mercoledì 30 luglio 2014

oggi mi sento un lupo in gabbia


oggi mi sento un lupo in gabbia......

 "Sono nato nella bocca di un lupo, un lupo sperduto in un’altura senza boschi, era febbraio del sessanta, c’erano nel paese una decina di macchine e un migliaio di muli, le rondini muovevano il cielo, i porci tenevano ferma la terra, camminavano i giorni verso il futuro. Poi tutto si è fermato, siamo entrati nel mondo, i vecchi sulle panchine hanno preso la via del cimitero, il cimitero ha preso la via delle case. È andata così, più o meno, il tempo alla lunga si rivela la forma tranquilla del veleno." franco arminio 

 ....ma è mai possibile che da una bocca di lupo possa nascere un tranquillo e domestico cane “ triste ,solitario y final” , randagio di riporto o di testimonianza ,nel silenzio di “un piccolo paese” dimenticato e sperduto o tra le macerie di un Nord affluente e disamorato in una crisi perenne. Ho letto la bella storia di un lupo che ha disegnato una arteria naturale e ininterrotta che unisce gli appennini alle alpi, tra foreste,crinali ad alta quota, vallate , partendo da i monti Sibillini , beneficiando di fatto del progressivo spopolamento ed abbadono di interi territori appenninici e alpini con l’unico senso solo di indicare o ricordare all’homo erectus “una via naturale e possibile di vita “. Anche la “paesologia “ potrebbe essere o indicare “questa via” percettiva o conoscitiva che ognuno deve riimparare a disegnare per sé e per gli altri “la cicogna” di karen blixen. Il lupo è un animale molto umano. Non ama la debolezza ,preferisce l’astuzia e la leggerezza de “ la mètis”…greca, non nell’accezione della furbizia e superficialità della modernità condannata allo sviluppo a tutti i costi . Prova speranza ,paura ,orgoglio, disgusto,rabbia. Il lupo con le sue azioni tra fughe e ritorni ci mostra e offre descrizioni e racconti del suo mondo interiore comunque di ‘sé’. Normalmente non può parlare parole umane ma, quando naturalmente ne possiede le doti, riesce a proiettare sé stesso e a dare voce alle creature che appaiono sulla sua scena tra i silenzi dei suoi territori e paesi abbandonati dagli uomini e dalle idee. Nelle “alture senza boschi” ha Imparato in solitario o in branco sin da cucciolo il senso di una comunità di riferimento e di vita , come la radice più profonda di un albero sente un passero posarsi sopra il ramo più alto…..Si sente da sempre un essere diverso dalle altre cose viventi, diverso dagli alberi e dalla neve, più simile al fuoco, più simile all’autunno che all’estate…..Impara a parte in solitaria a decifrare e gustare il silenzio dei boschi e delle macchie … a sentire oltre alla falcata pesante o felpate delle sue prede anche il ritmo del loro cuore e del fiato….. a misurare la loro paura mista a rancore , invidia, accidia …… si abitua ad essere il lupo , quello che strappa e sconvolge la tranquillità della vita degli per amore e altruismo non per aggressività o piacere , non ama essere definito il predatore del quieto e impaurito vivere ma gli piace non “mota quaetare … ma …quaeta movere”.E’ sempre diretto e onesto …attacca tenendo gli occhi aperti…Sa e vuole essere …. l’ombra che porta la luce della morte, la vita che dona la libertà ai paurosi,pavidi…. braccando le mandrie mansuete e gregarie ,mettendo fine alle sofferenze dei deboli…… se indifesi e abbandonati. Ama confronti aperti, espliciti ….equilibrati e dignitosi. Ha imparato dai vecchi solitari e muti padroni delle panchine a saper ascoltare i passi amici, addolorati, innamorati dei passanti o il suono impercettibile che affiora dal silenzio, un ramo che scricchiola, mentre cade sulla neve con un tonfo distante , calcolare il tempo e il suono , il verso di un eccello o il fruscio delle ali all’altezza delle orecchie,il soffio appesantito di un cane invecchiato , il grattare di un insetto dal profondo di un albero morto. Rumori, suoni ,parole che sente solo quando non gli occorre sentirli, come se sapesse che possono farsi sentire proprio perché non li ascolto…che non lo distraggono dall’ azione delicata e vitale…. solo un essere vivente,naturale , vivo e sveglio che sente ,fiuta e percepisce gli altri uomini tristi, felici, preoccupati o persi…. con compassione e timore mentre sa che gli alberi non lo sono e non li sentono……ma li subiscono… Non può vivere addomesticato e tranquillo “l’inverno in una stanza vuota e senza connessione”.La sua natura è libera e ferina , rispettosa e memore dell’equilibrio perduto e oltraggiato dal resto degli esseri umani : e’ un essere autenticamente democratico e sbagliano i più forti e potenti o amici affaticati nella “bella famiglia d’animali” ….è credere di poterlo scoraggiare mostrandosi agguerriti e decisi a scacciarlo o annientarlo o relegarlo … a vivere l’inverno in una stanza vuota e senza connessione”. O in un definitivo e civile “cimitero d’altura”. La aggressività ,malevolenza , accidia o malvagità non fa che accrescere la sua fame o voglia di combatterli e anche di abbatterli….E anche quando sembra sconfitto, scoraggiato e amareggiato …… non si rifugia nella fredda ma accomodante per affetti “casa d’inverno” ma …. in cuor suo , per natura, si predispone ad esercitare ad impararare a simulare negli occhi della maschera lo spettro e la paura della momentanea sconfitta o di “un buen retiro” per riprendere il suo ruolo individualmente ferino di portavoce poetico dell’ equilibrio mobile … del ‘de rerum natura’ e della riscossa degli abbandonati ,terremotati e maltrattati negli zsunami e sulle macerie della modernità delle élites finanziarie ed economiche e di tutti loro lacchè, nani e ballerine . mercuzio

domenica 13 luglio 2014

DUE LETTERE SULLA PAESOLOGIA.

 

  DUE LETTERE SULLA PAESOLOGIA.


 1. La paesologia è una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda. Ci vuole un’idea di sé scucita dagli abitini classici e rassicuranti dell’ego cartesiano. Noi siamo materia esposta alle intemperie esattamente come un albero, come una casa cantoniera. Non siamo una fortezza da cui spiare l’infantile disastro del mondo. Un amico architetto mi diceva che lui vorrebbe qualificarsi come paesologo. Mi diceva che l’ottica paesologica contiene in sé tutto quello che lui fa e non gli dà molto piacere definirsi architetto. È lo stesso motivo per cui non mi sento a mio agio a sentirmi definire scrittore o anche poeta. Mi sembrano parole che parlano di esperienze troppo diverse. Con la paesologia io me ne vado da un’altra parte, definisco un territorio fatto di volpi e di poiane, di lampioni rotti, di cani randagi, di gatti, di vecchi sulle panchine, di vecchine che girano per strada con una busta in mano. Questo territorio è la goccia di sangue sotto il vetrino. Ma non c’è bisogno di microscopio. La vista è dilatata dall’ansia, dal tremore di stare nel cratere del proprio corpo, un cratere che trema, trema da sempre. La paesologia non è una nuova scienza umana, è una forma d’attenzione verso il fuori, attenzione intensa perché provvisoria, perché il paesologo parte dagli abissi del suo corpo e ci torna continuamente. Il suo guardare è un tentativo perenne di venire al mondo che pare non riesca mai a compiersi del tutto. Ma proprio qui si avverte la grazia, il vorticare confuso delle cose che stanno fuori, la distesa immensa delle creature deposte nel lieto inferno della terra tonda. Per me oggi non ha senso essere scrittori, sociologi, architetti. Forse non ha senso neppure definirsi umani. Siamo chiamati ad ascoltare l’aria e l’aria ci dice che i nostri saperi sono chiodi di gesso a cui non possiamo appendere niente. La paesologia è una disciplina inerme, ma non arresa. Non partecipa alle marcette e alla marchette accademiche. Allinea dettagli, avanza, indietreggia, inciampa e forse è con questo inciampare che riesce a essere più dentro, più vicina alle cose. Il paesologo non ha in programma la salvezza dei paesi, non tutela i campanili, i dialetti, le manfrine del rancore, la fregola delle confidenze e dello stare vicini. A volte combatte, s’indigna, chiede tutela per gli esseri e le cose che stanno in alto, lontane dai vaneggiamenti delle pianure, ma questo filo di ardore subito s’intreccia al filo della mestizia. Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore. La paesologia non dà ricette per curare, ma si prende cura di guardare, di aggirarsi senza meta, di indugiare o anche di andare via alla svelta. Non ci sono regole, questionari da riempire, non c’è un formulario da approntare. Si esce per poche ore oltre la prigione domestica, oltre la prigione della propria professione, si va nei luoghi più nascosti e affranti e sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare. Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere fra cento anni. Fra un secolo i paesi avranno una piega più chiara, saranno morti o saranno vivi e vegeti e allora non avranno più questo crepuscolo che li rende così particolari. Si è aperta una piccola finestra e da questa finestra il paese ci fa vedere il delirio e la gloria di stare al mondo. Andate nei paesi allora, andate dove non c’è nessuno in giro. Abbiate cura di credere alla bellezza sprecata del paesaggio, portate il vostro fiato alle sperdute fontanelle del respiro. 2. Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro. Sono infinitamente stupidi i cittadini che quando arrivano in un paese fanno sempre la solita domanda: ma qui di cosa si vive? È la domanda di chi pensa di essere in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla conquista di chissà che. Il paese, se accogli la sua lingua, ti dice che sei un cane, che devi dismettere l’arroganza di chi pensa di essere il padrone della terra. Il paese è una creatura che sgretola qualunque narcisismo, per questo le vetrine sono sempre un po’ fuori posto (il paese è una creatura intimamente puberale e se gli metti il doppiopetto diventa ridicolo). L’uomo che va in giro per i paesi, il paesologo, in realtà è un cane, ha il punto di vista del cane. La sua è una scrittura sgretolata, ha la postura accasciata di chi è stato colpito da un male fraternamente incurabile e non può che congedarsi dalla letteratura come prova titanica di un autore che pretende di spiegare il mondo. Non ci si arrende solo rispetto all’idea di inseguire il mito dello sviluppo, ci si arrende all’idea di essere qualcosa o qualcuno. Per uscire dall’autismo corale ci vogliono posture nuove. È tempo di tornare a una fisiologia meno velleitaria, a un quieto vagabondare nel mondo che gira, nell’aria che non sta mai ferma, nella polvere in cui luccichiamo ad occhi aperti insieme al sole e alle stelle. Franco Arminio

una mesta rinuncia a Aliano....


una mesta rinuncia ad Aliano...... 

 “Il corpo di Bob Bridge lo ha accompagnato per ottantasette anni. Non per molto ancora. Il tempo consumato è il corpo di Bob. Tutti i suoi organi sono in declino. I nostri corpi si sono evoluti in modo da durare solo il tempo necessario a trasmettere i nostri geni alle generazioni successive. Dopo esserci riprodotti e aver cresciuto i nostri figli, non siamo più necessari. Bob ha svolto già da tempo il suo compito biologico. Vive di tempo preso in prestito”.…Il corpo è ciò che ci pone in contatto con il mondo. L’uomo non ha un corpo, ma è un corpo…e allora corpo ed anima non sono separati. Pure ammettendo che tale separazione ci sia, il corpo può fungere da veicolo per la crescita e per la grandezza dell’anima. Come Zarathustra allo specchio sconvolto un mattino vide”il ghigno deforme di un demonio….e pensò che ancora “l’erba maligna vuole passare per grano” e che anche gli amici possono andare smarriti….trascinati dai nemici ,è necessario”ridiscendere dagli amici e dai nemici”…anche a costo …..“di nuovo parlare e fare doni “e dare il meglio di ciò che trabocca dal cuore e dall’anima e scendere ancora a valle tra “le tempeste del dolore” e donare ciò che si era succhiato leggero sino in fondo sul ventilato,solcato. silenzioso e magico di Aliano. Certo anche dentro di noi intravedo insidioso e accattivante” il lago solitario che basta a se stesso” ma tutti quelli che continuano a viverlo “hanno bevuto profondamente alle fonti alpestri” non solo a conforto del ” nostro cuore esule” ma per alimentare un torrente d’amore e farlo scorrere con naturalezza verso il mare del sogno, della speranza e del futuro. “O voce di colui che primamente conobbe il tremolar de la marina!” Ad Aliano si respira la storia minima e provvisoria di anime consumate e solitarie e si cammina i sempre nuovi sentieri ininterrotti per imparare, come in una pedagogia permanente,ad usare “le radure e i segnavie” e anche le vecchie, logore e abusate parole ,ma per discorsi nuovi....diversi e sempre uguali e la voglia di vivere e raccontare vite provvisorie e rinnovate di creatori e non di spettatori,gregari e ripetitori.Stanchi e annoiati della vecchia lingua impastata di buoni propositi per i vecchi discorsi della poetica,della politica ,della filosofia e della teologia.Gli spiriti che vi circolano "dal desio chiamati" sono incamminati sui sentieri liberi e ventilati tra i rugosi calanchi come deltaplani policromi o aquiloni che cercano le mani dei bambini per essere guidati.Ma non solo e sempre per volare con le ali come aquile solitarie….. e vogliono incedere come uomini anche con le vecchie scarpe ma per tracciare nuovi cammini e storie vere con la mente semplice e leggera di un bambino…………. ed io ....inviso agli dei e amato dagli uomini,sognerò tutto questo tra le "paesane ,sudate e affollate banacarelle" del "Festone" del mio "borgo natio"......Grottaminarda....Irpinia d'occidente. 

mercuzio

venerdì 11 luglio 2014

..lontano da Aliano


…con la coda dell’occhio del paesologo…..assente da Aliano
Pensando da lontano alle giornate di Aliano e  per caricarmi di ottimismo intelligente e visionario e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio  testo  di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa. Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili  categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione  del ruolo del maestro-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot  descrive  in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura  (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica  consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il maestro-paesologo  di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mercuzio


..lontano da Aliano


…con la coda dell’occhio del paesologo…..assente da Aliano
Pensando da lontano alle giornate di Aliano e  per caricarmi di ottimismo intelligente e visionario e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei innumerevoli libri amati un vecchio  testo  di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa. Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili  categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione  del ruolo del maestro-paesologo nel confronto con i tanti possibili ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni. Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi.” Diderot  descrive  in questa parabola classica il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la pittura  (immaginazione) e il teatro ( impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica  consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il maestro-paesologo  di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mercuzio


domande senza risposte......




una brezza salvifica e fresca
asciuga gli umori neri
e i sudori acidi
di un indesiderato scirocco 
di testa e di stagione
che riapre le finestre aperte
della monade leibniziana....
contra la spinoziana sicumera
dell' Uno-Tutto
contrario
agli "spritz" mentali e percettivi
di un pensiero
che ha rotto
l'orologio del tempo frenetico
della modernità incivile
padrona e senza dramma
cieca e muta....
per una inoperosa vita
scandita dal pendolo pigro
del tempo immobile
segnato dai battiti del cuore. ...
nel perenne turismo dell' anima
antica 
che sonnecchia 
tra le crepe e le caverne platoniche
mai abbandonate....
per paura di riveder le stelle
e l'accecante sole.....
dalla terrazza degli orizzonti perduti
del vociare infantile
e lo stimolo curioso per sensi assopiti
rifugio di pensieri inattuali
presso il Lido Santamaria. ....
e una panchina viva
con il saggio Costabile
"voito " di una inoperosa libertà.
mercuzio..

vacanze e......paesologia


Vacanze e paesologia

 Lessicalmente e culturalmente antinomiche queste "categorie. ..non dello Spirito assoluto hegheliano" ma del " tempo immobile paesologico e provvisorio dentro di noi". ..ci permettono tuttavia di fare il punto sul tema centrale del nostro vivere oggi con autenicita' e consapevolezza le esperienze esistenziali , culturali e politiche che vogliono andare oltre le abitudini e gli stili di vita...miti e icone della imposta "modernità incivile"....e nella trasfigurazione dell'immaginario e del politico nell'irrisolto postmoderno. Il problema è culturale, giuridico, politico e esistenziale assieme. Ripropone , in tempi di crisi strutturali e globali del nostro pensiero occidentale tout court , il tema costituente del "nomos della terra"...oggi. Una sorta di ritorno alla "razionalità della natura" che superi d'amblai la satrapia autoritaria del moderno "cogito cartesiano" o dei kantiani "tribunali della ragion pura. ..pratica o del giudizio" nella centralità universale e necessaria dello "io penso". Abbiamo necessita' di riappropriarci di un " giusnaturalismo terraneo" che vede la centralità della terra nel nostro pensiero, sentimento, passione .... azione nella sua accezione più ampia di quella legata alla ottocentesca proprietà privata o pubblica o comune in rapporto al lavoro o alla fatica. Le carte costituzionali contemporanee hanno riproposto e introdotto i "diritti della Natura".....definendo il " buon vivere" come un necessario e possibile ordinamento pubblico economico attraverso il quale promuovere anche lo sviluppo insieme al progresso. L'essere umano e la terra sono "consustanziali".La terra ridiventa la madre del diritto. ..della politica...della cultura.....della vita in ultima e prima analisi. È da questa interpretazione e visione , e non viceversa, che si può parlare di "libertà" e patto sociale. ...solidarietà. ..bene comune.Lo Stato di fatto assume un ruolo non solo di "persona giuridica astratta"...lontano o diverso o nemico del cittadino. ... ma si fa "universalità concreta" dove l'essere umano dismette i panni esclusivi dell' homo aeconomicus" per ritornare ad essere " zoon politikon. ...e curatore e amministratore del bene comune in tutte le sue articolazioni. 
mercuzio