giovedì 26 maggio 2011

Elisir d'amore per ......."microcosmi eccellenti".



L’edizione 2011 di Cairano 7x si apre il 27 maggio con l’incontro di architettura naturale Microcosmi eccellenti _comunità, trasformazione, sviluppo locale_ promosso da ANAB associazione nazionale architettura bioecologica
E’ un incontro di architettura per comprendere, condividere, partecipare le rapidissime trasformazioni dell’ambiente costruito, questa incontrollata accelerazione: costruiamo sempre, ovunque e comunque, produciamo qualsiasi inutile cosa, consumiamo, scartiamo, abbandoniamo …
E’ un incontro di architettura per fare movimento di resistenza alla sovraccrescita urbana e alla sovrapproduzione edilizia contro un’aggressione non percepita ma più devastante di una guerra che distrugge suolo fertile costato fatiche millenarie all’uomo e alla natura.
E’ un incontro di architettura per applicare la cura della natura a un ambiente / territorio / città che ha perso equilibrio e salute, per dare sostanza all’architettura naturale per decifrarne il codice genetico, per interpretare informazioni, capire relazioni, leggere emozioni, indagare cambiamenti, codificare usi, modi, tempi.
E’ un incontro di architettura per attivare presidi dell’architettura naturale, atlante dei microcosmi eccellenti dove imparare come l’architettura, il borgo, il quartiere, la città possono essere organismo vivente, sano metabolismo di energie e nutrimento.
E’ un incontro di architettura per costruire l’alleanza agricoltura / architettura, per coltivare i materiali dell’edilizia, per costruire nuove e durature relazioni tra nuovo lavoro, tradizione, nuovi e vecchi abitanti, territorio…











…..Non potendo partecipare di persona a questo primo incontro…..ho voluto marcare comunque la mia presenza spirituale con un mio solito e affettuoso “rompicapo….filosofeggiante”…….buon lavoro!

Intorno all’architettura, conta ancora quello che diceva Heidegger a proposito del “costruire”, vale a dire che “il costruire non è soltanto mezzo e via per l’abitare…è già in sé stesso un abitare” Il mondo ci circonda nella sua totalità. Possiamo guardarlo secondo diverse prospettive, non mai tutto insieme, come se stessimo fuori del mondo e il mondo fosse un oggetto. Il mondo nella sua totalità non è un oggetto di osservazione. E’ lo stesso orizzonte dentro cui possiamo guardare aspetti del mondo, cioè tanti mondi diversi: il mondo del cielo stellato osservato dalla terra, il mondo della natura terrestre, nel suo fuoco, da questo o da quel punto di vista, il mondo dei viventi, il mondo della società,il mondo costruito dalle “tecniche”, il nostro mondo interno, e così via. Ogni mondo è un mondo particolare e richiede un suo punto di vista e una tecnica per conoscerlo e giudicarlo. Ad ogni cambiamento di prospettiva dobbiamo abituarci a vivere, comprendere e interpretare nuovi mondi. L’adattamento dell’uomo, e già del bambino, richiede, non solo da un punto di vista storico e sociale, ma anche da un punto di vista individuale, che egli esca continuamente da mondi già noti e rassicuranti ed entri in mondi nuovi e talvolta inquietanti. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta non è che un avvicendarsi e stratificarsi di mondi diversi: da quello familiare e parentale a quello sociale,a quello archittonico a quello interculturale. La città moderna ne è forse l’esempio più efficace. E’ non solo confusione,bruttura e omologazione, ma anche molteplicità e sovrapposizione di tanti mondi e modi possibili di vivere,costruire,conservare e abitare . Ma la domanda a questo punto è la seguente: per caso molteplicità e sovrapposizione non rischiano di diventare solo confusione e omologazione, se non riusciamo a renderci conto che i tanti mondi fanno parte precisamente del mondo nella sua totalità? Ma che cos’è il mondo nella sua totalità? Possiamo conoscerlo comprenderlo e interpretarlo al modo dei tanti mondi da cui è costituito? Oppure comprensione e interpretazione sono in questo caso qualcosa di diverso?


La questione di base è come abitare la terra. E l’analisi del “come”, della “terra” e delle “abitare” e “costruire” è quanto c’è di più interessante e impegnarsi in un lavoro anche teorico oltre che un approccio tecnico, esistenziale o politico . Avere la terra non è possedere la terra. Dominare la terra. Padroneggiare la terra. Controllare la terra. Stravolgere tecnicamente la terra. Di fatto bisogna riconoscere che l’ordine sociale espelle la natura in cui esso originariamente si è costituito. Tale trionfo dell’artificio e della tecnica coincide con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata sugli enti intramondani? O questo trionfo è dovuto anche alla delega che la filosofia o il pensiero in generale ha concesso alla tecnica,fino al punto paradossale e tragico di nascondere la mano dell’uomo che ha trasformato i forni da pane in forni crematori degli umani o costruito per il solo profitto metropoli esteticamente e umanamente brutte e socialmente ingiuste La contemporaneità con gli inevitabili strascici del moderno e la tirannia del postmoderno tecnologico con gli echi mai sopiti del classico ci impone un orizzonte del pensiero e della tecnica ,dove gli strumenti della ragione e della scienza sono coniugati assieme quelli della passione e dell’amore per il bello e degli uomini. Come utilizzare al meglio “una critica severa della condizione abitativa e di vita in cui si trova lo svolgimento della nostra esistenza”evidenziando che non si tratta di tornare al passato, ma di giungere a concepire il moderno e l’industria della costruzione come preludio per un’altra storia dell’essere”. La costruzione libera procede dall’apertura che è l’altro nome della proprietà impropria e della propria improprietà. Su queste basi si edifica la città del tempo, la città della gioia, la città del paradiso. Mentre la città dei mortali è perseguita dai mortali stessi, cha assomigliano la loro vita a quella della caverna dove si vive beati di preferire una sorta di “privacy”di schiavi dominati dalle “ombre”. Nell’analisi parziale del tentativo di dominazione della vita con la tecnologia bisogna tener nel dovuto conto dei valori denotativi della parola, e non di quelli connotativi del sospetto. Il progetto di tracciare una sorta di cartografia della nuova natura che sull’inesistenza di una natura vergine si mostra solo come un accumulo dei materiali per la tecnica, non si basa sull’antiteticità tra ricostruzione immaginaria del passato e invenzione fantasmatica del futuro che mette di fatto “il presente fuori gioco” .A proposito della mutazione delle metropoli, la nozione di Mepolis, la non città, è un contributo alla lettura del conformismo e dell’anticonformismo in materia di architettura e di urbanistica. Abitare la terra? Come vivere? Quali dispositivi urbanistici, architettonici, paesaggisti? La “misura della terra” finisce per obliare la terra . Questo è il rischio di ogni cartografia o tecnica grafica, che la carta renda opaca la storia. La terra è inabitabile. E l’uomo non la abita poeticamente. Non per questo non la ritrova come una regione insituabile del paradiso.O corre attivare il pensiero per indagare l’esistenza fittizia delle cose, sempre di grande interesse.“Sembra che tutto l’umano sia artificiale, violenza contro un ordine che non era lì in sua attesa” L’architettura come pensiero che usa la “tecnica” marca luoghi che delimitano territori, definiti dal taglio stesso operato dallo strumento o utensile? O la terra per la stessa esistenza del significante “terra” è marcata, ossia è già un elemento a sé stante direi ontologico. Forse fondare una città è saper tagliare, delimitare, recintare, chiudere, come ha fatto Didone con Cartagine. O forse è in un altro modo che possiamo leggere la fondazione di Gerusalemme e anche quella più antica del paradiso, del giardino rispetto alla selva o al deserto. Più che dalla “trasformazione di una superficie piena in una lunga linea delimitante il vuoto. Dall’instaurazione di questo punto sorge la città del tempo, non dello spazio. Abitare e costruire poeticamente non è utopia e sogno ma un pensare e fare possibile. Sulla traccia di una pagina del filosofo Carlo Sini dove è evocata l’età remota in cui gli uomini ascoltavano la voce della natura non ancora desacralizzata ed è affermata l’importanza del recupero memoriale e tecniche di queste origini, in piena libertà rispetto ai pregiudizi e ai dogmatismi siano essi … della tecnica,della logica, della linguistica, della società delle comunicazioni, nell’attuale desacralizzato rapporto dell’uomo col mondo e con la natura.Dunque l’humus dell’umano esistere comunque risiede in uno stadio di primigenia purezza, che è fondamentalmente poetico oltre che applicabile in modo modernamente tecnico. Ogni manufatto è utilizzato nella dimensione dell’essere temporale dell’uomo, il concetto dell’abitare diventa un’interrogazione sul senso del nostro esistere, e quindi implicitamente del nostro fare, all’interno delle strutture materiali che hanno costituito e costituiscono il mondo degli uomini. Il temporaneo e provvisorio”soggiornare dei mortali sulla terra” non diventa solo vivere nel dolore “una valle di lacrime” ma la ricerca di fatto di un senso comune di sempre nuova “utopia” per vivere felice tra uomini diversi con stili ed esigenze diverse. Heidegger avverte: “è il poetare che, in primissimo luogo, rende l’abitare un abitare. Poetare è l’autentico far abitare (…) Noi abitiamo poeticamente ? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico (…) Il fatto che abitiamo in modo impoetico, e fino a che punto, lo possiamo esperire in ogni caso solo se sappiamo il poetico. Un rovesciamento di questo abitare impoetico, se e quando accadrà, possiamo sperarlo solo se manteniamo l’attenzione rivolta al poetico. Come e fino a che punto il nostro fare e non fare possa aver parte in questo rovesciamento possiamo provarlo solo noi stessi, se prenderemo sul serio il poetico”. E’ di questo modo di pensare,costruire e vivere la “poesia” che si cerca di parlare a Cairano 7x 2011 da domani in poi….

mauro orlando

martedì 24 maggio 2011

Elisir d'amore per .......Laviano


appuntamenti mancati

a castelnuovo di conza la pena di un paese ricostruito e già in rovina prima di essere abitato. a laviano la pena e il disgusto per il lavoro degli architetti. poi il colpo d’ala, la visita a un contadino che conosco. siamo rimasti due ore noi a fare foto…grafie alla bella famiglia e alle vacche loro a offrirci il meglio dei loro prodotti. a un certo punto sembrava uno di quegli incontri umani che si facevano una volta. erano tutti felici. io no, ero immerso nella mia stanchezza. alla fine per qualche motivo non mi trovo mai a tempo con gli appuntamenti della vita. e in questo caso neppure all’appuntamento con la poesia.

franco arminio


………Laviano ci ha accolto con un tempo e una luce che comunemente si può definire non delle migliori ma come le ‘cose preziose” come la “alètheia …kalòs kai agathòs” (la verità bella e buona) ama nascondersi e provocarci nelle pigrizie,stanchezze ,tristezze e…… nelle abitudini distratte e superficiali si è aperta nella sua profonda e autentica bellezza e gioia. La “paesologia” ci chiede di “camminare con gli occhi ben aperti “ e i nostri compagni di avventura e di sogno, capitanati da un franco stanco ma felice, accompagnati con discreto silenzio da me ,edda e enzo , con i loro occhi meccanici ……francesco&francesco,mario,federico e salvatore si sono lanciati nelle scoperte intime delle prorie immagini con lo sfondo e la scena del teatro della quotidianità ,silenzio isolato e dell’assurdo paesano , come palestra e palcoscenico di “solitudini” distratte ,non ben curate ed esibite alle nostre amicali e curiose richieste senza un apparente fatica a sintonizzarsi con questi occasionali e esuberanti ospiti….. Alla buon ora ci siamo ritrovati ….’alieni’ e “alienati” autoconvocati non a cercare conforto ne “le parole che non hanno ritorno”….”in un giorno frainteso” a rievocare un improbabile e onirico “borgo delle tre case bianche…sei falde rosse di tetto a capanna, cariche di cielo di speranze profonde,dodici facciate tante finestre …..dell’amico Adelemo…..tra tutta una serie di immagini ‘liriche’ in un biancoenero luminosissimo di cose e persone che non passano inosservate in un nostro sogno apparentemente nascosto dove “la sua bellezza non è un falso ma un vuoto….un vuoto chiamato bello che ognuno riempie di se stesso” prima nell’iride del proprio occhio curioso e poi fissato per eccesso di amore (abundantiam cordis) in una immagine quasi come nell’atto solitario e amoroso di Dio quando ha sentito la necessità di “creare” uomini e cose oggettivate. Avrei voluto chiedere a questi innamorati nello sguardo la parola-chiave che desse senso e rappresentazione a questo “vuoto” così esposto e ostentato e rivelare il loro personale ‘daimon’ vitale e nascosto che traspariva nelle viscere profonde di ogni immagine sfacciatamente bella ed evocativa negli occhi provocanti dei “ragazzi dell’appennino” e dei suoi belli ed operosi genitori .Ma ,presi dall’incantamento” della natura non violentata da “costruzioni” senza anima e bellezza ci siamo rifugiati nella bella azienda di Angelo e Concetta a fare pratica di “paesologia applicata “ senza forzature del pensiero ma facendoci guidare dal cuore tra mucche chiamate per nome e paesaggi appennici di una bellezza irpina incontamianata ,nascosta e preziosa … che abbiamo pesato come “umanesimo delle montagne” e poi ci siamo fatti portare nel tempo antico di un lavoro fatto di gesti lenti ma sicuri delle loro mani nella pasta dei “caciocavalli” da plasmare mentre noi cercavamo di fermarli nelle loro immagini laboriose e felici…e alla fine ,come si usa dire non “tutto è finito a tarallucci e vino ma…..a caciocavallo,salame ,ricotta e ….crema di limoncello…..e a questo punto come la paesologia ci siamo arresi ma felici delle vecchie e nuove amicizie che nel frattempo come per “un richiamo affettuoso.....quali colombe dal disio chiamate” hanno allargato la bella e allegra compagnia…. Infine sotto la regia amorosa di franco il gruppo ha fatto il punto della giornata e discusso il possibile uso della esperienza fotografica di questi mesi per animare le giornate agostane della rupe della comunità provvisoria a Cairano 7x 2011 e ognuono di noi è tornato a casa pensando che “ forse non lo sai ma pure questo è amore “ della paesologia.

mauro orlando

sabato 21 maggio 2011

Elisir d'amore per la paesologia


....sarà una "scienza arresa" ma quando si fà carne,pensiero ,storie e sogni nobilita lo sguardo, il corpo, la mente esopratutto il cuore.....





1.

Scrivo sperando che le parole producano un’alterazione della loro stessa natura e si facciano lievito, carne, corpo, fiato che posso respirare insieme agli altri. Faccio questo parlando della paura della morte (niente di più privato, niente di più comune) e dell’agonia dei paesi. Parlo di questa terra-carne che continua a ferirmi, parlo di questo muro contro cui ogni giorno sbatto la testa.

Le strade, le piazze che attraverso sono camere ardenti. Raccolgo ormai da anni il lamento funebre sul paese che non c’è più. Sono il cronista di un funerale senza fine, perché la salma del paese non si può inumare. Anzi, assisto a varie operazioni di maquillage dell’abbandono, di restauro della cenere. Ogni giorno faccio l’autopsia dal vivo, come se vivere fosse solo un modo di esplorare la morte della vita.

2.

Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non devi sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello che il paese è. Non devi fare altro.
Sono infinitamente stupidi i cittadini che quando arrivano in un paese fanno sempre la solita domanda: ma qui di cosa si vive? È la domanda di chi pensa di essere in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla conquista di chissà che. Il paese, se accogli la sua lingua, ti dice che sei un cane, che devi dismettere l’arroganza di chi pensa di essere il padrone della terra.
Il paese è una creatura che sgretola qualunque narcisismo, per questo le vetrine sono sempre un po’ fuori posto (il paese è una creatura intimamente puberale e se gli metti il doppiopetto diventa ridicolo).
L’uomo che va in giro per i paesi, il paesologo, in realtà è un cane, ha il punto di vista del cane. La sua è una scrittura sgretolata, ha la postura accasciata di chi è stato colpito da un male fraternamente incurabile e non può che congedarsi dalla letteratura come prova titanica di un autore che pretende di spiegare il mondo.
Non ci si arrende solo rispetto all’idea di inseguire il mito dello sviluppo, ci si arrende all’idea di essere qualcosa o qualcuno. Per uscire dall’autismo corale ci vogliono posture nuove. È tempo di tornare a una fisiologia meno velleitaria, a un quieto vagabondare nel mondo che gira, nell’aria che non sta mai ferma, nella polvere in cui luccichiamo ad occhi aperti insieme al sole e alle stelle.

3.

La paesologia è una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.
Ci vuole un’idea di sé scucita dagli abitini classici e rassicuranti dell’ego cartesiano. Noi siamo materia esposta alle intemperie esattamente come un albero, come una casa cantoniera. Non siamo una fortezza da cui spiare l’infantile disastro del mondo.
Un amico architetto mi diceva che lui vorrebbe qualificarsi come paesologo. Mi diceva che l’ottica paesologica contiene in sé tutto quello che lui fa e non gli dà molto piacere definirsi architetto. È lo stesso motivo per cui non mi sento a mio agio a sentirmi definire scrittore o anche poeta. Mi sembrano parole che parlano di esperienze troppo diverse. Con la paesologia io me ne vado da un’altra parte, definisco un territorio fatto di volpi e di poiane, di lampioni rotti, di cani randagi, di gatti, di vecchi sulle panchine, di vecchine che girano per strada con una busta in mano. Questo territorio è la goccia di sangue sotto il vetrino. Ma non c’è bisogno di microscopio. La vista è dilatata dall’ansia, dal tremore di stare nel cratere del proprio corpo, un cratere che trema, trema da sempre.
La paesologia non è una nuova scienza umana, è una forma d’attenzione verso il fuori, attenzione intensa perché provvisoria, perché il paesologo parte dagli abissi del suo corpo e ci torna continuamente. Il suo guardare è un tentativo perenne di venire al mondo che pare non riesca mai a compiersi del tutto. Ma proprio qui si avverte la grazia, il vorticare confuso delle cose che stanno fuori, la distesa immensa delle creature deposte nel lieto inferno della terra tonda.
Per me oggi non ha senso essere scrittori, sociologi, architetti. Forse non ha senso neppure definirsi umani. Siamo chiamati ad ascoltare l’aria e l’aria ci dice che i nostri saperi sono chiodi di gesso a cui non possiamo appendere niente. La paesologia è una disciplina inerme, ma non arresa. Non partecipa alle marcette e alla marchette accademiche. Allinea dettagli, avanza, indietreggia, inciampa e forse è con questo inciampare che riesce a essere più dentro, più vicina alle cose.

Il paesologo non ha in programma la salvezza dei paesi, non tutela i campanili, i dialetti, le manfrine del rancore, la fregola delle confidenze e dello stare vicini. A volte combatte, s’indigna, chiede tutela per gli esseri e le cose che stanno in alto, lontane dai vaneggiamenti delle pianure, ma questo filo di ardore subito s’intreccia al filo della mestizia. Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore.

La paesologia non dà ricette per curare, ma si prende cura di guardare, di aggirarsi senza meta, di indugiare o anche di andare via alla svelta. Non ci sono regole, questionari da riempire, non c’è un formulario da approntare. Si esce per poche ore oltre la prigione domestica, oltre la prigione della propria professione, si va nei luoghi più nascosti e affranti e sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare.
Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere fra cento anni. Fra un secolo i paesi avranno una piega più chiara, saranno morti o saranno vivi e vegeti e allora non avranno più questo crepuscolo che li rende così particolari. Si è aperta una piccola finestra e da questa finestra il paese ci fa vedere il delirio e la gloria di stare al mondo
Andate nei paesi allora, andate dove non c’è nessuno in giro. Abbiate cura di credere alla bellezza sprecata del paesaggio, portate il vostro fiato alle sperdute fontanelle del respiro.

4.

Ci sono giorni in cui sento che è impossibile scrivere versi. Non c’è musica nella testa, non c’è ritmo. Il respiro nasce da luoghi sparsi, la vita è un peso sullo stomaco, niente di più. In giorni come questi la scrittura prende necessariamente la via della prosa. Per lunghi anni ho conosciuto la fermentazione che trasforma la testa in una fabbrica di versi. Adesso sono sempre più frequenti le giornate in cui mi è possibile solo la prosa. Sono le giornate in cui vado nei paesi e mi affido a loro, uso i luoghi come pinze per tirare fuori le parole infilzate nel mio corpo. La paesologia non è una nuova disciplina, non è una scienza, è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo. È una scrittura che viene da fuori e che passa dentro solo per tornare fuori.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza dunque, morale e civile, una resistenza mestamente privata ma non per questo priva di una sua venatura politica. Al paesologo non bisogna chiedere cosa fare per impedire la morte dei paesi, ma come usare questa morte per dare un senso alla nostra, per renderla meno insignificante. Qui ormai non è in gioco la lietezza e neppure sorti magnifiche, in gioco è la capacità di dare un colore più vivo alla propria fine e a quella delle cose che ci circondano. In certi paesi le giornate sono fatte solo di epiloghi, ogni persona, ogni avvenimento sembra ruotare intorno alla dismissione, alla resa, al fallimento. Forse c’è un solo modo per non cadere nella disperazione: svolgere una serena obiezione all’esistente, immaginare che dai paesi più vuoti può venire uno sguardo che risana, perché quando si è in pochi nessun cuore è acqua piovana.

di franco arminio