POLITE'IA-TEKNE ' POLITIKE'

Non sempre il  metafisico è anche politico (quando
«politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio,
alla maniera dei giuristi e degli ideologi)La teologia  è più consustanziale  alla politica nella sostanza, nel metodo ma
soprattutto nel linguaggio .E’ politico 
porsi il problema   de La
comunità che viene.In questo testo molto utile  per sfrondare 
o sondare dal di dentro la parola “comunità” che ci cammina accanto e a
volte si attarda nel passato e a volte 
corre innanzi al nostro itinerario paesologico. Agamben  il problema 
ce lo pone  ma  in senso inverso, rovesciato. Il problema
è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente, non
 una  ricerca non si conclude  né una  costruzione di una comunità possibile né la
definizione di una potenza o come possibilità 
del pensare, sentire, percepire,vivere ed agire  umano. Si può accettare come  “possibilità esistenziale” come prospettiva…..dove
 la felicità ( eudaimonia …ordine nei
demoni interiori) consisterebbe nella singolare contemplazione di una
«forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella
disattivazione della loro separazione, imposta dal dominio politico e
tecnico. Nella «forma di vita» così definita, la potenza si presenta come uso
inoperoso; la «nuda vita» non sarebbe allora più isolabile da parte del
potere; qui invece starebbe il principio del comune: «comunità e potenza
si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario
in ogni potenza è funzione del carattere necessariamente potenziale
di ogni comunità». Solo allora avremmo di nuovo una politica della felicità.
E qui comincia il difficile: quel «solo allora», quel futuro… Se tutto
ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana
teleologia, questo percorso: una forma di vita che è anche una forma
di speranza?Ma noi  abbiamo coltivato dubbi
e sospetti verso le teleologie anche 
profane e umane troppo umane . Comunque Agamben  ci toglie qualsiasi imbarazzo di metodo e di
merito al riguardo e ci svezza  e
immunizza da ogni illusione dichiarando il tema «né un nuovo inizio né una
conclusione», la teoria «sgombera solo il campo dagli errori»,
e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teoria apre alla pratica. Se
le cose stanno così, occorrerà in primo luogo fissare uno strumento,
costruire un punto di vista che insegua quell’orizzonte non ancora finito.
Come dare futuro alla forma di vita e potenza all’inoperosità: alla
«potenza destituente»?Come evitare  il
vizio assurdo del pensiero cartesiano e moderno 
delle “potenze costituente” che ci fa diffidare  anche 
di una “casa” come demoniaca sfida alla stanzialità, routine, universalità,
etiche, politiche del “nomos e del logos” sotto mentite spoglie.  C’è un invito a ritornare  un momento indietro. Si sa che nella nuda
vita risiede la condizione dell’esercizio del potere. È nell’eccezione
che l’homo sacer è incluso/escluso
dalla città ed è sull’eccezionalità che il potere si fonda. Lo snodo
teorico-pratico  è “lo stato d’eccezione”
Su questo snodo, tuttavia, l’insistenza deve essere chiara e  estrema. Come uscire da questa condizione? Ne
“La comunità che viene nel
’90 ci mostrava il negativo, la mancanza, riscoperti e coperti dal desiderio
– oggi invece vi è solo potenza destituente, la convinzione che non vi
sia alternativa alla fuga nel confronto con il potere. Il potere è dominio.
Esso non ha interna dinamica né relazione, sostiene Agamben. Nessun movimento:
quindi, per esempio, ogni potere costituente non è eterogeneo ma consustanziale
al potere costituito; ed ogni arché è insieme
origine e dominio, sorgente e ordine – quindi questi rapporti
vanno in ogni caso disinnescati perché in quella prospettiva l’archeologia
filosofica può solo raggiungere un punto di origine ambiguo, e si
tratta, secondo Agamben, di disattivare questa origine. La sua disattivazione
è l’inoperosità. Resta il problema: e se invece il rapporto archetipo,
origine-comando, fosse solo modello di mistificazione, di legittimazione
di un potere sovrano? È a questa questione che deve rispondere il filosofo
politico: che fare? Come aprire la temporalità? Agamben si era a questo
scopo in passato affidato a Heidegger – ora non più……e ci lascia un
grande compito  non nella ontologia  ma nelle esistenza “nuda e cruda” in
comunione con l’altro  evitando la
salvezza  della “immunizzazione”e
“distinzio” dall’altro che si fa politico politicante .
mercuzio
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
