito verso di noi.
Qualche commentatore intelligente ha scritto che l’agonia della nostra società non va misurata a partire dall’esibizionismo banale,superficiale di tutto ciò che oggi si dice “cultura”, cioè di una crescita quantitativa di un “sublime” diffuso e massificato , nel fare arte, poesia, spettacolo..La comunicazione eccessiva ,trasversale ,politicamente corretta e caciarona vuole imprigliare il nostro “io” in un autismo privato deluso, empirico,infelice, solitario y final o in una rimozione o autismo corale di un territorio violentato e emarginato. Paradossalmente si sottolinea la denuncia di “nuove invasioni barbariche “ e contemporaneamente la dichiarazione del crollo della poesia nell’epoca in cui la stessa poesia si fa edonistica indifferenza o eccessiva esposizione e si omologa ad un mondo istupidito e superficiale. Mai come oggi esiste un aumento demografico di poeti e di antologie. E’ una sorta di isteria nazionale che qualcuno ha chiamato ”autarchia creativa del sublime” a cui viene dato o la libertà di sovraesporsi o di relegarsi in regime di innocenza o narcisismo territoriale, storico e politico come una specie in via di estinzione o che dia voce ad una malinconia collettiva o autismo corale che rimargina ( cioè esalta e falsifica) lo sbandamento di una comunità che non c’è più o che non ci mai stata se non nella menta di Platone ,Rousseau o peggio Marx. Mai come oggi la poesia desidera essere “recitabile e leggibile”, ovvero divulgabile e quindi “ ludica”. Volersi sottrarre crea ulteriori disappunti e incomprensioni. Ma questa condizione non misura ed esprime più il neoconformismo contemporaneo (la vecchia accusa di Pasolini) e nello stesso tempo non fotografa o smaschera la presunta perfetta omologazione del fare poesia al riprodursi demente della società. Non basta contrapporre dialetticamente l’intima ed emarginata denuncia lirico-filosofica leopardiana alla politica ,disagiata e radicale invettiva pasoliniana di uno sviluppo senza progresso e di una modernità puttana , equivoca o illuministicamente sopravvalutata.Ma allora è legittimo generalizzare e dire che la poesia è morta(!?) ed è giusto che le nostre comunità hanno emarginato o dissipato i suoi poeti, che continuano ingenui a perdersi in una selva di poeti,dove nessuno sa più dove siano o continuano imperterriti gridare la propria voce nei nuovi ‘deserti’ del conformismo o consumismo individuale e corale nella incomprensione e dissapore dei più?. Perché sarebbe morta ? Autoestinzione o assassinio? Se fosse per estinzione, il “postmoderno” ( la causa di tutte le cause) nihilista,relativista e narcisista diventerebbe un motivo consolatorio. Ma noi sappiamo che è per assassinio anche se spesso preterintenzionale.Questo paese , i nostri paesi, , rimuovendo la poesia come forza spirituale e autentica del senso, perde la realtà del proprio “io” ,rinunciando alla possibilità e necessità di rieducare ,nel pensare e vivere il proprio paese e territorio, i propri occhi catarattati e il proprio “logos” indurito per riscoprire la “grande vita” paesologica che circola nelle proprie vene per pompare sangue nuovo al proprio cuore, sottraendosi alla deriva tutta politica dei pensieri corti e tristi nella palude di un regime che si è fatto tumore antropologico incurabile e metastasi diffusa . La poesia va difesa ,letta e meditata perché mette in testa una paura vera,offensiva ,rigorosa , selvaggia, nuda, serissima.In certi momenti non basta solo preoccuparci con la denuncia delle sorti della nazione o dei nostri territori o paesi , bisogna provare terrore per reagire e ripredersi le redini dei nostri demoni interiori e dei tanti tristi , atterriti e silenziosi compagni di viaggio di questa esperienza comunitaria che ama la diversità della poesia come intuizione minacciata di sopravvivere e la voglia di rimanere voce feconda dei nostri territori abbandonati ad una sismicità rimossa,contenuta,controllata o peggio repressa .
mauro orlando

Elisir d'amore per ......la morte violenta di un amico

Oggi la Comunità provvisoria è ad Acciaroli con il suo cuore addolorato e la sua mente limpida di un bambino che manda a memoria " come si fa con le poesie a scuola" il nome di Angelo Vassallo.Per noi "i simboli" come i "valori" sono essenziali contro ogni forma di rassegnazione e distrazione. Anche i miti possono essere idee ,sentimenti e passioni che ci possiedono e ci governano non necessariamente con processi logici che conmunque si radicano profondamente nella nostra anima non per accomodarsi con pigrizia nelle nostre idee per meglio farci comprendere gli uomini e il mondo in cui viviamo.I problemi sono dentro la nostra vita e noi li affrontiamo anche quando ce la vogliono togliere in modo violento e offensivo.Noi siamo fratelli di tutti quelli che si battono contro tutti quelli che con violenza e ignavia si fanno ditruttori del proprio territorio e carnefici della loro gente.Noi lo ricorderemo con la bellezza di una melodia non triste e drammatica come un "reqiem" ma dolce, semplice e profonda come sono i ricordi veri che voglio conservarci vigili ed attivi.


"....Nemici della bellezza e del coraggio,edificatori di bruttezza e paura, con le loro montagne di denaro che ammorba,corrompe ,avvelena, ma non sa creare niente di utili,di gentile e di condiviso.Impossibile immaginare un omicidio politico più politico di questo:il difensore del bene comune assassinato da chi vuole mangiarselo,il bene di tutti,, e farne indigestione lui soltanto, lui e la sua piccola tribù ingorda....
ANGELO VASSALLO ANGELO VASSALLO ANGELO VASSALLO ANGELO VASSALLO ANGELO VASSALLO
..........I nomi almeno i nomi cerchiamo di salvarli dalla morte " M. Serra.

lunedì 6 settembre 2010

Elisir d'amore per .......un settembre comunitario e paesologico

----un settembre comunitario e paesologico
di franco arminio
Il primo settembre è il primo giorno dell’anno. È come un capodanno silenzioso, non salutato da nessuno. Questo primo settembre è così silenzioso da farmi sentire il rumore del mio corpo. Ci ho messo mezzo secolo per sentire distintamente il rumore del mio corpo. E poi c’è il rumore del mondo, quello di una creatura mesta e rassegnata. Me ne sono accorto stamattina a scuola, riprendere servizio era una faccenda che non dava emozioni a nessuno. Fra un paio di settimane arrivano i ragazzi, ma non accadrà niente anche allora.
Il pomeriggio del primo settembre in Irpinia è un pomeriggio difficile. La luce è bellissima, mi fermo a filmare la chiesa del paese nuovo. Si avvicina un signore dall’aria distinta. Mostra di riconoscere a chi sono figlio. Lui è figlio di un calzolaio. Ha una madre quasi centenaria che ogni estate vuole tornare al paese. Vivono a Milano. Arriva un tipo di Andretta. Nasce una piccola conversazione sull’agricoltura come unica speranza per queste zone. Il signore emigrato a Milano si dice stupito che dopo mezzo secolo qui si emigra ancora. A questo punto mi accorgo che la mia digestione sarà difficile. Non è tanto quel che ho mangiato, è che non mi riesce di digerire il peso di questa giornata. Sono stato fuori pochi giorni, sapevo che al mio ritorno avrei trovato apparecchiata l’Irpinia desolata che ci porteremo appresso fino a giugno.


Oggi la giornata è bella, la luce è fresca e lunga, c’è un nitore del mondo esterno che contrasta con la foschia in cui sono immersi i miei nervi. È l’appuntamento con l’ipocondria settembrina. Intanto ho saputo che un mio libro a cui tengo molto esce nella prima settimana di novembre. Forse il verbo uscire è inadatto. In effetti non c’è uno spazio pubblico in cui i libri possano approdare ed essere discussi. I libri traslocano dalla casa dello scrittore alle case di alcuni lettori. Stanno diventano sempre più una faccenda privata. La piazza, lo spazio sociale spettano ad altri. C’era più gente qualche giorno fa alla notte della taranta di quanta se ne veda nelle librerie per un anno intero. Ero al concerto per i miei figli e mi chiedevo come si potesse gustare una musica che andava avanti senza interruzione da cinque ore. La musica ha senso se è preceduta e seguita da silenzio. E mi chiedevo anche perché tutti quei centomila ragazzi meridionali non si mettessero insieme per rivoltarsi, per contestare chi comanda. Comunque non ha molto senso invocare le lotte degli altri. Bisogna aver cura di portare avanti le proprie, con coraggio e senza cedimenti. Da questo punto di vista l’Irpinia è una terra ideale. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Siamo circondati da cose che non funzionano e ognuno di noi in fondo è la prova di una terra richiusa su se stessa, una terra che subisce i cambiamenti ma non li sa produrre.

sabato 4 settembre 2010

Elisir d'amore per ......un cuore che non rallenta.

il cuore rallenta ...la mente cammina


La malinconia è di diritto, una qualità o uno stato d’animo benvenuto nella “comunità provvisoria”. E come essa non è uno stato patologico ed eccezionale, una malattia del corpo e dello spirito, non la si definisce solo per “mancanza” . Non è un “ospite inquietante” della comunità ma ne rappresenta la parte più intima, nascosta, appartata e meditativa.

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
E. Dikinson



La malinconia non è asociale ma ha con la società un rapporto selettivo,biunivoco ed aristocratico anche se possono sembrare fattualmente e concettualmente incompatibili.
La comunità ha bisogno come l’aria che respira di questi momenti appartati, meditativi e silenziosi per scoprire la profondità del suo essere un insieme di “io” singolari-plurali lontano dai rumori di fondo della superficialità insidiosa e omologante della società .E’ ” lo scarto originario che separa l’esistenza della comunità dalla sua essenza”.E’ un limite che la comunità stessa si pone da non dover varcare per non perdersi .La malinconia ci aiuta a tenere assieme con dolore e sofferenza l’essere e il niente della nostra esistenza individuale che mina dall’interno l’appartenenza e la condivisione ad una comunità né riduttiva né semplificata.
La malinconia da sempre ci insegna in questa nostra esigenza di comunità che il limite non è eliminabile e che la comunità non è identificabile con se stessa , con tutta se stessa o se stessa come un tutto, con il rischio di una forma di tipo totalitaria come ideologicamente abbiamo sperimentato per tutto il Novecento.
Dobbiamo evitare alla comunità di annientarsi nel tentativo di preservarsi o di liberarsi dal suo ‘niente’ ma aiutarla a scoprire in questi momenti di intimità che l’assale il suo carattere costitutivamente e costituzionalmente malinconico.Il nostro pensare non può liberarsi mai del tutto dalle sue sue tonalità malinconiche pena la sua immobilità e afasia .Ha la necessità di riconoscere la sua duplice declinazione – quella , negativa , della ‘tristizia’, dell’acedia e quella ,positiva, della consapevolezza profonda della finitezza, situandole una nella sfera dello ’inautentico’ , dell’improprio e l’altra in quella dell’esistenza ‘autentica e propria’.
Recuperare ed attivare al sua esigenza e il suo senso di “quiete”, “silenzio”, “gioia” di assumere e riconoscere il limite , la finitezza come la nostra condizione più propria anche se nella sofferenza e nel dolore.
Scriveva Heidegger” ogni agire creativo ha luogo nella malinconia….” .questo ci porta a pensare che l’incompiutezza e la finitezza non è il limite del pensare comunitario ma esattamente il suo senso, essendo “l’essere-solo un modo difettivo ” delle esistenza umana.
La comunità non è né un origine ,né un fine né una fine, né un presupposto, né una destinazione, ma la condizione, insieme singolare e plurale, della nostra esistenza finita.Non è solo un spazio liminare e definito da subire,da preservare o da allargare ma un luogo comune che ci è destinato e ci accomuna .E il pensiero della malinconia tocca il punto aldilà del quale non sappiamo e non dobbiamo andare ma anche lo spazio vitale in cui vivere nella “gioa e nel dolore” la nostra esistenza autentica .
mauro orlando

Elsir d'amore per .......il cuore ....

....il cuore rallenta ...la mente cammina.....

Elisir d'amore per .......il "clown"


Il Clown e il filosofo


Il clown è stato variamente descritto e definito. Il filosofo viceversa, non come semplice espositore di filosofie eterogenee, è un argomento sempre vergine e pieno di incognite e di pericoli.
Il clown più che un linguaggio è una esperienza trasformativa e pretende con la leggerezza del sorriso trasformare ogni attività ed inattività al di là degli atti e delle performance che mette in opera .
Vuole tramutare prima di tutto la sua vita interiore una volta scoperto questa aria rarefatta di leggerezza nel respiro d’alta montagna.
E in questa profonda metamorfosi intima e totale egli pretende di estirpare ogni identificazione con la sua persona sociale e storica arrivando a non riconoscersi nell’individuo che sembra essere (maschera) - nato da certi genitori in certa data, con suo carico di conoscenze, esperienze e ricordi, e si identifica con l’essere in quanto tale.
Potrebbe paradossalmente ed a buon ragione, gridare a tutti con un sorriso a 120 gradi “sono figlio del cielo e della terra …. sono figlio del sole e della luna”….. “sono della stessa sostanza dei sogni”.

Il flilosofo-clown......


L’uomo normale può anche essere “uno,nessuno ,centomila” sul palcoscenico del suo mondo reale il clown aspira allo zero assoluto come via di perfezionamento sempre più alto ed eccelso senza la pretesa e obiettivo di insegnare o raggiungere nessuna dottrina.
Il clown non è mai un individuo isolato ha bisogno degli altri e aspira ad essere amato ed accettato dalle comunità civili e politiche senza la pretesa di indicare modelli ma con la libertà di non esserne ingabbiato.
Il suo è un particolare modo di fare esercizi di esperienza degli altri, malati bisognosi di cure mediche, cittadini di cure politiche, persone di cure d’amore … con un modo diverso e nuovo di guardare e vivere il mondo, gli uomini e le cose.
E’ un modo di “entrare nei panni degli altri” con stupore ,disponibilità e meraviglia sia si tratta degli indiani d’America, di un bambino triste, di un sindaco distratto, di un assessore disponibile o di una mosca che si posa silenziosa e fastidiosa sulla nostra mano.
Cercando solo di pensare, vivere per approssimare ogni uomo all’altro uomo e a tutti gli esseri viventi. In questo gioco di specchi il clown e il filosofo amano confrontarsi e confondersi agli occhi degli altri. Questo e il gioco gioioso che ad Apice bella e ridente cittadina delle colline verdi di Benevento abbiamo impiantato in una serata dal tramonto luminoso e terso di fine agosto.


I Clowns ,il filosofo, la Sindaca e gli assessori....

Il Clown Nanosecondo,……, il “filosofo” presidente onorario, (a volte anche un pò Angelo custode Mercurzio) e poi, il Sindaco ...anzi Sindaca, l’Assessore, il Medico dell’emergenza e quello che si prende cura in ospedale di noi tutti quando ne abbiamo bisogno ……. e poi c'era Mecala, Carmella, Ndruccio, Supply, Bette, Trombele, Scimmietta tutti clown "dottori che si prendono cura, ma soprattutto tante belle facce sorridenti e aperte di bambini e adulti aperti al gioco, alla bellezza e alla leggerezza del vivere nello spirito del “clown” in un cerchio finale di giochi dove come tante gocce d’acqua tutti hanno brillato in trasparenza, conservando ognuno dentro di sé con riserbo e generosità per il giorno dopo un pizzico di nostalgia.Una serata miliare, educativa e fondativa per la nostra giovane associazione. Un nuovo appuntamento è già in programma ad Apice per il 14 settembre sempre alle ore 20,00 in piazza Papa Giovanni XXIII, per raccontare una nuova storia.


Prof. Mauro Orlando
Presidente Onorario Comunità RNCD

giovedì 2 settembre 2010

Elisir d'amore per ......LA COMUNITA' PROVVISORIA

"....solo questo possiamo dirvi ....ciò che non siamo e ciò che non vogliamo" Montale



I toni e lo stile di alcuni interventi sulla stampa locale che si dilettano a dipingere in modo caricaturale o distorta “ad usum Delphini” l’esperienza originale della “comunità provvisoria” anche nella consapevolezza che fa parte del gioco ‘politico-culturale’ richiedono l’urgenza e la necessita di una ulteriore precisazione non solo per misurare le nostre capacità o ingenuità comunicative ma sopratutto per non ricadere ancora una volta nel clichè della inveterata pigrizia e malevolenza così connaturata al nostro “carattere irpino”. La nostra esperienza comunitaria è talmente bella nella sua originalità e autenticità e pericolosa per tutti i poteri consolidati ‘vecchi e nuovi’,individuali e sociali, che intellettualmente ci obbliga a ricorrere al consiglio del grande ‘Niccolò’ : essere forti come leoni e accorti come le volpi e …..diffidenti e discriminatori come i lupi! Noi siamo consapevoli che quando progettiamo un parco libero e sociale e non costruiamo ‘polis’ perfette con mura ostili e leggi fredde per esercitare il ‘polemos’ delle diversità, quando rincorriamo culturalmente ancora Orazio nel suo viaggio da Roma a Brindisi sui reperti della via appia o dei tratturi della transumanza umana e animale naturaliter mobile e non stanziale , quando cerchiamo di ingabbiare nel ‘logos’ della filosofia le intuizioni poetiche della “paesologia”, quando mettiamo in opera un diverso modo di praticare e rioganizzare il turismo e il tempo libero e lento nella nostra bella,sana ,pulita e verde terra, quando denuciamo e pensiamo ad una analisi e programmazione del territorio per l’uomo e non solo dall’uomo, qaundo inseguiamo un origianle ed efficiente modo di praticare l’architettura ,i mestieri e le professioni nella cosidetta Irpinia d’oriente prima e dopo i terremoti o le catastrofi naturali , quando andiamo dietro alle parole e ai suoni dei poeti folli nella sostanza dei sogni e delle profezie come bambini ingenui dietro agli eterni aquiloni della vita ……sempre pensiamo ed agiamo nella ricchezza e nella difesa della individualità ma nell’rizzonte e nella prospettiva comunitaria….anche se provvisoria per disamore degli steccati e delle chiusure di ogni tipo. Ancora quindi una sollecitazione per precisare “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”. Il terreno e gli argomenti li scegliamo noi unici titolari di una corretta e veritiera ermeneutica. Gli stili e gli umori e le miserie personali interessano poco perché legittimi sempre anche se mediocri e malevoli. Interessa la sostanza degli interventi soprattutto come precauzione metodologica alla rigidità,alla pesantezza,alla durezza di un dialogo vecchio ed abusato tra ‘intellettuali di provincia” ,“sordo e cieco” tra le rassicuranti coppie vero-falso, arcaico-moderno,vecchio-nuovo e quant’altro .A fatica stiamo rappresentando uno spazio e una occasione di libertà e di democrazia ai margini e alla periferia dei poteri che cerca di agire come dissolvente delle fissità e delle rigidità.

Con lo scopo di fluidificare i rapporti tra i soggetti senza necessariamente ridefinirli in uno spazio rappresentativo e generale mitico o ideale mai ideologicamente identitario e discriminatorio o xenofobo. Consosciamo bene la “tragica storia” del Novecento e anche “la ridicola farsa” della recente storia politica italiana! Siamo convinti con modestia che l’intelletto sia sempre in ritardo sulla vita da vivere e raccontare. La frammentazione, il dis-ordine, l’antagonismo,il dialogo,il conflitto che quest’ultima esprime può essere ordinato, pensato, solo in forma metonimica, mai prescrittiva e assoluta. La stessa necessità del richiamo a un passato, una cultura, un territorio specifico (Irpinia d’oriente) può essere revocata o evocata muovendo dal presupposto che la serie dei possibili viene orientata e «chiusa» solo a partire dal presente (sempre momentaneo e casuale) che lo cristallizza in propria premessa metodologica mai mitica,etnica,reazionaria Il contrasto, il conflitto – in tutta la vasta gamma della loro fenomenologia di passioni apparentemente dissociative (dalla gelosia all’antipatia, dalla concorrenza alla lotta, dall’odio privato all’antagonismo politico) – devono esprimere e rappresentare la correlazione energetica tra istanze dissociative ed istanze associative che ognuno di noi porta dentro il suo dna e le sue ‘accumulazioni culturali’. Il perseguimento di scopi soggettivi non è opposto alla realizzazione di effetti generali ed oggettivi ,comunitari, per il semplice fatto che l’oggettività è sempre un effetto di condensazione del soggettivo. Non cerchiamo di irrigidire in istituzioni o ‘stati’ anche solo mentali attraverso un apparente concretizzazione o formalizzazione dello stato di natura immaginato da Hobbes, essa non richiede alcuna istituzione esteriore che ne neutralizzi gli effetti dirompenti,liberi e conflittuali ma rappresenta di per sé stessa un intreccio di incontri,umori, concetti, opinioni, idee per cui i concorrenti in lotta tra loro sono obbligati a focalizzarsi sul volere, sul sentire e sul pensare di altri uomini, piuttosto che al suo ombelico psicologico o culturale come abituato chi confonde la sua “intellettualità” con la verità .Noi siamo sempre convinti che il conflitto (polemos)è cifra dell’intensità dell’unità della relazione sociale e culturale che non si irrigidisce nella “polis” ideale o concreta. Tanto più ricca, fluida e conflittuale la vita che lavora dall’interno le sintesi formali come “la comunità provvisora “ o altre esperienze sociali e culturali, tanto più alta la possibilità che la loro produzione mantenga inalterata la struttura temporale e provvisoria che le caratterizza dall’interno e che il sistema generale dei rapporti individuali , sociali, politici e culturali per così dire, evolva in fluidità e leggerezza. Nessuna «unità superiore» o “presunzione di primazia” può essere pensata (o concedersi all’immaginazione di essere) definitiva, Il presente, per così dire, non è mai perfettamente contemporaneo a sé stesso. E questo significa che ogni equilibrio è fluido e ogni sintesi aperta. Rispetto a ciò che è, a ciò che è stato, e a ciò che sarà. Un conflitto che impone il confronto ai poteri politici e personali quando si irrigidiscono e si solidificano in arbitrio o presunzione. Uno confronto-conflitto neanche come esercizio retorico, di esodo , estetico ,narcisistico e autoreferenziale che non precede o persegue la sua neutralizzazione, ma che deve essere letto come l’asse principale di temporalizzazione di ogni formalizzazione provvisoria del legame tra gli uomini. Non un “itinerario turistico o folcloristico”, “contrabbando della verità” ecc.ecc. ma neanche “presunzione di verità” ,riproposizione di comode,ingessate e vecchie forme di conflitto e un richiamo solo formale alla consapevolezza e alla libertà sempre e solo propria e non degli altri. Questa è l’aspetto radicale e provvisorio che si cerca di vivere e pensare nella Comunità provvisoria e su questa sfida cognitiva e politica assieme che ameremmo confrontarci per il futuro. “Hic Rhodus,hic salta” Il resto è già stato consumato anche con notevoli qualità nella lunga storia culturale della nostra prodiga terra,non ci intriga e ….un po’ ci annoia.



mauro orlando