Comunità  provvisorie
o tribù nomadi.
di mauro orlando
In una lettura superficiale o strumentale  la paesologia  di cui facciamo  continua esperienza  negli incontri comunitari  potrebbe apparire   una sorta di resistenza conservativa,  pacifica teoretico-etico-politica    dell’individuo terremotato, sradicato e
provvisorio  che si incontra  nei “piccoli paesi”  periferici ed emarginati per aggrapparsi   ad una
critica alla modernità incivile  e nello
stesso tempo  non cadere nei gorghi affascinanti
 della postmodernità ninilista.Un
impegno  attivo  e riflessivo per  conservare  in sé il fuoco eterno  dell’essere, 
colto  come senso di totalità
della vita  nel suo farsi  particolare, origine ,verità,
poetica,mito.  «Un mito creato dall’uomo,
o perfino un mito autentico di cui l’uomo si impadronisca per fini  strumentali, cioè per fini, in ultima analisi,
 utilitaristici, non può mai agire
veramente, poiché non manifesta più la volontà stessa dell’Essere, ma si limita
a tradurre la volontà soggettiva di chi ne fa uso.» (Alain de Benoist). Un mito
terraneo  che ardisce pensarsi  al di là (metà, uber) dello spazio e del
tempo senza farsi metafisica  e senza
perdersi nelle fumose apparenze  della
contemporaneità  lisciando il pelo  delle “icone” che pretendono di
rappresentare  il collettivo e le
necessità comunitarie ,tribali  e
sociali  come specchio e senso del
quotidiano :hic et nunc…qui ed ora. Della modernità teme il suo abbraccio
letale   e necessitato verso un sapere universale e
necessario  dichiarando paradossalmente
di essere un “sapere arreso e provvisorio”non  per ostentare una debolezza e precarietà  che lo tiene incarnato nella terra  sottraendolo a qualsiasi forma di dottrina,
estetica  o metafisica  ecologica. Un sapere esistenziale  che  sappia
cogliere  e raccontare   lo
smarrimento del sensoriale percettivo lasciato a sé stesso  alla mercè  
della  vecchia padrona ragione-
essenza della modernità- e  non
soccombere  ed essere  non più “rappresentata” ma “presentata” come
individualismo irrazionale e nihilismo tout court. «Il passaggio dalla
rappresentazione alla presentazione è una questione tutt’altro che teorica;
anzi, ha innegabili riflessi sulla vita quotidiana.»( Maffessoli)  La rappresentazione o volontà schopenauiriana
è soprattutto cerebrale, disincarnata, intellettuale. In una parola è figlia
della modernità. La presentazione – in linea coi tempi che stiamo vivendo –
solletica i sensi,la fantasia, il mistero e  ammicca con il corpo e ristabilisce un
rapporto con le radici terrene dell’uomo. La fine della modernità – oltre che
in termini di teatralizzazione e rappresentazione – è letta anche in chiave
ludica: dal fuoco alla festa, dal fuoco come tecnica al fuoco come focolare
festoso, momento di ritrovo: il regno di Dioniso è solo all’inizio: «Il mito di
Prometeo – scrive Maffesoli –, il titano che rapisce il fuoco agli dei per
farne dono agli uomini, dopo aver trionfato per tutta la modernità, è ormai
logoro; perciò il festoso e chiassoso Dioniso tende a soppiantarlo.»La
modernità con i suoi miti dello sviluppo, del progresso,della uguaglianza,
della libertà e della fratellanza resta imprigliata nel labirinto teologico del
disprezzo delle origini e del contemporaneo in un sostanziale timore e
disprezzo per il mondo  nella sua naturale  materialità evolutiva e produttiva.  La rappresentazione  della modernità si è imposta  sotto la maschera di aspettative ,di attese e
di futuro ponendosi come barriera o confine  un 
nihilismo o un relativismo che 
non prevede più attese nelle nostre vite, non  più progetto, aspettativa; la nostra
immaginazione  è costretta a  spingersi ed alimentarsi  fino al tramonto quotidiano. La filosofia
stessa  ha continuato nel suo ruolo  cinico di “ancilla teologia” e l’opera dei
filosofi si è limitata  a creare
materiali di “critica” del reale  per 
cercare un modo di superare le diverse forme di alienazione gravanti su
di essa e incentivate  dalle sue  sofisticherie 
o paralogismi  degradati o  nobilitati .Ancora un volta occorreva
emancipare quella povera esistenza da tutte le tare e le scorie del mondo che
la opprimevano per rendere possibile, sempre di là da venire o sempre  più tardi, l’accesso alla società perfetta
persa  e non mai trovata nelle origini o
nel futuro. E allora come affrontare la contemporaneità multiforme  e proteica che ci fagocita  nel suo nonsense, etrogeineità, sintomi
plurali, riduzione dell’abitare senza territorio e abitanti del territorio in
una sorta di « patchwork nel quale i diversi elementi si fondono armoniosamente
in un insieme fortemente organico.» ma solo nella nostra testa o nelle nostre
aspirazioni.Il mondo come una “presentazione” 
come in una sorta di urna onirica  da cui a sorte tirare fuori merce  e simboli a caso al di là delle relazioni e
degli scambi materiali ed immateriali all’interno labirintico   di una continua mediazione provvisoria tra il
microcosmo personale e un macrocosmo collettivo. E poi ineluttabilmente   finire
nel calderone  del consumismo a tutti
costi , dei luoghi comuni come riferimento , dell’emozionale percettivo come
rimedio  al mortifero razionalismo
moderno. Ecco perché in questo difficile passaggio  d’epoca 
in cui  si è stabilita una guerra
insidiosa e  non dichiarata tra essere ed
apparire , pensiero e realtà,combattuta con le armi  della critica spuntata  che non sa farsi  più critica delle armi stesse…. e
costretta  alla ricerca neocinica  per  cercare di dare  un senso 
e una possibile declinazione 
concreta alla categoria di 
“comunitario” e  non cadere per
converso nei gorghi regressivi della categoria 
di “immunitario” con tutte le sue scorie  e derive  di razzismo etnico o  omofobico . Più del ricorso al “tribalismo”
creativo e minimalista  sembra opportuno
un ritorno originale e radicale  al
termine “comunitarismo” con la precauzione dell’aggettivo “provvisorio”. E’
nelle “comunità provvisorie” che si formano e si attraggono cercare volta per
volta   di  dare un senso e un nome alla malattia del
secolo dei “post” intorno alla esigenza  e voglia di avvenire  partendo  proprio nei “piccoli paesi” che di avvenire
hanno ben poco nel doloroso isolamento di  senso 
che si vive nei paesi appenninici di duecento anime. E lì che si possono
rintracciare  le macerie e i segni  archeologici 
tra le anime delle panchine   che
hanno perso le tracce o i ricordi  del
loro passato .“C‘è stato un altro tempo – scrive F. Arminio- in cui si sapeva
cosa attendere e per cosa lottare, non era ancora l‘epoca dell‘equivoco di
massa in cui siamo calati‖ ……Non sto facendo l‘elogio della sopravvivenza. So
bene che per noi la sopravvivenza è tutto, ma non basta‖ . Provvisorietà e
sopravvivenza  non come stati d’animo
depressivi,regressivi o estetizzanti e cinici . Un sapere arreso con le dita
conficcate nella terra  e con gli occhi
infilati nelle crepe  delle macerie  di uno sviluppo senza progresso e anima. Un
recupero del senso di spazio e tempo sapendo che  : “Siamo tutti – precisa ancora  F. Arminio- sotto un enorme massa di detriti.
È la frana del tempo che passa. Il mondo è fermo, noi non siamo fermi, noi ci
dibattiamo credendo di muoverci, in realtà, quando ci accorgiamo del tempo,
quello se ne è già andato. Non aspettiamo che trascorra, perché non lo sentiamo
andare via. Solo dopo che se ne è andato, lo rimpiangiamo. E questa la vera dannazione
a cui siamo condannati, a cui è condannato chi non sa dare valore al suo tempo
terreno. Che è anche l'unico che abbiamo. Tempus tantum nostrum est, diceva
Seneca, solo il tempo è nostro, il nostro tempo mortale”. Le comunità
provvisorie che si formano, si sciolgono, si ritrovano sempre su un territorio
concreto e conservato dall’abbandono o dalla lontananza  o un paese determinato nella sua storia alle
sue spalle. Questi territori o paesi  sono e non sono  legame o ‘koinè’ di appartenenza o identità ma
che danno un senso  anche alle reti e ai
nodi che si frequentano, ai ponti, 
porte, finestre mai come   prospettive di identità,o di  ricerca di una mitologia fondante . Le
“comunità provvisorie e paesologiche “ non vogliono essere il contraltare  ideologico delle  “ 
tribù nomadi”  della nuova
sociologia moderna  e non vogliono altresì
cercare il senso profondo del   “mito”
rispetto alla superficialità delle “icone” del postmoderno. Insomma la
paesologia  non cerca  l’eden naturalistico nei detriti o i materiali  di riporto dei paesi  appenninici dell’abbandono  per ricreare 
nuovo umanesimo delle colline   ma
solo  per provare   nuove esperienze  esistenziali  
liberandosi  della tenaglia   concettuale e ideologica tra  una “ragione 
padrona, dispotica   e 
autoritaria e l’accettazione e  l’adeguamento 
a «nuovo legame sociale più flessibile e più effimero. [….) un nuovo
spirito del tempo, nel senso forte del termine” in una  sorta di “nomadismo postmoderno (che ) parla
veramente di una realtà sotterranea, e anche di una vita intensa che sembra
avere la meglio quasi insensibilmente, a dispetto dell’esistenza sclerotizzata
e istituzionalizzata.»” (Maffessoli).
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
