…con la coda dell’occhio del paesologo…..assente da Aliano
Pensando da lontano alle giornate di Aliano e per caricarmi di ottimismo intelligente e
visionario e esorcizzare la volontà pessimista prendo in mano dai miei
innumerevoli libri amati un vecchio testo
di Diderot. Immaginando di aver sognato di essere in un antro come
quello descritto da Platone, Diderot scrive:«Mi parve di essere chiuso nel
luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in
mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi
e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno
così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la
maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di
essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello
era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un
qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e
della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si
allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e
quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai
l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo
tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto
guardare il fondo tappezzato da una tela immensa. Alle nostre spalle c’erano
re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi,
ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei
mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine
trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte
queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e
talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le
scene comiche, tragiche e farsesche della vita. Come poi vidi, questi
ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di
loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro
figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi
per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per
formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano
per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime
[…]» (D. Diderot, L’antro di
Platone).La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva
scritto in Repubblica,
è il riferimento esplicito e dettagliato alle tante possibili categorie di «facitori di stupefacenti
illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione
del ruolo del maestro-paesologo nel confronto con i tanti possibili
ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e
proiettando le loro rappresentazioni.
Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che
tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in
tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi
ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei
ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e
terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i
ceppi.” Diderot descrive in questa parabola classica il passaggio dal
mondo della quotidianità al mondo del pensare e agire in pubblico, dove più
fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in
relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi. Ciò che più fa
pensare è cosa significhi essere
spettatori non «dominati dalla rappresentazione» o dalle
immaginazioni che non tengono conto del principio di realtà assieme: la
pittura (immaginazione) e il teatro (
impegno pubblico o politico) avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio
paragonabile a quello del sogno ma che non coincide col sogno. Perché l’unità
di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto
paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è
condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione
per poter esercitare la critica
consapevole e attiva, che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende
l’incredulità.«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di
qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della
rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento,
nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il maestro-paesologo di Platone si incontra con quei filosofi di
cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta.
mercuzio
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