domenica 21 agosto 2011

Elisir d'amore per .......un nihilismo dolce ed attivo....

NIHILISMO.......




........Quale espressione di tentativi artistici,letterari e filosofici volti a sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze ,esso ha portato in superficie il malessere profondo che fende come una crepa l’autocomprensione del nostro tempo. “ il più inquietante tra tutti gli ospiti”




...................................................i "labirinti policromi" della mia nipotina Valentina

Odissea in fondo al pozzo
di franco arminio

Forse i paesi non c’entrano niente. Forse non ci sono mai stato, non andrò mai da nessuna parte veramente. Sento che il punto della testa che mi duole è il punto verso cui premo per uscire. Dalla bocca esce fiato, dal culo esce la merda. Quello che serve è bucare il cranio, uscire fuori da sé come un filo d’erba spunta dall’asfalto. Ho sempre vagheggiato di vivere con persone che non si accontentano della realtà, persone che pensano al mondo. Ieri ho scritto questi versi: Anche oggi niente felicità / e soffro perché non mi rassegno / alla realtà, sono continuamente / proteso a rovesciarla. / Invece il mondo mi va bene, / trovo che sia meraviglioso. / Niente da eccepire / a parte la regola troppo stretta / del nascere e morire.
Questa poesia oggi non mi serve a niente. Sento che la faccenda non è questa. È dentro la creatura che preme adesso sotto il lato sinistro del mio cranio. Non è questione di trovare le parole, è di trovare il buco, bucare l’osso e uscire, scappare fuori dalla vita e dunque anche fuori dalla morte. Scappare o non entrarvi mai. In ogni caso io adesso sono pura insofferenza per il fatto che non so godermi niente, a parte la mia insofferenza.
La paesologia non è una cosa che riguarda solo il fuori, la paesologia riguarda quello che sta sopra l’osso e quello che sta sotto. Io sono la punta di me stesso che scrive per bucare, per sporgersi altrove. La vita è essenzialmente una trivella. Vivere è provare a fare un foro. Provare a passare da un’altra parte perché in qualunque posto ci troviamo siamo sempre nel posto sbagliato, sia esso un paese o una città. E dobbiamo essere sempre disposti a buttare a mare il gingillo retorico con cui andiamo avanti. Può essere la rassegnazione o la lotta, può essere fare il bene o fare il male. Noi non siamo reperibili da nessuno e non siamo reperibili prima di tutto da noi stessi. I pensieri e le parole con cui arrediamo la nostra vita possono avere la massima precisione, comunque il bersaglio non viene mai centrato. Forse solo la morte coglie nel segno, nel senso che lo interrompe. Solo allora smettiamo di proliferare sogni e scuse, gesti di clemenza e di arroganza, allora siamo ridotti al niente che ci costituisce.
Quello che possiamo dire veramente è che siamo qua e che sembriamo essere qualcosa, appariamo a noi stessi e agli altri. La paesologia è fondata su un’inquietudine radicale, è un’Odissea in fondo al pozzo. Non vi riguarda, non mi riguarda veramente. Ed è questa la sua forza.


sabato 20 agosto 2011

Elisir d'amore per ......i parlamenti comunitari

" Ho scoperto che la terra è fragile,e il mare leggero: ho imparato che lingua e metafora non bastano più a dare luogo aun luogo" M. Darwish








di mauro orlando

parlamenti comunitari.....

Quante scene simili abbiamo vissuto in questi due anni: uomini e donne riuniti sotto un tiglio,tra i reperti di un castello restaurato, per le vie di borghi abbandonati, in luoghi solitari “musei dell’aria….della luce ,del silenzio e quant’altro,nelle abazie della sacralità e del buon recupero…. e qualcuno che racconta .Non si sa se sia una assemblea di un popolo , di una orda , di una tribu.Ma tutti ascoltano con silenzioso coinvolgimento il medesimo racconto e lo sentono e fanno proprio senza difficoltà.Non importa sapere se colui che racconta sia uno straniero o uno di loro ma si sentiva che è investito da un diritto-dovere di raccontare delle proprie radici,della propria terra , di sé stesso,del proprio pensiero ,lavoro,sentimento ….sogno anche per conto nostro. Non costituivano una comunità prima del racconto…. è la narrazione che li riunisce e li unisce.Prima erano separati da vite diverse, vocabolari diversi, diverse esperienze culturali professionali…questo il racconto talvolta narra e mette a confronto.Si stava seduti a fianco .si coopera vasi passeggiava assieme in silenzio,si mangiava assieme , ci si ‘annusava’ e si affrontava nelle discussioni senza la necessità di riconoscersi. Ma un giorno ,a caso un poeta….un pazzo,un sognatore pratico, un clown, un viaggiatore della malinconia e del silenzio o che so io ha incominciato a raccontarci un suo sogno di una terra comune e delle sue origini,dei suoi uomini e delle sue donne con intransigente amore ma anche rabbia. Facendo nomi e cognomi .Ci ha parlato dei loro difetti legati al riscatto attraverso il potere e delle loro semplici bellezze nei rapporti affettivi ed umani. E ci raccontava della sua esigenza di costituire assemblee o parlamenti comunitari o Comunità provvisorie e della necessita di nuovi racconti nel rispetto dei vecchi dei nuovi aggettivi da aggiungere a l sostantivo “Comunità”. Nessuno ha chiesto al narratore chi gli ha raccontato questo sogno e come e perchè egli ha il dono ,il diritto o il dovere di raccontarlo. Si sente in modo naturale ed immediato che la sua lingua e il suo racconto servono a metter insieme dei “diversi” e a fare di questo un racconto mai compiuto ma sempre da scrivere .Che la lingua non è dello scambio ma di un qualcosa di sacro e di una sorta di giuramento che si ripete nel tempo ogni qualvolta che uomini di diverse esperienze ma di comune sensibilità si ritrovano su un territorio o una ‘pòlis’ intorno a un fuoco acceso o una tavola imbandita , in un viaggio reale o immaginifico ad ascoltare mai appagati un poeta o un aedo che canta o racconta le gesta, i sentimenti, le idee, i sogni per costruire e pensare nuove esperienze che possono crescere senza la necessità di celebrare sacrifici a qualsivoglia autorità divina o umana. Il racconto spesso è crudele,spietato,a volte fa ridere o sorridere .Ognuno si sente coinvolto e sente che si parla anche di sé ,del suo passato ma soprattutto del possibile senso del proprio futuro immediato e prossimo.Sentiamo che le nostre credenze,le nostre poesie, i nostri sogni , i nostri saperi vengono da questo racconto che è ‘mito’,simbolo,invenzione, narrazione,trasmissione ……vita a patto che non ci faccia più vivere con lo sguardo rivolto al passato ma nemmeno a un futuro troppo lontano.Ad ascoltare e raccontare ci sono persone vecchie e nuove ma sempre gravide di sogni,speranze,utopie per le terre che abitano e amano.Oggi sentiamo che i nostri racconti si stavano ingrigendo non per mancanza di argomenti e differenze ma reclamando una loro praticabilità (i pragmata dei greci) , ma perché non si sentono sufficientemente coinvolti e ispirati dallo spirito dell “inizio” com’è nella natura degli uomini e delle cose di questo mondo.Sentiamo la necessità e l’urgenza di riaprire una fase costituente compassionevole e generosa per uno “stato nascente” in cui ognuno di noi si sente responsabilmente e liberamente coinvolto ,consapevole e geloso delle proprie idee ,aspettive ,sentimenti,passioni e progetti ma in un sentire plurale ma comune non con l e spalle rivolte al passato ma con gli occhi,le parole ,il cuore lanciato verso il futuro……

giovedì 11 agosto 2011

Elisir d'amore per ......mente e paesaggio.....



Lo spazio è una società di luoghi come le persone sono punti di orientamento del gruppo. C. Lèvi-Strauss

La cultura è il momento in cui il rapporto tra l’uomo e la natura,tra mente e paesaggio,tra ideale e reale si esprime e si realizza in sistemi di segni e di azioni.Ma bisogna sempre ricordarsi che da sempre abbiamo abitato luoghi e che oggi fa parte della moderne riscoperta del sé che sempre più si rifugia nell'isolamento e nell'autismo.
Il paesaggio è un presente ‘remoto' e interseca gli strati biologici e culturali della esperienza per liberarci dai labirinti che da solo ci siamo costruiti per paura o per comodità.
Il paesaggio scappadalle cornici e diventa appunto un fascio di gesti di appropriazione spaziale- materiale,simbolica, semiotica e mitica,creativa e distruttiva, che caratterizza e costruisce la storia culturale della nostra specie umana.




La nostra vocazione di ‘homo sapiens’ è soprattutto di verificare il nostro pensiero in quella terra di nessuno che delimita ogni discorso con la comunicazione di esso. Immettendolo nella sua esteriorità personale in una scelta pubblica con un libro si accetta di esporsi al rischio del più grave e doloroso fraintendimento e incomprensione. Questo accade semplicemente perché costitutivamente siamo avvinghiati culturalmente a visioni e convinzioni egocentriche in un abitudinario esercizio categoriale,lessicale e stilistico finalizzato o a una sapienza sistematica e pacificata in vista di opere scritte per la posterità o alla frammentarietà conflittuale, quotidiana e praticata senza destinatari e quasi senza autore. Accettiamo supinamente assenze o possibilità limitate di relazioni e uno svuotamento alleggerito di senso che ci trascina in un gorgo di “violento e dolorante silenzio”.
Mentalmente ci costringe a spezzare definitivamente ogni possibilità di dialettica formale o reale tra origine e compimento,perdita e ritrovamento, diversione e ritorno, ‘lògos’ rigido e “mithos” leggero, bellezza e bruttezza, ‘poièsis e teknè’ ……..Facciamo fatica a coltivare nella attraente e fascinosa incompletezza del superficiale non tanto il socratico “saper di non sapere” ma un “ non-sapere”attivo e responsabile se pur in una dimensione autonoma,libera e saparata dal sapere corrente ancora prigioniero delle rotture,lacerazioni,distinzioni e contrasti dialettici tra conosciuto e conoscibile,essere e non-essere,essere e divenire,bene e male,giusto sbagliato ……. Si tratterà di “passare dalle approssimazioni vacillanti dei filosofi dell’esistenza alla determinatezza oggettivamente fornita dall’esperienza” (Bataille).Il libro di Ugo Morelli, Mente e paesaggio (ed .Boringhieri) che sarà discusso al Castello d’Aquino di Grottaminarda (venerdì 12 ore 21)ci costringe ad abbandonare convinzioni e categorie consolidate nei labirinti della logica, dell’etica e di tutte le forme di metafisica della mente. Ci riporta in campo o mare aperto alle radici del nostro pensare vivibile. Le nostre tanto amate e rassicuranti categorie filosofiche che si sono esercitate per secoli di pensiero occidentale a risolvere l’intrigato rapporto tra pensiero e realtà viene riportato problematicamente alle sue radici non per riscoprire a ritroso “eden cognitivi e paesologici” ma a riconsegnare alla nostra mente la responsabilità e la sfida a ritrovare il nodo ,”il luogo del cuore”, che ci vincola alle nostre emozioni e alle nostre identità esistenziale prima che antropologiche ,etniche, filosofiche o politiche .Il paesaggio come futuro e come patrimonio visivo e intellettivo per dare senso e attualità al nostro essere sociale “hic et nunc” con una “mens” relazionale costruita e strutturata in una cultura specifica e personalizzata. Questo libro ci ripropone in modo concreto una sorta di “nuova ed antica paideia” non eteronoma e prescrittiva ma esclusivamente autonoma,conflittuale,aperta ,critica ed attiva. Tutti i saperi (etici,estetici sociologici,politici)vengono riportati al loro nocciolo cognitivo ed epistemico per riportare l’uomo e il suo “umanesimo” alla sua natura evolutiva e non dogmaticamente ingessata per riscoprire una specie umana “parte del tutto” e non come una “parte sopra le altre”.Ritorniamo al senso di fondo e non di sfondo del paesaggio che ci impone non solo il rigore della conservazione ma soprattutto la sfida cognitiva e politica della trasformazione. Ed il fatto che l’Autore ci propone questa sua ricerca in Irpinia e a Grottaminarda ,terra delle sue radici biologiche e culturali ,non è scelta a caso o di nostalgia regressiva. Richiama le nostre identità paesologiche e filosofiche a ricostruire le nostre soggettività nomadi, sismiche e divise a recuperare una unità nell’essenza-esitenza cognitiva e propulsiva delle proprie identità mortificate e terremotate nell’animo in nuove e conflittuali forme di esperienze. Consapevoli,però, che l’esperienza stessa porta il soggetto fuori di sé e la depriva di ogni “soggettività” leggera o pesante che sia.“Rimettere in questione il soggetto- spiega Foucault- significa sperimentare qualcosa che sbocca nella sua distruzione reale, nella sua dissociazione, nella sua esplosione, nel suo capovolgimento in tutt’altra cosa”. Può essere difficile e doloroso per le nostre inossidabili e comode convinzioni ma resta l’unica strada per poter costruire “Comunità libere ed aperte” e non “enclaves identitari e autoritari” e sopratutto non invischiarsi affascinati in una “microfisica dei poteri” come puro esercizio egoistico, retorico o sofistico.Discorso già archiviato e senza futuro per gli “irpini” di tutti i paesaggi appenninici del mondo emarginati da una “modernizzazione” disumanizzante ed epigonale.
Mauro Orlando



mercoledì 10 agosto 2011

Elisir d'amore per ......"la fratta" di Grottaminarda


io sono immerso in una aurora comunitaria
non mi bastano più "i chiari di bosco"
in un autunno berlusconiano...
un'aurora poetica
di presa in cura dei piccoli paesi
degli appennini del mondo
con il sapere dell'ascolto e del silenzio
alla ricerca di una vita
di volti e luoghi
luoghi esposti e segreti
che raccolgano amori feriti .....o compressi.
"Incipit vita nova"
in un vivere poetico
alla ricerca delle parole non scritte
nell'ascolto della parola del gemito
del sussurro ....del destino
delle parole che non torneranno mai
a raccontarci il pensiero che partì
nella frammentazione dell'attenzione
e nell'icompiutezza di ogni sentimento
e ancora una volta ci mettiamo in ascolto......nelvento.....

"la fratta" di Grottaminarda
APPENNINO

La parola di oggi è Appennino. L’Italia ha una lunghissima colonna dorsale: montagne, altipiani, colline, schiene di terra che si abbassano verso il mare, in cui ogni paese è una vertebra isolata. È un’Italia alta e tortuosa, ogni paese ti sembra vicino ma per arrivarci devi fare ancora cento curve.
Questa colonna sta perdendo poco a poco la sua linfa. La gente sceglie di abitare nelle città e, quando sceglie i paesi, ha sempre cura che siano comodi e pianeggianti. Nessuno vuole stare nei luoghi più impervi, quelli dove gli inverni sono lunghi e senza turismo.
L’Appennino è l’Italia che avevamo e che rischiamo di perdere per sempre. La gente ci ha vissuto per millenni consumando quel poco che bastava a sostentarsi.
Eppure io guardo all’Appennino come alla vera cassaforte dei paesi, una cassaforte piena di monete fuoricorso. Ci sono zone in cui il paesaggio è ancora incontaminato ed è come deve essere: solitario e sprecato.
Cosa augurarsi per queste terre? Più che chiedere politiche d’incentivazione, verrebbe voglia di incentivare l’esodo, in maniera tale che tornino le selve, che la natura riassorba le folli smanie cementizie che non hanno edificato niente di bello e che non hanno portato reddito.
Una nazione con un filo di montagne disposto in tutta la sua lunghezza dovrebbe ricordarsi più spesso di questa sua geografia.
È curioso che le nostre montagne, vere e proprie palestre all’aria aperta, siano frequentate più dagli stranieri che dagli italiani.
Io credo che sia arrivato il tempo di considerare l’Appennino come il luogo in cui si raccoglie la forza del passato e quella del nostro futuro.
Dalla Liguria alla Calabria, adesso, è tutta una storia di frane e spopolamento, di vecchi dismessi e di scuole che chiudono, di paesi allungati, deformati dal valzer delle betoniere.
Forse questo è il momento di invertire questa storia, di considerare che anche in un piccolo paese è possibile una grande vita.

Elisir d'amore per .....la poesia e la paesologia

Tragedia di un progetto utopico
non realizzato
che sembra morto
senza essere mai nato.
M.C.Baroni

Chi l’avrebbe mai detto o immaginato che in questi tempi di tristezza e deriva politica il pericolo più insidioso alla democrazia e alle piccole comunità potesse venire da un pensiero troppo innamorato di sé stesso e ancora una volta impaurito dalla poesia quando non si chiude in sé stessa ma osa puntare il dito verso di noi.
Qualche commentatore intelligente ha scritto che l’agonia della nostra società non va misurata a partire dall’esibizionismo banale,superficiale di tutto ciò che oggi si dice “cultura”, cioè di una crescita quantitativa di un “sublime” diffuso e massificato , nel fare arte, poesia, spettacolo..La comunicazione eccessiva ,trasversale ,politicamente corretta e caciarona vuole imprigliare il nostro “io” in un autismo privato deluso, empirico,infelice, solitario y final o in una rimozione o autismo corale di un territorio violentato e emarginato. Paradossalmente si sottolinea la denuncia di “nuove invasioni barbariche “ e contemporaneamente la dichiarazione del crollo della poesia nell’epoca in cui la stessa poesia si fa edonistica indifferenza o eccessiva esposizione e si omologa ad un mondo istupidito e superficiale. Mai come oggi esiste un aumento demografico di poeti e di antologie. E’ una sorta di isteria nazionale che qualcuno ha chiamato ”autarchia creativa del sublime” a cui viene dato o la libertà di sovraesporsi o di relegarsi in regime di innocenza o narcisismo territoriale, storico e politico come una specie in via di estinzione o che dia voce ad una malinconia collettiva o autismo corale che rimargina ( cioè esalta e falsifica) lo sbandamento di una comunità che non c’è più o che non ci mai stata se non nella menta di Platone ,Rousseau o peggio Marx. Mai come oggi la poesia desidera essere “recitabile e leggibile”, ovvero divulgabile e quindi “ ludica”. Volersi sottrarre crea ulteriori disappunti e incomprensioni. Ma questa condizione non misura ed esprime più il neoconformismo contemporaneo (la vecchia accusa di Pasolini) e nello stesso tempo non fotografa o smaschera la presunta perfetta omologazione del fare poesia al riprodursi demente della società. Non basta contrapporre dialetticamente l’intima ed emarginata denuncia lirico-filosofica leopardiana alla politica ,disagiata e radicale invettiva pasoliniana di uno sviluppo senza progresso e di una modernità puttana , equivoca o illuministicamente sopravvalutata.Ma allora è legittimo generalizzare e dire che la poesia è morta(!?) ed è giusto che le nostre comunità hanno emarginato o dissipato i suoi poeti, che continuano ingenui a perdersi in una selva di poeti,dove nessuno sa più dove siano o continuano imperterriti gridare la propria voce nei nuovi ‘deserti’ del conformismo o consumismo individuale e corale nella incomprensione e dissapore dei più?. Perché sarebbe morta ? Autoestinzione o assassinio? Se fosse per estinzione, il “postmoderno” ( la causa di tutte le cause) nihilista,relativista e narcisista diventerebbe un motivo consolatorio. Ma noi sappiamo che è per assassinio anche se spesso preterintenzionale.Questo paese , i nostri paesi, , rimuovendo la poesia come forza spirituale e autentica del senso, perde la realtà del proprio “io” ,rinunciando alla possibilità e necessità di rieducare ,nel pensare e vivere il proprio paese e territorio, i propri occhi catarattati e il proprio “logos” indurito per riscoprire la “grande vita” paesologica che circola nelle proprie vene per pompare sangue nuovo al proprio cuore, sottraendosi alla deriva tutta politica dei pensieri corti e tristi nella palude di un regime che si è fatto tumore antropologico incurabile e metastasi diffusa . La poesia va difesa ,letta e meditata perché mette in testa una paura vera,offensiva ,rigorosa , selvaggia, nuda, serissima.In certi momenti non basta solo preoccuparci con la denuncia delle sorti della nazione o dei nostri territori o paesi , bisogna provare terrore per reagire e ripredersi le redini dei nostri demoni interiori e dei tanti tristi , atterriti e silenziosi compagni di viaggio di questa esperienza comunitaria che ama la diversità della poesia come intuizione minacciata di sopravvivere e la voglia di rimanere voce feconda dei nostri territori abbandonati ad una sismicità rimossa,contenuta,controllata o peggio repressa .
mauro orlando









Dalla poesia alla paesologia
di Franco Arminio

Ho pubblicato la mia ultima raccolta di versi una decina di anni fa. In questo periodo ho scritto tante di quelle che usualmente si chiamano poesie e ho tentato molte volte di metterle insieme in un nuovo libro. Il risultato non mi ha mai convinto. Ho provato anche a fare una raccolta che mettesse insieme testi inediti e testi pubblicati in volume e il risultato è stato ancora più sconcertante.
Così mi sono fatto l’idea che oggi la poesia possa solo essere presentata a piccole dosi o nascosta in altri organismi. Nei miei due ultimi libri in prosa compaiono molte poesie e mi sembra che stiano bene. Il prossimo libro sarà tutto in versi, sono versi che però hanno fin qui vissuto sempre in forma di prosa. Quando me li leggeva il mio amico Mimmo Scarpa la sua cura maggiore era proprio nel depennare le frasi liricheggianti. È curioso che alla fine venga fuori un libro di poesia (almeno secondo il parere di un bravo poeta come Umberto Fiori) proprio grazie a questo sistematico espianto del poetico dalla pagina.

Forse nell’era dell’autismo corale il poeta lirico, quello che canta un albero e poi l’amata e poi i mali del mondo, quello che si pone come atleta del sentimento, come guida alla bellezza della sua presunta interiorità, appare poco credibile. Manca ai libri di poesia lo spazio essenziale della nostra vita, che è lo spazio delle abitudini e manca quel senso della vita come fiato comune. Il poeta lirico aveva senso quando bisognava aprire crepe, vie di fuga nello spazio comunitario. Ma nel momento in cui la comunità è solo una parola e ogni uomo si fa dio, nel momento in cui il privato diventa il nume perfino delle scelte economiche in tutti i sistemi politici, non credo che abbiano necessità le migliaia di raccolte di versi in cui ogni poeta fa pressione per segnalare la sua “eccezionalità”.

La letteratura oggi deve essere profondamente ancorata alla vita normale, deve raccontare le giornate bianche, la stanchezza, lo sfinimento di stare nel mondo della tecnica e delle merci, con un corpo che non sa più darsi uno sguardo sereno e un passo lieve.

In questo clima le richieste di aiuto del poeta sulla base della sua peculiarità, il suo bisogno di amare ed essere amato appaiono un po’ loschi, e il suo affidarsi agli altri avviene solo nel senso di garantirsi la loro fuga. È inesorabile, non resiste nessuno. Ed è strano che le poesie funzionano come forme di proliferazione e tutela dell’esilio anche quando sembrano andare verso l’altro, anche quando sembrano pronte a raccogliere l’altro.

Allora io adesso scrivo sperando di fallire, sperando che le parole producano un’alterazione della loro stessa natura e si facciano lievito, carne, corpo, fiato che posso respirare insieme agli altri. Faccio questo parlando della paura della morte (niente di più privato, niente di più comune) e dell’agonia dei paesi. Parlo di questa terra-carne che continua a ferirmi, parlo di questo muro contro cui ogni giorno sbatto la testa (il mio corpo che vaga nei paesi: uno sposalizio necrofilo, coi confetti delle rovine come bomboniera).

La paesologia è una disciplina che sta all’incrocio tra l’etnologia e la tanatologia. Le strade, le piazze che attraverso sono camere ardenti. Raccolgo ormai da anni il lamento funebre sul paese che non c’è più. Sono il cronista di un funerale senza fine, perché la salma del paese non si può inumare. Anzi, assisto a varie operazioni di maquillage dell’abbandono, di restauro della cenere. La mia politica è restare qui, avvitarmi, estenuarmi. Ogni giorno faccio l’autopsia dal vivo, come se vivere fosse solo un modo di esplorare la morte della vita. Scrivo per vedere ciò che nessuno vuole più vedere, perché l’autismo corale produce questa cecità e gli occhi devono condurre una vita molto spericolata perché possa ancora venirne fuori qualche visione.