sabato 2 dicembre 2017


Urge ripensare al nostro rapporto col corpo,con la nostra anima,col mondo e con gli altri. Urge capire il peso del pensiero e delle parole che lo raccontano,la sua materialità,la sua estensione e il suo abuso,il suo spazio e la sua frontiera. Si tratta di dislocare ,togliere il luogo e il tempo della tradizione ….la tradizione mura chiude e rinchiude…bisogna dischiuder il gesto inaugurale,entrare nell’inaudito, nell’inattuale, nell’indicibile. Poesia pensante o pensiero poetante.E’il dilemma tragico se si sceglie il rapporto con un proprio “io” che non dispone e non propone un mito di sé stesso o una sovranità non riconosciuta con “l’altro da sé”. Un’anima è estesa in un mondo, in un corpo, in un altro e per di più non ne sa nulla di sé e del suo pensare materiale ….non conosce il peso del suo pensiero. La sua materialità, la sua estensione, il suo spazio…i suoi margini …la sua frontiera.Abbiamo con meraviglia scoperto che non ha bisogno di fondamenta, fini e fine, domini, potenze da realizzare. Togliere il sigillo di sé è dischiudere, aprire a, non aprire verso,in o per nessuna direzione,nessuna intenzionalità,progetto,nessun luogo particolare, nessuna finalità di potere o di servitù. Vivere è un approssimarsi a ,un astrazione di pensiero e di parole…. Verso il suo gesto fondatore per entrare nell’inaudito, nel non detto ancora.Una apertura al mondo nel disincanto non per approdare al “nulla” come “una deambulazione senza mete, abbandonata alla grazia dell’aperto” Un pensiero “ la cui possibilità consiste,prima di tutto,nel mantenersi spoglio di significati dati e di figure già tracciate” La colomba di Blixen disegnata inconsapevolmente in una notte burrascosa e oscura.La necessità di un aprirsi ad un senso proivvisorio e prossimale “spoglio di sensi e significati dati e di figure già tracciate” cartesianamente e hegelianamente nella propria testa inclusa. Lo sguardo si scopre vergine e profondo come di “chi guarda e racconta i suoi sogni (…) senza intenzioni e senza riempimenti di significato, solamente per l’impressione, sa che lascia scivolare tra le dita la povere dell’improbabile e dell’improvabile” (Nancy). Spoliazione, marginalità, impoverimento e svestizione della pelle dell’immagine, il pensiero sottratto, il peso di un pensiero, l’attesa e l’approssimarsi più del suo arrivare nel presente e passare nella memoria. Cifra del nuovo pensare, che si piega all’interrogazione della scrittura,del linguaggio, dell’immagine, del suono e del silenzio, della luce e dell’ombra…….dello spazio e del tempo,della voce e della parola….per “mettere in scena l’esistenza sull’orlo di senso sempre sul punto di nascere, sempre in fuga, a fior di pelle e a fior d’immagine” Chi guarda e racconta i suoi sogni senza intenzione e senza riempimento di significato, solamente per l’impressione, sa che lascia scivolare tra le dita la polvere dell’improbabile e dell’introvabile.”L’amore e il dolore sono talmente singolari da risultare eccezionali ed indicibili….gli atti e le parole che lo comunicano sono sempre inadeguati,impacciati e ridicoli. Il pensiero è la scelta di una esposizione non raffigurabile una “resistenza” ad ogni volontà di rappresentazione o di analisi.Un pensiero con un peso “areale” per un territorio, un spazio , un tempo per “comunità prive di terreno” uno spazio senza orizzonti e un’alba e tramonto….con un occhio e orecchie “pronte” all’inaudito, all’indicibile da ascoltare e dire.Un pensiero che si riscopre nel suo farsi “poesia”…..come l’atto e un passo concreto da “agrimensore” da “una certa via per coprire un territorio di parole, non con lo scopo di trovare qualcosa, o di piantare qualcosa, o di costruire un edificio, ma semplicemente per misurarlo”…..per accertarne i confini e …i limiti.Un esperienza appartata, in disparte e pubblica in una inaudita condizione di “comunità…provvisorie”. Poesia , esperienza e esistenza come gesto o parole irrimediabilmente singolari. Poesia e vita non come nuovo genere di orizzonti insuperabili e di un viaggio verso la presenza dell’imprevisto e dell’inaudito non solo nel linguaggio ma nella differenza ,nelle storie, dei territori che abitiamo,curiamo e viviamo . Un pensiero che un “poièin”…fare e disfare, un confronto e scontro che è anche ritiro e abbandono, un avvento , un morire, risorgere di un parlare di ciò che non si dice e non si può ascoltare e si fa fatica a capire.Un pensiero che osa esporsi ai suoi margini e ai suoi limiti in un mondo materiale che si sottrae e “ non si mostra che attraverso tocchi, ritocchi, abbozzi, profili sottratti, calchi perduti”. Un pensiero poetante che sappia recuperare la sua capacità di riuscire a pensare per frammenti e in frammenti, che sappia rendere ragione alla complessità, frammentazione, provvisorietà dell’esitenza, della sua sua realtà non unificabile e compatta, ma permeabile e visonaria “ della sua agitazione,della sua inquietudine,, della sua pena e del suo spessore,della sua densità, della sua materia estesa, del suo tempo scosso, disgiunto, della sua indisciplina,del suo farfugliamento, della sua incoscienza viscerale e della sua lucidità non meno avvinghiata al corpo”. L’unico senso per stare dentro allo sconnesso, il franato, il terremotato, tra le spoglie morte di una archeologia dell’arreso e dell’abbandonato di cui ci parla con dolorante fervore e compassione Franco Arminio. Scrittura e poetica arresa che in questa lettera impossibile scrittagli dal suo paese di nascita gli scrive: “caro Franco ….Volevo ringraziarti del tuo scrivere continuamente di me. Lascia stare per un poco però la polvere dell’attualità. Scendi, affonda, vai nelle cantine dei secoli. Vieni a trovarmi nelle vene della terra, ferro e ruggine, lingue morte di serpenti e fiati e bocche di chi parlò vanamente. Vieni a vedere l’ossario che c’è sotto ogni paese, scava, lasciati amare, lasciati trascurare, lasciati ingannare, lascia la colla dei minuti, tu sei nato per soffiare come il vento, sei nato per andare via ogni giorno, vai ti prego, lascia stare queste ombre col muso sporco, questi cancelli, questi cuori a imbuto. Lascia le parole che ogni tanto dici per essere come gli altri miei figli. Io sono il tuo paese e il loro. Io sono il paese di Pinuccio e Peppino, il paese degli scapoli, dei vicoli dove passa solo il vento.Sorridi ogni tanto a quelli che incontri, sfiorali con gentilezza e poi sparisci, tu non sei un uomo nato qui. Tua madre se n’è accorta subito, per questo ti trattiene, lei sente che non sei suo e tu ti ostini a pensare che non sei di nessuno. Continui a dare più attenzione alle ingiurie che agli affetti. Stai qui non per vivere ma per tenere in vita la tua paura della vita. Te la prendi con me e con il tuo corpo, pensi che siamo la tua prigione e non la finisci mai di lagnarti, non ti basta mai niente. Dillo che non sei dentro di te, dillo a tutti che quello che hai scritto è ancora solo un piccolo esercizio e che ti stai preparando per squarciare il petto a quel vecchio ragno che si chiama Dio. Non chiuderti dentro l’armadio del tuo mal di stomaco, del tuo mangiare per spiare il male, per affondare le farfalle che ti prendono la testa e la fanno volare”. Mauro Orlando

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